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Declinazioni di violenza di genere: la violenza economica

Dalle leggi alle proposte per la scuola, una disamina del fenomeno
violenza economica
violenza economica

La pandemia da Covid 19 ha sicuramente fatto emergere, reso più visibili e in alcuni casi rafforzato disuguaglianze presenti nel tessuto sociale. Fra tutte è emersa la questione del divario socioeconomico che separa l’universo maschile da quello femminile. Le donne con il loro più elevato carico di lavoro, il più alto tasso di disoccupazione e l’inferiore retribuzione hanno visto peggiorare ulteriormente la loro situazione. Ciò ha contribuito ad incrementare, a livello mondiale, i casi di quella che viene definita violenza economica, fenomeno che, soventemente, si lega ai casi di violenza domestica.

 

La violenza economica sul piano normativo internazionale

Sul piano normativo internazionale si trovano dei riferimenti nella Convenzione di Istanbul che all’art. 3 nel definire la “violenza nei confronti delle donne” specifica che con essa si designa una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata.

Addirittura, la violenza di tipo economico viene ripresa al comma b nella definizione più specifica della fattispecie della “violenza domestica” che ricomprende tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima.

Tale forma di coercizione rende le donne ancor più deboli e vulnerabili dinanzi ai casi di violenza. È molto complicato, infatti, per una donna che non possa contare su solide basi economiche abbandonare il tetto coniugale e ancor più lo è se vi sono dei figli a carico. Questa oggettiva difficoltà tende molto spesso a far perdurare stati di maltrattamento.

 

Violenza economica: cosa dice la legge in Italia?

Sul piano nazionale a questo tipo di violazione non è associata una disciplina specifica è però possibile ricondurla sia all’ambito civilistico che a quello penalistico.

Nel primo caso, facendo riferimento all’art. 342 bis e 342 ter in materia di ordini di protezione contro gli abusi familiari.

Nel secondo caso, invece, anche se è possibile fare riferimento a molteplici condotte quali la violenza privata, la violazione degli obblighi di assistenza familiare e la violenza privata generalmente si riconduce la fattispecie all’art. 572 c.p. e cioè ai maltrattamenti in famiglia.

Questo orientamento è stato ribadito anche in una pronuncia del 2016 della Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. III, sentenza 6 maggio 2016, n. 18937) in cui si afferma che la privazione della necessaria disponibilità economica costituisce reato.

 

Abbattere la violenza economica partendo dalla scuola

Purtroppo, la persistenza di numerosi retaggi culturali fa sì che vi siano delle oggettive difficoltà ad identificare questo tipo di violenza. Nel 2021 è stato introdotto il c.d. Reddito di Libertà un sostegno economico che si quantifica in una somma di 400 euro mensili erogati dall’Inps per un anno a favore di donne vittime di violenza. Malgrado siano stati fatti dei visibili passi avanti in questo senso molto però deve e può essere ancora fatto soprattutto dal punto di vista culturale. Un primo ed importante intervento potrebbe essere portato avanti dalla scuola. Già in tenera età dovrebbero essere istituiti dei percorsi di formazione per far comprendere al bambino l’importanza del proprio corpo e della propria individualità. In questo modo inizieremmo a combattere il tabù e la giustificazione della violenza rendendo le future e potenziali vittime più consapevoli e meno spaventate dall’intraprendere un percorso di denuncia. L’istruzione poi dovrebbe progredire verso percorsi di enfatizzazione delle proprie capacità e non di evidenziazione dei propri limiti. Mettendo in luce le inclinazioni individuali sarebbe molto più facile individuare dei percorsi ad hoc capaci di favorire il talento e le politiche di occupazione. In breve, creare opportunità di emancipazione e autonomia.

Assistere nel giusto modo è sicuramente importante ma lo è ancora di più costruire una rete in grado di scardinare vecchi dogmi e antichi retaggi culturali. Sviluppando, infatti, attraverso l’istruzione, abilità, conoscenze e convinzioni si rende possibile il processo di autodeterminazione, processo che, si ritiene essenziale nel contrasto alla violenza in quanto esso induce ad agire per scelta e non per obbligo o costrizione.

Inoltre, come evidenziato da Deci e Ryan nella teoria dell’autodeterminazione la soddisfazione individuale è il risultato di tre bisogni: autonomia, competenza e relazioni, ambiti che, in casi di violenza, tendono a subire importanti contrazioni.

A parere di chi scrive, solo l’educazione culturale può produrre risultati rilevanti non solo a livello nazionale ma anche internazionale in una materia così delicata e complessa che coinvolge anche la dignità umana. È necessario promuovere un largo confronto interdisciplinare in cui integrare l’affermazione individuale delle donne con le loro istanze e i loro bisogni.

La violenza domestica annulla la donna nella sua individualità di essere umano e, se si riflette bene, essa risulta essere un fenomeno atipico se rapportato con una cultura, quella moderna, che punta proprio alla realizzazione dell’individualità soggettiva.

È pertanto necessario progredire verso nuove forme di cultura. Ci attende sicuramente un percorso travagliato ma che, con gli giusti strumenti e il corretto approccio, potremmo affrontare sicuramente con meno difficoltà.