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Crisi d’impresa: trust e società semplice di mero godimento a confronto

Crisi d’impresa: trust e società semplice di mero godimento a confronto
Crisi d’impresa: trust e società semplice di mero godimento a confronto

Abstract:

Gli istituti giuridici - previsti dall’ordinamento italiano - che consentono di porre dei vincoli alla destinazione dei beni in proprietà del privato o della persona giuridica sono oggigiorno molteplici: fondo patrimoniale, trust, vincolo ex articolo 2645 ter del codice civile, società semplice di mero godimento, azioni correlate, patrimoni destinati. Cercheremo quindi, date le molteplici affinità ma anche i numerosissimi ed importantissimi profili di divergenza che caratterizzano i vincoli di prendere in considerazione i “pro” e “contro” di due di tali istituti - trust e società semplice di mero godimento -, sempre più utilizzati, in via alternativa, da imprenditori in crisi o che intendono semplicemente prevenire le conseguenze di possibili future fasi di  accentuata passività.

 

1. Introduzione

Gli istituti giuridici - previsti dall’ordinamento italiano - che consentono di porre dei vincoli alla destinazione dei beni in proprietà del privato o della persona giuridica sono oggigiorno molteplici: fondo patrimoniale, trust, vincolo ex articolo 2645 ter del codice civile, società semplice di mero godimento, azioni correlate, patrimoni destinati. Cercheremo quindi, date le molteplici affinità ma anche i numerosissimi ed importantissimi profili di divergenza che caratterizzano i vincoli di prendere in considerazione i “pro” e “contro” di due di tali istituti - trust e società semplice di mero godimento -, sempre più utilizzati, in via alternativa, da imprenditori in crisi o che intendono semplicemente prevenire le conseguenze di possibili future fasi di accentuata passività.

Il trust assume senza dubbio un fondamentale rilievo in relazione all’ambito familiare dell’imprenditore potenzialmente o effettivamente in stato di crisi: in tali casi, infatti, il trust dovrà essere effettivamente volto a soddisfare in modo più agevole e rapido le ragioni creditorie degli aventi diritto, non potendosi ritenere valido un trust falsamente diretto ad ottenere tale risultato ma, in concreto, volto a privare i creditori della garanzia patrimoniale del debitore.

Recentemente, sempre più viene accostata a detto istituto anche la possibilità di costituire una società semplice di mero godimento: apparentemente due figure molto distanti tra loro e volte ad ottenere effetti diversi ma che, quantomeno nel caso di ingenti patrimoni immobiliari, possono essere adoperate per raggiungere, con sfumature diverse, lo scopo segregativo oggetto di analisi.

 

2. Differenti tipologie di trust

Con l’istituto del trust, nella sua conformazione classica, un settlor (disponente), al fine di tutelare o realizzare determinati interessi di un terzo beneficiario, trasferisce la proprietà di alcuni suoi beni ad un trustee, il cui compito è quello di amministrare e gestire detti beni, affinché si concretizzi lo scopo dichiarato dal disponente.

In Italia, detto istituto ha trovato parziale riconoscimento con la ratifica della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, avvenuta con Legge 16 ottobre 1989, n. 384 (ed entrata in vigore il 1° gennaio 1992): con essa si è reso solamente possibile il riconoscimento, nel nostro Paese, di trust costituiti secondo una legge straniera che li ammetta, senza creare un vero nuovo istituto e, tantomeno, senza disciplinare con una normativa interna tale figura [giova ricordare che, come anche affermato più volte dalla Corte di Cassazione, il trust mai assume personalità giuridica nel nostro ordinamento e pertanto mai potrà configurarsi quale autonomo soggetto di diritto; cfr. Cassazione civile 27 gennaio 2017, n. 2043].

Conformazioni particolari del trust hanno dato adito ad articolati dibattiti in dottrina: vista la sede, ci limiteremo a segnalare le soluzioni prevalenti e preferibili cui si è ad oggi pervenuti.

In relazione al c.d. “trust auto-dichiarato”, ove le figure di settlor e di trustee coincidono in capo al medesimo soggetto, la dottrina e la giurisprudenza hanno ammesso tale forma di trust nel nostro ordinamento giuridico e, addirittura, hanno talvolta ritenuto che il disponente possa assumere anche la qualifica di beneficiario, purché non sia l’unico.

Qualora il trust sia utilizzato per evitare (o facilitare e velocizzare) una procedura concorsuale, da parte dell’imprenditore in crisi, è preferibile utilizzare un trust c.d. di scopo - unanimemente ritenuto valido -, ossia privo di effettivi beneficiari [non è difatti del tutto corretto configurare i creditori come “beneficiari”, avendo gli stessi un diritto di credito già certo, liquido ed esigibile che non discende dall’istituzione del trust ma da obbligazioni preesistenti] ma volto unicamente a realizzare un fine determinato che, nel caso di specie, è proprio la fuoriuscita dalla situazione passiva.

In relazione all’ammissibilità di un trust c.d. “interno”, costituito in Italia, ove tutti gli elementi soggettivi (settlor, trustee e beneficiari) ed oggettivi (i beni) sono italiani (o situati in Italia) e, pertanto, ove l’unico elemento di internazionalità è rappresentato dalla legge straniera applicata per regolarlo e scelta dal costituente (rectius disponente), va detto che, seppur parte - minoritaria - della dottrina e qualche rara pronuncia giurisprudenziale di merito ne abbiano negata l’ammissibilità, la tesi nettamente prevalente e preferibile propende, invece, per l’ammissibilità di tale tipo di trust.

Un cenno merita ancora il trust c.d. sham, l’accordo tra settlor e trustee sorretto dalla «intenzione di far venire in essere un rapporto giuridico diverso dal trust in favore del disponente e che questa sua intenzione sia finalizzata a produrre una falsa impressione nei terzi» [M. Lupoi, Istituzioni del diritto dei trust e degli affidamenti fiduciari, 2008, Padova, 71]. In sede di crisi d’impresa, come si accennava, si deve distinguere tra trust volto effettivamente a soddisfare le ragioni dei creditori e trust solo apparentemente finalizzato a ciò ma, concretamente, volto a ridurre la garanzia patrimoniale dell’imprenditore debitore e, come tale, affetto da causa di nullità in quanto sham.

3. Il “trust liquidatorio” e la crisi d’impresa

Prima di passare in rassegna le varie tipologie di trust liquidatorio proposte dalla dottrina, va ribadito, in via preliminare, che non sempre l’utilizzo del trust per prevenire o uscire da una fase di crisi imprenditoriale risulta legittimo: come sintetizzato efficacemente in un recente studio del C.N.N., «la legittimità dell’utilizzo del trust dipende dalla legittimità dell’intera operazione nel cui ambito si inserisce l’atto di segregazione. Se i debitori e i terzi agiscono nei limiti consentiti dalla legge fallimentare e dal sistema delle revocatorie […] nulla osta a che il programma di risanamento e di liquidazione dell’impresa passi anche per il tramite del trust» [Studio n. 305-2015/I, M. Palazzo].

In una fase precedente alla crisi vera e propria, può ipotizzarsi un trust “protettivo” al fine di evitare azioni esecutive da parte di determinati creditori ed attuato vincolando alcuni beni sociali alla soddisfazione di questi ultimi; dato l’effetto di costituire una sorta di prelazione atipica a favore dei creditori più significativi, è raro che tale tipo di trust possa essere impugnato - in quanto pregiudizievole - ai sensi dell’articolo 2929-bis del codice civile.

Legittimo viene riconosciuto anche il trust “di salvataggio”, messo in atto da un imprenditore già in stato di crisi - non ancora irreversibile - e volto ad evitare un’istanza di fallimento: il disponente/imprenditore avanza una proposta di concordato preventivo basata sull’istituzione di un trust, dotato di finalità o liquidatorie (ossia il trustee dovrà vendere i beni e liquidare, con il ricavato, i creditori) o di risanamento aziendale. I vantaggi di questo procedimento sono notevoli ma, di contro, si riscontrano svantaggi di natura economico-fiscale: i notevoli costi di costituzione di un trust e la tassazione dello stesso, come si vedrà.

Foriero di maggiori dubbi e problematicità appare, poi, il trust “puramente liquidatorio”, istituito quale alternativa alle procedure di cui agli articoli 2487 e ss. del codice civile ed il cui scopo, verosimilmente, è quello di non seguire i principi stabiliti per la liquidazione dal Codice stesso. Il maggior problema pratico cui dà luogo questo tipo di trust è rappresentato dalla possibilità di cancellare la società nonostante l’effettiva liquidazione non sia stata ancora compiuta, bensì solo “delegata” al trustee; possibilità che viene costantemente e categoricamente negata, ad esempio, dal Tribunale di Milano [Cfr. Trib. Milano, 12 settembre 2013; Trib. Milano, 12 marzo 2012; Trib. di Milano, 22 novembre 2013; Trib. Milano, 31 dicembre 2013]. Difatti, secondo la condivisibile impostazione adottata da questi Giudici, solo l’approvazione del bilancio finale di liquidazione può dar seguito alla definitiva cancellazione della società dal Registro delle Imprese.

Infine, la sentenza Cass. civ. 9 maggio 2014, n. 10105 ha per la prima volta analizzato la figura del trust “falsamente liquidatorio”, il cui unico scopo sarebbe ostacolare le pretese creditorie e procrastinare il fallimento di imprenditori già “decotti” (il termine è di M. Palazzo, cit.). I principi cardine che si possono ricavare dalla citata pronuncia sono: la necessaria valutazione della “causa concreta” del trust (senza limitarsi all’analisi della sola “causa astratta”, esternata dal disponente nell’atto istitutivo), la necessaria estraneità all’ordinamento italiano dei trust che violino principi di ordine pubblico interno e il disconoscimento in Italia di trust che sostituiscano la procedura fallimentare laddove la situazione di crisi si sia già prodotta e sia irreversibile.

 

4. La società semplice di mero godimento

Come anticipato, anche in considerazione del favor del legislatore per la c.d. “società semplice di mero godimento” che sembra potersi desumere dai recenti interventi normativi di natura prevalentemente fiscale, sempre più viene valutata l’ipotesi dell’utilizzo di tale forma giuridica per la segregazione di ingenti patrimoni immobiliari.

Va dunque preso preliminarmente in esame l’annoso problema dell’ammissibilità, nel nostro ordinamento, di una società semplice di mero godimento.

Partendo da un raffronto tra la “società civile” prevista dal Codice del 1865 e la legislazione codicistica del 1942, una parte della dottrina tende a negare cittadinanza in Italia ad una società semplice che abbia ad oggetto il mero godimento di beni, in quanto così si violerebbe il necessario carattere non commerciale di questo tipo di società.

Con due significativi studi del Consiglio Nazionale del Notariato [n. 69-2016/I e n. 73-2016/I], cui pare aver aderito anche la giurisprudenza di merito, è stata sancita l’ammissibilità di una società siffatta, ponendo a base dell’argomentazione ragioni che difficilmente possono essere avversate.

In particolare, nel primo di tali studi citati si analizza quasi unicamente il profilo della - legislativamente prevista - ammissibilità della trasformazione di società commerciali in società semplici, le quali potranno continuare ad esercitare la propria attività di godimento immobiliare con tale veste giuridica: il legislatore avrebbe ben potuto prevedere la trasformazione, non in società semplici, ma in comunioni di azienda, laddove avesse ritenuto che l’unica attività permessa alle società di cui agli articoli 2249 e ss. del codice civile sia quella agricola. Da ciò si conclude che «la diversificazione di trattamento delle due vicende (sì alla trasformazione, no alla costituzione) sarebbe […] in manifesto contrasto con il principio costituzionale di parità di trattamento» [P. Spada, Studio n. 69-2016/I cit.].

L’elemento fondamentale addotto a sostegno dell’ammissibilità della società semplice di mero godimento, però, è rappresentato dalla periodica fioritura di normativa fiscale emanata in relazione a tale figura societaria [articolo 29 Legge 27 dicembre 1997, n. 449; articolo 3, comma 7, Legge 28 dicembre 2001, n. 448; articolo 1, commi 111-117, Legge 27 dicembre 2006, n. 296; articolo 1 comma 129, Legge 24 dicembre 2007, n. 244 e, recentemente, articolo 1 comma 115, Legge 28 dicembre 2015, n. 208, agevolazione poi prorogata dall’articolo 1, comma 565, Legge 11 dicembre 2016 n. 232]: questo tipo di agevolazione fiscale non può essere visto, secondo gli interpreti, come una deroga temporanea al diritto civile ma, piuttosto, come un’innovazione apportata dal diritto fiscale al diritto civile, sulla scia anche di una recente giurisprudenza di legittimità che ammette la nullità civilistica per violazione di norme fiscali imperative.

Va ancora segnalato, però, che, pur aderendo alla tesi che ammette tale tipologia di società semplice, devono essere assunte alcune misure precauzionali, in special modo nelle ipotesi - quali quelle oggetto di analisi - in cui tale forma giuridica venga utilizzata, in concreto, per “vincolare” determinati beni: l’oggetto sociale dovrà essere analitico, facendo però attenzione, nel caso in cui si faccia riferimento a “fattispecie dismissive” e ad attività organizzative, che potrebbero far sorgere il dubbio circa la natura commerciale della società stessa; inoltre, deve tenersi a mente che qualora una società semplice, nata con lo scopo unico di godere di un patrimonio immobiliare, successivamente compia anche attività commerciale, la stessa diverrà “irregolare”, subendo tutte le relative conseguenza negative previste dal Codice.

Da tutte queste premesse, dunque, secondo la prevalente dottrina la società semplice di mero godimento non può essere “sconfessata” e, anche laddove si ritenga che l’attività economica di cui all’articolo 2247 del codice civile debba essere sempre di tipo produttivo, una società semplice di godimento si possa ammettere quale «società speciale dove la forma è sociale, ma non lo è lo scopo, con la conseguenza che rimangono le norme organizzative della s.s., ma valgono le norme correttive circa lo scopo» [G. Baralis, Studio n. 73-2016/I cit.].

 

Parte II