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La violenza di genere: l’evoluzione normativa dal 1931 ad oggi

Violenza di genere
Violenza di genere

Chi segue le notizie di cronaca politica e giudiziaria in materia di reati riguardanti la violenza di genere sa bene che negli ultimi anni si sono susseguiti numerosi interventi, ognuno di questi in direzione di un sempre maggior inasprimento delle pene ed introduzione di nuove fattispecie criminose.

Conosciamo bene l’ultimo intervento del legislatore, ossia il Codice Rosso (Legge 69/2019), entrato in vigore appena un anno fa, di ampissima portata sia nel codice penale che in quello procedurale, il quale ha inasprito le pene e creato nuove fattispecie di reato (revenge porn su tutti).

Se guardiamo agli ultimi anni, è innegabile che il legislatore abbia voluto riservare gran parte dei lavori parlamentari a questi tipi di violenza, come volesse recuperare il tempo perduto.

Infatti l’Italia di pochi decenni fa era, quantomeno dal punto di vista della civiltà, molto diversa. Ricostruire l’evoluzione normativa dell’Italia dall’entrata in vigore della Costituzione ad oggi, mostra uno spaccato della nostra società.

Trattandosi di reati spesso commessi in ambito familiare, non si può prescindere dalla formulazione dell’articolo 144 del Codice Civile che fino al 1975, prevedeva, col titolo “potestà maritale”, quanto segue: “Il marito è il capo della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli crede opportuno di fissare la sua residenza”.

Al successivo articolo si prevedeva che il marito aveva l’obbligo di proteggere la moglie e di somministrarle il necessario.

Il dato normativo è difficilmente mal interpretabile. Il marito è il padrone della famiglia. La moglie, che non ha le capacità per provvedere a sé stessa, viene da lui protetta. Se poi costei lasciava la casa, la protezione era sospesa. Tutto ciò fino al 1975, data nella quale fu approvata la riforma del diritto di famiglia.

Occorre fare però un altro salto all’indietro, e precisamente nel 1968. Si registra in quell’anno una sentenza che ancora oggi viene ricordata come tappa necessaria per l’opera di civilizzazione dell’Italia. Stiamo parlando della sentenza n. 126 pronunciata dalla Corte Costituzionale, che dichiara incostituzionale l’articolo 559 Codice penale.

La fattispecie di reato in questione era il delitto di adulterio. Il testo normativo era il seguente: “La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. Con la stessa pena è punito il correo dell’adultera. La pena è della reclusione fino a due anni nel caso di relazione adulterina. Il delitto è punibile a querela del marito”. La Consulta ne dichiarò l’illegittimità in quanto, essendo punito solo il comportamento adultero della moglie, si veniva a creare “un privilegio assicurato al marito”, che violava ogni principio di eguaglianza.

Va sottolineato come si è arrivati alla cancellazione di questo reato non per scelta del Parlamento ma ad opera della magistratura costituzionale.

Il successivo intervento è datato 1981, quando con la legge n. 442 vengono abrogati gli articoli 544, 587 del Codice Penale. Molto brevemente, vediamo perché questo intervento è meritevole di essere ricordato.

L’articolo 544 prevedeva il c.d. “matrimonio riparatore” quale causa di estinzione del reato per i delitti di cui al Capo I (reati di violenza carnale ed altri) e per quello di cui all’articolo 530 (oggi abrogato in quanto “confluito” nel reato di violenza sessuale, come vedremo a breve), ossia il delitto di corruzione di minorenni.

Ciò significa che nel caso di commissione di questi fatti, il reo poteva estinguere il reato col matrimonio, considerato, come scriveva il Manzini, un “ravvedimento” previsto dalla legge penale. Come detto, la legge n. 442 del 1981 abrogava un’altra figura sinistra del nostro ordinamento, ossia il c.d. delitto d’onore, o meglio, usando le parole del codice, a causa di onore, previsto dall’articolo 587 Codice Penale.

Questo il testo di legge: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella. Se il colpevole cagiona, nelle stesse circostanze, alle dette persone, una lesione personale, le pene stabilite negli articoli 582 e 583 sono ridotte a un terzo; se dalla lesione personale deriva la morte, la pena è della reclusione da due a cinque anni. Non è punibile chi, nelle stesse circostanze, commette contro le dette persone il fatto preveduto dall’articolo 581”.

Doveroso sottolineare che l’ultimo comma prevedeva la totale esclusione di penale responsabilità nel solo caso di percosse contro il coniuge (ma anche figlia o sorella) colto sul fatto.

Il prossimo passaggio è quello più noto, ossia l’approvazione (molto travagliata) della legge n. 66 del 1996, forse quella che ha rivoluzionato l’intera idea giuridica di “violenza di genere”. Scopo di questa riforma era infatti quello di rendere la parte del Codice che si doveva occupare di questi reati in linea con rivoluzione della società, in una direzione del tutto diversa da quello che era il pensiero dei primi del ‘900.

Tra le varie modifiche, la citata legge abroga il delitto di “violenza carnale” previsto dall’articolo 519, e quello di “atti di libidine violenti”, previsto dall’articolo 521 Codice Penale.

Molto brevemente, il primo puniva chi costringeva la vittima ad un rapporto sessuale con minaccia o violenza (aggravata in caso di rapporto con infra quattordicenne, infermità psichica, ed altro), il secondo chi invece commetteva al di fuori della violenza carnale un atto di libidine sempre con violenza o minaccia.

La differenza era chiara: nel primo caso doveva esserci un rapporto sessuale (con coito) completo, mentre il secondo reato, che prevedeva una pena più bassa, avena natura per così dire “residuale”.

La Legge 66 del 1996, superando questa distinzione introduce la fattispecie della violenza sessuale di cui all’articolo 609 bis Codice Penale. La differenza tra la situazione precedente alla legge del 1996 e quella attuale è notevole, e si comprende dalla collocazione del nuovo reato nel codice, non più nel titolo IX, ossia “dei delitti contro la moralità e il buon costume”, bensì tra i “delitti contro la libertà personale”.

Si comprende facilmente come il legislatore abbia correttamente ritenuto che un rapporto sessuale estorto con violenza non vada inteso come pregiudizio alla collettività (tutela della procreazione) bensì alla sola vittima, titolare della libertà sessuale, così come ogni atto a sfondo sessuale, a prescindere che vi sia stato o no un rapporto, integri un pregiudizio alla libertà di autodeterminazione della propria corporeità sessuale.

Ma non solo.

Come spiegato in dottrina (FIANDACA – MUSCO, Diritto penale, parte speciale Vol. II Tomo I, Zanichelli) “l’unificazione in parola persegue, dunque, un obiettivo ben preciso: si vuole risparmiare alla vittima l’ulteriore umiliazione e la profonda interferenza nella sua sfera intima connesse alle indagini degli investigatori e dei magistrati, volte ad accettare quale dei due reati fosse ravvisabile nei fatti denunziati ovvero a verificare se vi fosse stata consumazione o solo tentativo”.

Le modifiche successive sono ben note (basti ricordare l’introduzione del delitto di atti persecutori, meglio noto come stalking, di cui all’articolo 612 bis) ma vale la pena ricordare che solamente dal 2012 il reato di maltrattamenti ex articolo 572 Codice Penale diventa anche contro conviventi e non solo familiari.

In quel caos il legislatore recepisce quello che era già da tempo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, che considerava i conviventi al di fuori del matrimonio, possibili persone offese per il reato di cui all’articolo 572.

Letture consigliate:

E. Fiandaca- G. Musco, Diritto penale, parte speciale Vol. II Tomo I, ed. Zanichelli 2011.

Piergallini, Viganò, Vizzardi, Verri, Trattato di diritto penale – parte speciale Volume X, ed. Cedam 2015.

 

Si consiglia anche la visione del film/documentario “Processo per stupro”, 1979.