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Danno alla persona e danno esistenziale.

Oggi gli operatori del diritto devono fare spesso i conti con una società globalizzata, dove sembra non ci siano limiti alla persona ed alla sua libertà di autodeterminarsi.

Già attraverso una lettura moderna della società pare di cogliere un disagio in un <<eccesso d’ordine>> intorno alla persona.

Il concetto di ordine della società moderna postula il sacrificio della libertà individuale per ottenere una condizione di sicurezza.

La nostra, però, è una società postmoderna caratterizzata da una deregulation generale (Z. Bauman, “La Società dell’incertezza”).

La coazione e la rinuncia forzata che un tempo sembravano delle necessità per la sicurezza di tutti, combattono oggi la loro battaglia contro la libertà individuale senza avere garanzie di successo.

Nella società postmoderna l’ordine è pur sempre un ideale da perseguire ma attraverso sforzi, percorsi e volontà individuali. La libertà individuale è diventata oggi il vantaggio e la risorsa maggiore nel processo costante di autocreazione dell’universo umano.

Di conseguenza un argomento come quello del danno alla persona non può che risentire del mutamento socio - economico che è proprio dei nostri giorni.

Dal punto di vista del diritto, a partire dagli anni settanta (grazie alla giurisprudenza genovese e pisana) si registra una svolta nella materia del danno alla persona.

Accanto alle figure del danno patrimoniale (nel considerare il fare reddituale della persona, risarcibile ex art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (nei termini della tradizione giurisprudenziale e secondo la lettura dell’art. 2059 c.c. in riferimento al concetto di “pecunia doloris”) si elabora la figura del c.d. danno biologico: una voce del danno alla persona nuova, considerata in una componente statica, di una diminuzione dell’integrità psico - fisica dell’individuo accertabile in sede medico - legale, ed in una componente dinamica, quale nocumento dei valori esistenziali correlati al pieno e libero sviluppo della persona umana.

Sul punto il riferimento è alla Corte Costituzionale con la sentenza del 1986 n. 184 (sentenza Dell’Andro). La storia di tale sentenza è ormai nota, ma senza dubbio in materia di danno alla persona è dagli anni novanta fino ad oggi che la giurisprudenza ha fatto passi da gigante nell’interpretazione dei pregiudizi alla persona sempre più complicati

La sentenza della Corte Costituzionale del 1986/184 ha gettato le basi per una nuova considerazione del danno non patrimoniale, stabilendo che limitarsi ad una semplice contrapposizione tra danno patrimoniale e danno morale comporta che numerose fattispecie di lesioni siano escluse perché non includono pregiudizi che possono incidere su numerosi aspetti della personalità dell’individuo, a cui la Costituzione (art. 2 e ss.) garantisce una tutela generale e primaria.

La centralità della persona dell’individuo, quale bene di rilievo costituzionale e che in una società consumistica (come lo è diventata quella odierna) spesso è oggetto di lesioni sempre diverse sia come natura che come forme di manifestazione.

Numerosi sono gli elementi che si presentano quali componenti strutturali del valore della personalità; nel tentativo di coglierne i fondamentali pare opportuno un accenno alla questione dell’identità dell’individuo.

Da tempo i giuristi hanno riconosciuto al diritto all’identità personale una legittimità tipica di una società civile, mediante una ricostruzione come << diritto a non vedere alterati i tratti qualificanti della propria persona >>.

Pertanto, l’identità sociale è afferente alla dimensione pubblica della persona e, senza trascurare l’identità interna dell’uomo, il termine sociale richiama senz’altro l’assetto relazionale che lega l’individuo alla società.

Il valore dell’identità considera l’uomo nella sua dimensione globale, esterna ed interna: essa assume un chiaro significato sia in termini di inserimento sociale, di ruoli, di aspettative che la società ha nei confronti dell’individuo; identità, ad esempio, come appartenenza a comunità etiche o religiose, a gruppi politici, associazioni e quant’altro.

Diversi campi del vivere sociale dove spesso la rivendicazione dell’identità, dal punto di vista del diritto, contrasta con altri valori della persona umana.

Questo perché, da parte dei giuristi, il diritto all’identità personale può essere visto separatamente da altri aspetti della personalità individuale, come l’onore, la reputazione, l’immagine sociale nel senso del modo in cui si appare agli occhi del pubblico.

Ma è pur vero, se ci allontaniamo dalla tradizione, che molti aspetti della personalità dell’uomo finiscono per coincidere con l’identità, rappresentandone anzi delle specificazioni.

Considerando l’identità un bene della persona, esso può essere oggetto non solo di discriminazioni ma anche di comportamenti la cui conseguenza sia mortificare le possibilità di auto-individuazione, che rende una “persona quella persona”.

Il bene dell’identità può e deve trovare tutela nel sistema di responsabilità civile e la questione del danno esistenziale appare connessa anche ad ipotesi di lesione dell’identità, come sintesi dei connotati che rendono una persona esistente verso il mondo delle cose e delle relazioni.

Il valore dell’identità della persona anche se consideriamo la sfera di creatività dell’uomo e delle attività ad esse correlate.

La qualificazione del danno esistenziale ha un carattere di “novità” che trova proprio nella giurisprudenza di merito la sua consacrazione originaria.

Ciò è necessario a fronte dell’individuazione di nuove categorie di pregiudizi, quindi perfettamente allineati alla realtà odierna di una società globalizzata, con la finalità di apprestare una tutela in senso ampio della persona e del valore uomo in coerenza a quei principi della Costituzione (non soltanto l’art. 32) che il legislatore non può disattendere.

È la lettura dell’art. 2059 del c.c. che può offrire la chiave per comprendere la dinamica del danno esistenziale. A questo proposito la Corte di Cassazione ha sicuramente contribuito ad una reinterpretazione dell’art. 2059 c.c con due sentenze depositate il medesimo giorno (31 maggio 2003 nn. 8828 e 8827, entrambe in Foro it., 2003, 1, 2272), della Terza Sezione Civile: in tale occasione si è ribadito come non possa più essere ricondotto, il concetto di danno non patrimoniale, al mero danno morale soggettivo e ha interpretato l’art. 2059 c.c. nel senso che "il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona".

A differenza del danno biologico, si considerano eventi lesivi che non necessariamente richiamano valutazioni tecniche basate su parametri o tabelle, piuttosto inferenze negative e pregiudizievoli in senso ampio.

Ciò che si vuole tutelare è il danno causato da un fatto – evento cagionato da terzi anche qualora questo non si traduca nella concreta e materiale lesione dell’integrità fisico – psichica, ma incida negativamente sulle possibilità realizzatrici della persona umana.

Tuttavia mentre il danno biologico identificando una concreta lesione suscettibile di accertamento medico – legale viene provato, ai fini risarcitori, con riferimento all’entità, quello esistenziale, qualificato come “lesione in sé”, deve essere specificamente provato nei suoi stessi presupposti; quest’ultimo può sussistere anche come esclusiva ed unica conseguenza del fatto che si assume lesivo.

Certo è che il riconoscimento del danno esistenziale quale categoria autonoma e risarcibile di danno alla persona non deve portare alla proliferazione di nuove figure che sul piano normativo appaiono di dubbia legittimità, suscettibili di facili strumentalizzazioni. Altro importante contributo della Corte di Cassazione è quello delle Sezioni Unite con sentenza 6572/2006 che «per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito (…) provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso».

Il danno esistenziale pare configurarsi là dove le altre categorie di danno alla persona non riescono ad offrire una tutela piena. Ciò almeno è possibile per i sostenitori di un sistema di responsabilità civile che nella materia del danno alla persona non sia statico e costretto nei confini del danno biologico e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c. funzionalmente collegato all’art. 185 c.p.).

Pertanto si può per adesso fare una breve sintesi considerando nella materia del danno alla persona e del danno non patrimoniale tre tipologie:

- danno morale soggettivo tradizionalmente costituito da una sofferenza psicologica o dal turbamento transitorio provocato dal fatto illecito; da sempre è considerato l’esempio tipico (una volta l’unico) di danno non patrimoniale;

- danno biologico che costituisce il frutto di elaborazione giurisprudenziale (ma recentemente ha trovato significative conferme a livello legislativo con l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 38 del 2000 e della L. n. 57 del 2001) ed è costituito dalla compromissione, di natura areddituale, dell’integrità psicofisica della persona. Generalmente è ritenuto necessario che a questa compromissione si accompagni una perdita o riduzione di funzioni vitali, anche non definitiva. La lesione del bene giuridico tutelato non necessariamente comporta un pregiudizio di natura patrimoniale ed è anzi svincolata da tale pregiudizio;

- danno esistenziale che è invece ricollegato ad un peggioramento non temporaneo della qualità della vita del danneggiato con un conseguente mutamento radicale delle proprie abitudini e dei suoi rapporti, ad esempio, personali e familiari.

Anche se il problema forma oggetto di vivaci dispute, soprattutto in dottrina, non sembra corretto affermare che il danno morale soggettivo sarebbe di fatto assorbito dal danno esistenziale perchè, con questa affermazione, si confonde la natura delle due tipologie di danno: il danno morale soggettivo (pati) si esaurisce nel dolore provocato dal fatto dannoso, è un danno transeunte di natura esclusivamente psicologica; il danno esistenziale (non facere ma anche un facere obbligato che prima non esisteva), pur avendo conseguenze di natura psicologica, si traduce in cambiamenti peggiorativi permanenti, anche se non sempre definitivi, delle proprie abitudini di vita e in un mutamento peggiorativo tendenzialmente irreversibile delle relazioni interpersonali.

La categoria del danno esistenziale può essere accolta come una sintesi di quelle situazioni soggettive negative di carattere psico-fisico non riconducibili né al danno morale soggettivo né al danno biologico.

Senza trascurare, nel caso specifico, quella esigenza di tipicità ed il principio generale dell’ordinamento in base al quale il danno deve essere sopportato dal suo autore, sicché il danneggiante è tenuto a risarcire tutto il danno ma solo il danno a lui ascrivibile.

Il tema del danno non patrimoniale occupa da tempo una posizione centrale nell’elaborazione giurisprudenziale e nella dottrina.

Ma per i giudici, chiamati ad applicare la legge, si presenta spesso un compito di chiarificazione, dei casi sottoposti al loro giudizi soprattutto in occasioni che spesso riflettono esigenze di tutela né prevedibili, né prevenibili.

Casi che spesso spingono, per evitare il pericolo di una giustizia lenta, ad una forzatura della legge, la quale non sembra più un valore ma soltanto uno strumento.

Il tema del riconoscimento del “danno esistenziale” risarcibile non deve rappresentare un percorso per una costruzione ideologica.

Un dato fondamentale da prendere in considerazione è il livello di benessere raggiunto dalle società economicamente più sviluppate. Richiamando concetti propri di altre discipline si potrebbe rappresentare quella che è la scala dei bisogni di Maslow. Dai bisogni di prima necessità l’uomo passa alla ricerca e soddisfazione di bisogni di livello superiore, di autorealizzazione e di appartenenza alla società, che rappresentano beni della persona umana da proteggere e tutelare.

Questione fondamentale è quella di individuare i casi in cui si può parlare di danno esistenziale e, di conseguenza, organizzare adeguatamente lo schema del suo concreto risarcimento.

Un contributo si rinviene nella sentenza 6572/2006, ove le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si preoccupano più che della definizione del danno esistenziale, del suo contenuto e della prova che il danneggiato è chiamato a offrirne. Pertanto si osserva che i «pregiudizi che l’illecito (…) provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno», cioè i danni esistenziali, venivano già risarciti sotto altre classificazioni nominali: come componenti del danno biologico, come danni alla vita di relazione, come danni morali, ecc.
Le Sezioni Unite di questa Corte sono quindi recentissimamente giunte ad affermare che il danno esistenziale consiste in “ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”.
Le Sezioni Unite hanno altresì sottolineato che il “danno esistenziale” non consiste in meri “dolori e sofferenze”, ma deve aver determinato “concreti cambiamenti, in senso peggiorativo, nella qualità della vita”.
Ne emerge dunque una figura di danno alla salute in senso lato che, pur dovendo – diversamente dal danno morale soggettivo (v. Cass. 10 agosto 2004, n. 15418) – obiettivarsi, a differenza del danno biologico rimane integrato a prescindere dalla relativa accertabilità in sede medico-legale.
Nel porre in rilievo che la Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, questa Corte ha sottolineato come il danno non patrimoniale costituisca categoria ampia e comprensiva di ogni ipotesi in cui risulti leso un valore inerente la persona ( ancora le sentenze del maggio 2003).
Tra gli interessi essenziali rilevanti come la salute, la famiglia, la libertà di pensiero, etc., senz’altro troviamo quelli relativi alla sfera degli affetti ed alla reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, alla libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale che è la famiglia, trovanti fondamento e garanzia costituzionale negli artt. 2, 29 e 30 Cost.
Altra figura Interessante è quella del danno alla vita di relazione. Dalla sentenza della Cass. Sez. III, 13 marzo 1980, n. 1693, per la quale «il cosiddetto danno alla vita di relazione è da considerare danno di natura patrimoniale, risolvendosi in particolare, nel pregiudizio economico relativo alla riduzione della capacità di espansione dell’attività del soggetto nella sfera dei rapporti socio-economici», e da Cass. Sez. III, 18 ottobre 1980, n. 5606, che, precisando il concetto appena espresso, afferma che «il danno alla vita di relazione – che, come componente del danno patrimoniale, non s’identifica né col danno morale e neppure col danno morale cosiddetto obiettivo (quale la perdita del sostegno materiale-affettivo di un congiunto), né con una mera diminuzione della capacità lavorativa – consiste nella compromissione peggiorativa dell’attività psicofisica del soggetto, risolventesi nella menomazione dell’attitudine ai rapporti interpersonali e nella diminuzione della cosiddetta capacità di concorrenza nonché nella compromissione della possibilità di affermazione sul piano sociale».

Con l’affermazione a partire dal 1986 del danno biologico, il danno alla vita di relazione ha cessato di essere una componente del danno patrimoniale ed è diventato una componente del danno biologico: la Cassazione afferma che «il danno costituito dalla compromissione della capacità psico-fisica di un soggetto che incida negativamente non sulla capacità di produrre reddito ma sulla esplicazione di attività diverse da quella lavorativa normale come le attività ricreative e quelle sociali (già qualificato come “danno alla vita di relazione”) rientra nel concetto di danno alla salute, e pertanto, va liquidato soltanto a tale titolo».

L’esempio del danno alla vita di relazione ci induce a considerare, anche mediante un approccio meno giuridico, quale sia la natura dei danni non patrimoniali.

Quest’ultimi hanno intrinsecamente una natura soggettiva. Ciò si riflette nella società odierna dove la tendenza è quella di considerare la dimensione soggettiva e/o individuale dei singoli, la propria libertà al di sopra di ogni cosa e spesso a favore dell’isolamento, della diffidenza o dell’eccesso di prudenza o di difesa. Una società, tuttavia, dell’incertezza dato che le libertà o le possibilità che ci vengono offerte dall’ambiente esterno, come “slogan pubblicitari”, ostacolano la ricerca di una identità personale concreta e coerente. Semmai ci sentiamo spesso oggetto di nuovi pregiudizi rispetto ai quali siamo pronti a rivendicare i nostri diritti. Ma forse è soltanto il frutto di una società frustrata e che vive intorno a noi.

Oggi gli operatori del diritto devono fare spesso i conti con una società globalizzata, dove sembra non ci siano limiti alla persona ed alla sua libertà di autodeterminarsi.

Già attraverso una lettura moderna della società pare di cogliere un disagio in un <<eccesso d’ordine>> intorno alla persona.

Il concetto di ordine della società moderna postula il sacrificio della libertà individuale per ottenere una condizione di sicurezza.

La nostra, però, è una società postmoderna caratterizzata da una deregulation generale (Z. Bauman, “La Società dell’incertezza”).

La coazione e la rinuncia forzata che un tempo sembravano delle necessità per la sicurezza di tutti, combattono oggi la loro battaglia contro la libertà individuale senza avere garanzie di successo.

Nella società postmoderna l’ordine è pur sempre un ideale da perseguire ma attraverso sforzi, percorsi e volontà individuali. La libertà individuale è diventata oggi il vantaggio e la risorsa maggiore nel processo costante di autocreazione dell’universo umano.

Di conseguenza un argomento come quello del danno alla persona non può che risentire del mutamento socio - economico che è proprio dei nostri giorni.

Dal punto di vista del diritto, a partire dagli anni settanta (grazie alla giurisprudenza genovese e pisana) si registra una svolta nella materia del danno alla persona.

Accanto alle figure del danno patrimoniale (nel considerare il fare reddituale della persona, risarcibile ex art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (nei termini della tradizione giurisprudenziale e secondo la lettura dell’art. 2059 c.c. in riferimento al concetto di “pecunia doloris”) si elabora la figura del c.d. danno biologico: una voce del danno alla persona nuova, considerata in una componente statica, di una diminuzione dell’integrità psico - fisica dell’individuo accertabile in sede medico - legale, ed in una componente dinamica, quale nocumento dei valori esistenziali correlati al pieno e libero sviluppo della persona umana.

Sul punto il riferimento è alla Corte Costituzionale con la sentenza del 1986 n. 184 (sentenza Dell’Andro). La storia di tale sentenza è ormai nota, ma senza dubbio in materia di danno alla persona è dagli anni novanta fino ad oggi che la giurisprudenza ha fatto passi da gigante nell’interpretazione dei pregiudizi alla persona sempre più complicati

La sentenza della Corte Costituzionale del 1986/184 ha gettato le basi per una nuova considerazione del danno non patrimoniale, stabilendo che limitarsi ad una semplice contrapposizione tra danno patrimoniale e danno morale comporta che numerose fattispecie di lesioni siano escluse perché non includono pregiudizi che possono incidere su numerosi aspetti della personalità dell’individuo, a cui la Costituzione (art. 2 e ss.) garantisce una tutela generale e primaria.

La centralità della persona dell’individuo, quale bene di rilievo costituzionale e che in una società consumistica (come lo è diventata quella odierna) spesso è oggetto di lesioni sempre diverse sia come natura che come forme di manifestazione.

Numerosi sono gli elementi che si presentano quali componenti strutturali del valore della personalità; nel tentativo di coglierne i fondamentali pare opportuno un accenno alla questione dell’identità dell’individuo.

Da tempo i giuristi hanno riconosciuto al diritto all’identità personale una legittimità tipica di una società civile, mediante una ricostruzione come << diritto a non vedere alterati i tratti qualificanti della propria persona >>.

Pertanto, l’identità sociale è afferente alla dimensione pubblica della persona e, senza trascurare l’identità interna dell’uomo, il termine sociale richiama senz’altro l’assetto relazionale che lega l’individuo alla società.

Il valore dell’identità considera l’uomo nella sua dimensione globale, esterna ed interna: essa assume un chiaro significato sia in termini di inserimento sociale, di ruoli, di aspettative che la società ha nei confronti dell’individuo; identità, ad esempio, come appartenenza a comunità etiche o religiose, a gruppi politici, associazioni e quant’altro.

Diversi campi del vivere sociale dove spesso la rivendicazione dell’identità, dal punto di vista del diritto, contrasta con altri valori della persona umana.

Questo perché, da parte dei giuristi, il diritto all’identità personale può essere visto separatamente da altri aspetti della personalità individuale, come l’onore, la reputazione, l’immagine sociale nel senso del modo in cui si appare agli occhi del pubblico.

Ma è pur vero, se ci allontaniamo dalla tradizione, che molti aspetti della personalità dell’uomo finiscono per coincidere con l’identità, rappresentandone anzi delle specificazioni.

Considerando l’identità un bene della persona, esso può essere oggetto non solo di discriminazioni ma anche di comportamenti la cui conseguenza sia mortificare le possibilità di auto-individuazione, che rende una “persona quella persona”.

Il bene dell’identità può e deve trovare tutela nel sistema di responsabilità civile e la questione del danno esistenziale appare connessa anche ad ipotesi di lesione dell’identità, come sintesi dei connotati che rendono una persona esistente verso il mondo delle cose e delle relazioni.

Il valore dell’identità della persona anche se consideriamo la sfera di creatività dell’uomo e delle attività ad esse correlate.

La qualificazione del danno esistenziale ha un carattere di “novità” che trova proprio nella giurisprudenza di merito la sua consacrazione originaria.

Ciò è necessario a fronte dell’individuazione di nuove categorie di pregiudizi, quindi perfettamente allineati alla realtà odierna di una società globalizzata, con la finalità di apprestare una tutela in senso ampio della persona e del valore uomo in coerenza a quei principi della Costituzione (non soltanto l’art. 32) che il legislatore non può disattendere.

È la lettura dell’art. 2059 del c.c. che può offrire la chiave per comprendere la dinamica del danno esistenziale. A questo proposito la Corte di Cassazione ha sicuramente contribuito ad una reinterpretazione dell’art. 2059 c.c con due sentenze depositate il medesimo giorno (31 maggio 2003 nn. 8828 e 8827, entrambe in Foro it., 2003, 1, 2272), della Terza Sezione Civile: in tale occasione si è ribadito come non possa più essere ricondotto, il concetto di danno non patrimoniale, al mero danno morale soggettivo e ha interpretato l’art. 2059 c.c. nel senso che "il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona".

A differenza del danno biologico, si considerano eventi lesivi che non necessariamente richiamano valutazioni tecniche basate su parametri o tabelle, piuttosto inferenze negative e pregiudizievoli in senso ampio.

Ciò che si vuole tutelare è il danno causato da un fatto – evento cagionato da terzi anche qualora questo non si traduca nella concreta e materiale lesione dell’integrità fisico – psichica, ma incida negativamente sulle possibilità realizzatrici della persona umana.

Tuttavia mentre il danno biologico identificando una concreta lesione suscettibile di accertamento medico – legale viene provato, ai fini risarcitori, con riferimento all’entità, quello esistenziale, qualificato come “lesione in sé”, deve essere specificamente provato nei suoi stessi presupposti; quest’ultimo può sussistere anche come esclusiva ed unica conseguenza del fatto che si assume lesivo.

Certo è che il riconoscimento del danno esistenziale quale categoria autonoma e risarcibile di danno alla persona non deve portare alla proliferazione di nuove figure che sul piano normativo appaiono di dubbia legittimità, suscettibili di facili strumentalizzazioni. Altro importante contributo della Corte di Cassazione è quello delle Sezioni Unite con sentenza 6572/2006 che «per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito (…) provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso».

Il danno esistenziale pare configurarsi là dove le altre categorie di danno alla persona non riescono ad offrire una tutela piena. Ciò almeno è possibile per i sostenitori di un sistema di responsabilità civile che nella materia del danno alla persona non sia statico e costretto nei confini del danno biologico e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c. funzionalmente collegato all’art. 185 c.p.).

Pertanto si può per adesso fare una breve sintesi considerando nella materia del danno alla persona e del danno non patrimoniale tre tipologie:

- danno morale soggettivo tradizionalmente costituito da una sofferenza psicologica o dal turbamento transitorio provocato dal fatto illecito; da sempre è considerato l’esempio tipico (una volta l’unico) di danno non patrimoniale;

- danno biologico che costituisce il frutto di elaborazione giurisprudenziale (ma recentemente ha trovato significative conferme a livello legislativo con l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 38 del 2000 e della L. n. 57 del 2001) ed è costituito dalla compromissione, di natura areddituale, dell’integrità psicofisica della persona. Generalmente è ritenuto necessario che a questa compromissione si accompagni una perdita o riduzione di funzioni vitali, anche non definitiva. La lesione del bene giuridico tutelato non necessariamente comporta un pregiudizio di natura patrimoniale ed è anzi svincolata da tale pregiudizio;

- danno esistenziale che è invece ricollegato ad un peggioramento non temporaneo della qualità della vita del danneggiato con un conseguente mutamento radicale delle proprie abitudini e dei suoi rapporti, ad esempio, personali e familiari.

Anche se il problema forma oggetto di vivaci dispute, soprattutto in dottrina, non sembra corretto affermare che il danno morale soggettivo sarebbe di fatto assorbito dal danno esistenziale perchè, con questa affermazione, si confonde la natura delle due tipologie di danno: il danno morale soggettivo (pati) si esaurisce nel dolore provocato dal fatto dannoso, è un danno transeunte di natura esclusivamente psicologica; il danno esistenziale (non facere ma anche un facere obbligato che prima non esisteva), pur avendo conseguenze di natura psicologica, si traduce in cambiamenti peggiorativi permanenti, anche se non sempre definitivi, delle proprie abitudini di vita e in un mutamento peggiorativo tendenzialmente irreversibile delle relazioni interpersonali.

La categoria del danno esistenziale può essere accolta come una sintesi di quelle situazioni soggettive negative di carattere psico-fisico non riconducibili né al danno morale soggettivo né al danno biologico.

Senza trascurare, nel caso specifico, quella esigenza di tipicità ed il principio generale dell’ordinamento in base al quale il danno deve essere sopportato dal suo autore, sicché il danneggiante è tenuto a risarcire tutto il danno ma solo il danno a lui ascrivibile.

Il tema del danno non patrimoniale occupa da tempo una posizione centrale nell’elaborazione giurisprudenziale e nella dottrina.

Ma per i giudici, chiamati ad applicare la legge, si presenta spesso un compito di chiarificazione, dei casi sottoposti al loro giudizi soprattutto in occasioni che spesso riflettono esigenze di tutela né prevedibili, né prevenibili.

Casi che spesso spingono, per evitare il pericolo di una giustizia lenta, ad una forzatura della legge, la quale non sembra più un valore ma soltanto uno strumento.

Il tema del riconoscimento del “danno esistenziale” risarcibile non deve rappresentare un percorso per una costruzione ideologica.

Un dato fondamentale da prendere in considerazione è il livello di benessere raggiunto dalle società economicamente più sviluppate. Richiamando concetti propri di altre discipline si potrebbe rappresentare quella che è la scala dei bisogni di Maslow. Dai bisogni di prima necessità l’uomo passa alla ricerca e soddisfazione di bisogni di livello superiore, di autorealizzazione e di appartenenza alla società, che rappresentano beni della persona umana da proteggere e tutelare.

Questione fondamentale è quella di individuare i casi in cui si può parlare di danno esistenziale e, di conseguenza, organizzare adeguatamente lo schema del suo concreto risarcimento.

Un contributo si rinviene nella sentenza 6572/2006, ove le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si preoccupano più che della definizione del danno esistenziale, del suo contenuto e della prova che il danneggiato è chiamato a offrirne. Pertanto si osserva che i «pregiudizi che l’illecito (…) provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno», cioè i danni esistenziali, venivano già risarciti sotto altre classificazioni nominali: come componenti del danno biologico, come danni alla vita di relazione, come danni morali, ecc.
Le Sezioni Unite di questa Corte sono quindi recentissimamente giunte ad affermare che il danno esistenziale consiste in “ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”.
Le Sezioni Unite hanno altresì sottolineato che il “danno esistenziale” non consiste in meri “dolori e sofferenze”, ma deve aver determinato “concreti cambiamenti, in senso peggiorativo, nella qualità della vita”.
Ne emerge dunque una figura di danno alla salute in senso lato che, pur dovendo – diversamente dal danno morale soggettivo (v. Cass. 10 agosto 2004, n. 15418) – obiettivarsi, a differenza del danno biologico rimane integrato a prescindere dalla relativa accertabilità in sede medico-legale.
Nel porre in rilievo che la Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, questa Corte ha sottolineato come il danno non patrimoniale costituisca categoria ampia e comprensiva di ogni ipotesi in cui risulti leso un valore inerente la persona ( ancora le sentenze del maggio 2003).
Tra gli interessi essenziali rilevanti come la salute, la famiglia, la libertà di pensiero, etc., senz’altro troviamo quelli relativi alla sfera degli affetti ed alla reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, alla libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale che è la famiglia, trovanti fondamento e garanzia costituzionale negli artt. 2, 29 e 30 Cost.
Altra figura Interessante è quella del danno alla vita di relazione. Dalla sentenza della Cass. Sez. III, 13 marzo 1980, n. 1693, per la quale «il cosiddetto danno alla vita di relazione è da considerare danno di natura patrimoniale, risolvendosi in particolare, nel pregiudizio economico relativo alla riduzione della capacità di espansione dell’attività del soggetto nella sfera dei rapporti socio-economici», e da Cass. Sez. III, 18 ottobre 1980, n. 5606, che, precisando il concetto appena espresso, afferma che «il danno alla vita di relazione – che, come componente del danno patrimoniale, non s’identifica né col danno morale e neppure col danno morale cosiddetto obiettivo (quale la perdita del sostegno materiale-affettivo di un congiunto), né con una mera diminuzione della capacità lavorativa – consiste nella compromissione peggiorativa dell’attività psicofisica del soggetto, risolventesi nella menomazione dell’attitudine ai rapporti interpersonali e nella diminuzione della cosiddetta capacità di concorrenza nonché nella compromissione della possibilità di affermazione sul piano sociale». >Oggi gli operatori del diritto devono fare spesso i conti con una società globalizzata, dove sembra non ci siano limiti alla persona ed alla sua libertà di autodeterminarsi.

Già attraverso una lettura moderna della società pare di cogliere un disagio in un <<eccesso d’ordine>> intorno alla persona.

Il concetto di ordine della società moderna postula il sacrificio della libertà individuale per ottenere una condizione di sicurezza.

La nostra, però, è una società postmoderna caratterizzata da una deregulation generale (Z. Bauman, “La Società dell’incertezza”).

La coazione e la rinuncia forzata che un tempo sembravano delle necessità per la sicurezza di tutti, combattono oggi la loro battaglia contro la libertà individuale senza avere garanzie di successo.

Nella società postmoderna l’ordine è pur sempre un ideale da perseguire ma attraverso sforzi, percorsi e volontà individuali. La libertà individuale è diventata oggi il vantaggio e la risorsa maggiore nel processo costante di autocreazione dell’universo umano.

Di conseguenza un argomento come quello del danno alla persona non può che risentire del mutamento socio - economico che è proprio dei nostri giorni.

Dal punto di vista del diritto, a partire dagli anni settanta (grazie alla giurisprudenza genovese e pisana) si registra una svolta nella materia del danno alla persona.

Accanto alle figure del danno patrimoniale (nel considerare il fare reddituale della persona, risarcibile ex art. 1223 c.c.) e del danno non patrimoniale (nei termini della tradizione giurisprudenziale e secondo la lettura dell’art. 2059 c.c. in riferimento al concetto di “pecunia doloris”) si elabora la figura del c.d. danno biologico: una voce del danno alla persona nuova, considerata in una componente statica, di una diminuzione dell’integrità psico - fisica dell’individuo accertabile in sede medico - legale, ed in una componente dinamica, quale nocumento dei valori esistenziali correlati al pieno e libero sviluppo della persona umana.

Sul punto il riferimento è alla Corte Costituzionale con la sentenza del 1986 n. 184 (sentenza Dell’Andro). La storia di tale sentenza è ormai nota, ma senza dubbio in materia di danno alla persona è dagli anni novanta fino ad oggi che la giurisprudenza ha fatto passi da gigante nell’interpretazione dei pregiudizi alla persona sempre più complicati

La sentenza della Corte Costituzionale del 1986/184 ha gettato le basi per una nuova considerazione del danno non patrimoniale, stabilendo che limitarsi ad una semplice contrapposizione tra danno patrimoniale e danno morale comporta che numerose fattispecie di lesioni siano escluse perché non includono pregiudizi che possono incidere su numerosi aspetti della personalità dell’individuo, a cui la Costituzione (art. 2 e ss.) garantisce una tutela generale e primaria.

La centralità della persona dell’individuo, quale bene di rilievo costituzionale e che in una società consumistica (come lo è diventata quella odierna) spesso è oggetto di lesioni sempre diverse sia come natura che come forme di manifestazione.

Numerosi sono gli elementi che si presentano quali componenti strutturali del valore della personalità; nel tentativo di coglierne i fondamentali pare opportuno un accenno alla questione dell’identità dell’individuo.

Da tempo i giuristi hanno riconosciuto al diritto all’identità personale una legittimità tipica di una società civile, mediante una ricostruzione come << diritto a non vedere alterati i tratti qualificanti della propria persona >>.

Pertanto, l’identità sociale è afferente alla dimensione pubblica della persona e, senza trascurare l’identità interna dell’uomo, il termine sociale richiama senz’altro l’assetto relazionale che lega l’individuo alla società.

Il valore dell’identità considera l’uomo nella sua dimensione globale, esterna ed interna: essa assume un chiaro significato sia in termini di inserimento sociale, di ruoli, di aspettative che la società ha nei confronti dell’individuo; identità, ad esempio, come appartenenza a comunità etiche o religiose, a gruppi politici, associazioni e quant’altro.

Diversi campi del vivere sociale dove spesso la rivendicazione dell’identità, dal punto di vista del diritto, contrasta con altri valori della persona umana.

Questo perché, da parte dei giuristi, il diritto all’identità personale può essere visto separatamente da altri aspetti della personalità individuale, come l’onore, la reputazione, l’immagine sociale nel senso del modo in cui si appare agli occhi del pubblico.

Ma è pur vero, se ci allontaniamo dalla tradizione, che molti aspetti della personalità dell’uomo finiscono per coincidere con l’identità, rappresentandone anzi delle specificazioni.

Considerando l’identità un bene della persona, esso può essere oggetto non solo di discriminazioni ma anche di comportamenti la cui conseguenza sia mortificare le possibilità di auto-individuazione, che rende una “persona quella persona”.

Il bene dell’identità può e deve trovare tutela nel sistema di responsabilità civile e la questione del danno esistenziale appare connessa anche ad ipotesi di lesione dell’identità, come sintesi dei connotati che rendono una persona esistente verso il mondo delle cose e delle relazioni.

Il valore dell’identità della persona anche se consideriamo la sfera di creatività dell’uomo e delle attività ad esse correlate.

La qualificazione del danno esistenziale ha un carattere di “novità” che trova proprio nella giurisprudenza di merito la sua consacrazione originaria.

Ciò è necessario a fronte dell’individuazione di nuove categorie di pregiudizi, quindi perfettamente allineati alla realtà odierna di una società globalizzata, con la finalità di apprestare una tutela in senso ampio della persona e del valore uomo in coerenza a quei principi della Costituzione (non soltanto l’art. 32) che il legislatore non può disattendere.

È la lettura dell’art. 2059 del c.c. che può offrire la chiave per comprendere la dinamica del danno esistenziale. A questo proposito la Corte di Cassazione ha sicuramente contribuito ad una reinterpretazione dell’art. 2059 c.c con due sentenze depositate il medesimo giorno (31 maggio 2003 nn. 8828 e 8827, entrambe in Foro it., 2003, 1, 2272), della Terza Sezione Civile: in tale occasione si è ribadito come non possa più essere ricondotto, il concetto di danno non patrimoniale, al mero danno morale soggettivo e ha interpretato l’art. 2059 c.c. nel senso che "il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore inerente alla persona".

A differenza del danno biologico, si considerano eventi lesivi che non necessariamente richiamano valutazioni tecniche basate su parametri o tabelle, piuttosto inferenze negative e pregiudizievoli in senso ampio.

Ciò che si vuole tutelare è il danno causato da un fatto – evento cagionato da terzi anche qualora questo non si traduca nella concreta e materiale lesione dell’integrità fisico – psichica, ma incida negativamente sulle possibilità realizzatrici della persona umana.

Tuttavia mentre il danno biologico identificando una concreta lesione suscettibile di accertamento medico – legale viene provato, ai fini risarcitori, con riferimento all’entità, quello esistenziale, qualificato come “lesione in sé”, deve essere specificamente provato nei suoi stessi presupposti; quest’ultimo può sussistere anche come esclusiva ed unica conseguenza del fatto che si assume lesivo.

Certo è che il riconoscimento del danno esistenziale quale categoria autonoma e risarcibile di danno alla persona non deve portare alla proliferazione di nuove figure che sul piano normativo appaiono di dubbia legittimità, suscettibili di facili strumentalizzazioni. Altro importante contributo della Corte di Cassazione è quello delle Sezioni Unite con sentenza 6572/2006 che «per danno esistenziale si intende ogni pregiudizio che l’illecito (…) provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Peraltro il danno esistenziale si fonda sulla natura non meramente emotiva ed interiore (propria del cosiddetto danno morale), ma oggettivamente accertabile del pregiudizio, attraverso la prova di scelte di vita diverse da quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso».

Il danno esistenziale pare configurarsi là dove le altre categorie di danno alla persona non riescono ad offrire una tutela piena. Ciò almeno è possibile per i sostenitori di un sistema di responsabilità civile che nella materia del danno alla persona non sia statico e costretto nei confini del danno biologico e del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c. funzionalmente collegato all’art. 185 c.p.).

Pertanto si può per adesso fare una breve sintesi considerando nella materia del danno alla persona e del danno non patrimoniale tre tipologie:

- danno morale soggettivo tradizionalmente costituito da una sofferenza psicologica o dal turbamento transitorio provocato dal fatto illecito; da sempre è considerato l’esempio tipico (una volta l’unico) di danno non patrimoniale;

- danno biologico che costituisce il frutto di elaborazione giurisprudenziale (ma recentemente ha trovato significative conferme a livello legislativo con l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 38 del 2000 e della L. n. 57 del 2001) ed è costituito dalla compromissione, di natura areddituale, dell’integrità psicofisica della persona. Generalmente è ritenuto necessario che a questa compromissione si accompagni una perdita o riduzione di funzioni vitali, anche non definitiva. La lesione del bene giuridico tutelato non necessariamente comporta un pregiudizio di natura patrimoniale ed è anzi svincolata da tale pregiudizio;

- danno esistenziale che è invece ricollegato ad un peggioramento non temporaneo della qualità della vita del danneggiato con un conseguente mutamento radicale delle proprie abitudini e dei suoi rapporti, ad esempio, personali e familiari.

Anche se il problema forma oggetto di vivaci dispute, soprattutto in dottrina, non sembra corretto affermare che il danno morale soggettivo sarebbe di fatto assorbito dal danno esistenziale perchè, con questa affermazione, si confonde la natura delle due tipologie di danno: il danno morale soggettivo (pati) si esaurisce nel dolore provocato dal fatto dannoso, è un danno transeunte di natura esclusivamente psicologica; il danno esistenziale (non facere ma anche un facere obbligato che prima non esisteva), pur avendo conseguenze di natura psicologica, si traduce in cambiamenti peggiorativi permanenti, anche se non sempre definitivi, delle proprie abitudini di vita e in un mutamento peggiorativo tendenzialmente irreversibile delle relazioni interpersonali.

La categoria del danno esistenziale può essere accolta come una sintesi di quelle situazioni soggettive negative di carattere psico-fisico non riconducibili né al danno morale soggettivo né al danno biologico.

Senza trascurare, nel caso specifico, quella esigenza di tipicità ed il principio generale dell’ordinamento in base al quale il danno deve essere sopportato dal suo autore, sicché il danneggiante è tenuto a risarcire tutto il danno ma solo il danno a lui ascrivibile.

Il tema del danno non patrimoniale occupa da tempo una posizione centrale nell’elaborazione giurisprudenziale e nella dottrina.

Ma per i giudici, chiamati ad applicare la legge, si presenta spesso un compito di chiarificazione, dei casi sottoposti al loro giudizi soprattutto in occasioni che spesso riflettono esigenze di tutela né prevedibili, né prevenibili.

Casi che spesso spingono, per evitare il pericolo di una giustizia lenta, ad una forzatura della legge, la quale non sembra più un valore ma soltanto uno strumento.

Il tema del riconoscimento del “danno esistenziale” risarcibile non deve rappresentare un percorso per una costruzione ideologica.

Un dato fondamentale da prendere in considerazione è il livello di benessere raggiunto dalle società economicamente più sviluppate. Richiamando concetti propri di altre discipline si potrebbe rappresentare quella che è la scala dei bisogni di Maslow. Dai bisogni di prima necessità l’uomo passa alla ricerca e soddisfazione di bisogni di livello superiore, di autorealizzazione e di appartenenza alla società, che rappresentano beni della persona umana da proteggere e tutelare.

Questione fondamentale è quella di individuare i casi in cui si può parlare di danno esistenziale e, di conseguenza, organizzare adeguatamente lo schema del suo concreto risarcimento.

Un contributo si rinviene nella sentenza 6572/2006, ove le Sezioni Unite della Corte di Cassazione si preoccupano più che della definizione del danno esistenziale, del suo contenuto e della prova che il danneggiato è chiamato a offrirne. Pertanto si osserva che i «pregiudizi che l’illecito (…) provoca sul fare areddituale del soggetto, alterando le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, sconvolgendo la sua quotidianità e privandolo di occasioni per la espressione e la realizzazione della sua personalità nel mondo esterno», cioè i danni esistenziali, venivano già risarciti sotto altre classificazioni nominali: come componenti del danno biologico, come danni alla vita di relazione, come danni morali, ecc.
Le Sezioni Unite di questa Corte sono quindi recentissimamente giunte ad affermare che il danno esistenziale consiste in “ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all’espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno”.
Le Sezioni Unite hanno altresì sottolineato che il “danno esistenziale” non consiste in meri “dolori e sofferenze”, ma deve aver determinato “concreti cambiamenti, in senso peggiorativo, nella qualità della vita”.
Ne emerge dunque una figura di danno alla salute in senso lato che, pur dovendo – diversamente dal danno morale soggettivo (v. Cass. 10 agosto 2004, n. 15418) – obiettivarsi, a differenza del danno biologico rimane integrato a prescindere dalla relativa accertabilità in sede medico-legale.
Nel porre in rilievo che la Costituzione riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, questa Corte ha sottolineato come il danno non patrimoniale costituisca categoria ampia e comprensiva di ogni ipotesi in cui risulti leso un valore inerente la persona ( ancora le sentenze del maggio 2003).
Tra gli interessi essenziali rilevanti come la salute, la famiglia, la libertà di pensiero, etc., senz’altro troviamo quelli relativi alla sfera degli affetti ed alla reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, alla libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare formazione sociale che è la famiglia, trovanti fondamento e garanzia costituzionale negli artt. 2, 29 e 30 Cost.
Altra figura Interessante è quella del danno alla vita di relazione. Dalla sentenza della Cass. Sez. III, 13 marzo 1980, n. 1693, per la quale «il cosiddetto danno alla vita di relazione è da considerare danno di natura patrimoniale, risolvendosi in particolare, nel pregiudizio economico relativo alla riduzione della capacità di espansione dell’attività del soggetto nella sfera dei rapporti socio-economici», e da Cass. Sez. III, 18 ottobre 1980, n. 5606, che, precisando il concetto appena espresso, afferma che «il danno alla vita di relazione – che, come componente del danno patrimoniale, non s’identifica né col danno morale e neppure col danno morale cosiddetto obiettivo (quale la perdita del sostegno materiale-affettivo di un congiunto), né con una mera diminuzione della capacità lavorativa – consiste nella compromissione peggiorativa dell’attività psicofisica del soggetto, risolventesi nella menomazione dell’attitudine ai rapporti interpersonali e nella diminuzione della cosiddetta capacità di concorrenza nonché nella compromissione della possibilità di affermazione sul piano sociale».

Con l’affermazione a partire dal 1986 del danno biologico, il danno alla vita di relazione ha cessato di essere una componente del danno patrimoniale ed è diventato una componente del danno biologico: la Cassazione afferma che «il danno costituito dalla compromissione della capacità psico-fisica di un soggetto che incida negativamente non sulla capacità di produrre reddito ma sulla esplicazione di attività diverse da quella lavorativa normale come le attività ricreative e quelle sociali (già qualificato come “danno alla vita di relazione”) rientra nel concetto di danno alla salute, e pertanto, va liquidato soltanto a tale titolo».

L’esempio del danno alla vita di relazione ci induce a considerare, anche mediante un approccio meno giuridico, quale sia la natura dei danni non patrimoniali.

Quest’ultimi hanno intrinsecamente una natura soggettiva. Ciò si riflette nella società odierna dove la tendenza è quella di considerare la dimensione soggettiva e/o individuale dei singoli, la propria libertà al di sopra di ogni cosa e spesso a favore dell’isolamento, della diffidenza o dell’eccesso di prudenza o di difesa. Una società, tuttavia, dell’incertezza dato che le libertà o le possibilità che ci vengono offerte dall’ambiente esterno, come “slogan pubblicitari”, ostacolano la ricerca di una identità personale concreta e coerente. Semmai ci sentiamo spesso oggetto di nuovi pregiudizi rispetto ai quali siamo pronti a rivendicare i nostri diritti. Ma forse è soltanto il frutto di una società frustrata e che vive intorno a noi.