x

x

Divieto di testimonianza e giusto processo tributario, alla luce della riforma del c.p.c.

1. Premessa. Storia della normativa: l’art. 7 comma 4 del D. Lgs. n. 546 del 1992

Il presente lavoro si riferisce alle problematiche sottese all’art. 7 comma 4 del D. Lgs. n. 546 del 1992, (che prevede la non ammissibilità, nel processo tributario, della prova testimoniale e del giuramento). In particolare, si esaminerà l’attuale valenza del divieto di prova testimoniale e la possibilità di sostenere la tesi contraria alla sua “sopravvivenza” nell’ordinamento tributario.

L’art. 7 riprende, sostanzialmente, il disposto dell’art. 35 D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, nella sua ultima versione (derivante da una modifica operata dall’art. 23 del D.P.R. 3 novembre 1981 n. 737, il quale aveva rimaneggiato gran parte della disciplina del contenzioso tributario), coerente con la tradizione del rito tributario, in un primo tempo riconducibile ad un procedimento di annullamento più che a un vero giudizio di cognizione. Tale norma attribuiva alle Commissioni di primo e secondo grado facoltà da esercitare d’ufficio “al fine di conoscere i fatti rilevanti per la decisione”, in un’ottica improntata a principi tipicamente inquisitori: nel corso dell’assunzione dei mezzi di prova o, più in generale, dei mezzi di informazione, i poteri riconosciuti alle parti si riassumevano nel diritto ad intervenire, a fare osservazioni ed a produrre proprie relazioni tecniche. Il divieto di ammissione del giuramento e della testimonianza, dunque, era già presente nel sistema ora abrogato, e, per effetto di una disposizione della legge delega, 30 dicembre 1991, n. 413, che, all’art. 30, primo comma, lettera d), stabilisce “…nei decreti legislativi sarà prevista l’esclusione della prova testimoniale e del giuramento nei procedimenti regolati dal presente articolo;…” è stato inserito senza sostanziali modifiche nel D. Lgs. n. 546 del 1992, ingenerando così una continuità con tale sistema ed evidenziando una precisa intenzione del legislatore in tal senso.

E’ subito evidente come tale perentorio divieto costituisca un grave limite al diritto di difesa, difficilmente spiegabile se si considera che già la stessa Relazione Ministeriale allo schema di decreto legislativo del ‘92, riconosceva un’evoluzione rispetto al passato (anche se non con specifico riferimento al comma 4), affermando “…L’art. 7, solo in parte riportabile all’art. 35 del decreto presidenziale sopra ricordato, attenua la natura tipicamente inquisitoria del processo tributario, in relazione al maggior spazio lasciato all’impulso di parte e soprattutto al venir meno della funzione assistenziale prima riconosciuta ai giudici tributari e ora soppiantata dall’obbligo delle parti private di munirsi dell’assistenza tecnica”.

A fortiori, quindi, il discorso vale oggi, a seguito delle modifiche introdotte nell’art. 111 Cost. dalla legge costituzionale n. 2/1999 (principi del “giusto processo”, ormai acquisiti non solo a livello nazionale, ma anche comunitario) e, da ultimo, dopo la riforma del rito civile (che ha portato, come si vedrà, ad interrogarsi sulla possibile applicazione del nuovo istituto della testimonianza scritta anche al processo tributario).

2. Dottrina contraria. Circolare ministeriale n. 17 del 7 aprile 2010

Da quanto esposto in premessa, risulta già comprensibile come il D. Lgs. 546/1992 non possa costituire l’unico punto di riferimento, in base al quale interpretare la disciplina del processo tributario, essendo, invece, necessario, integrare tale disciplina con quella del codice di procedura civile (come, d’altronde, espressamente previsto dall’art. 1 comma 2 del decreto stesso) e con la giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Quest’ultima, infatti, già prima della riforma introdotta nel c.p.c. con la legge n. 69 del 2009, aveva iniziato ad interpretare il D. Lgs. n. 546 alla luce del giusto processo di cui all’ art. 111 della Costituzione, con particolare riferimento, per ciò che qui interessa, al principio di cui al comma 2, che recita: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. E proprio la necessità di applicare il principio di “parità delle armi” processuali ha messo in evidenza le numerose lacune del D. Lgs. n. 546, alcune delle quali erano già state colmate, dalla Suprema Corte (valga per tutti l’es. della sentenza n. 25136 del 30.11.2009 con la quale la Corte aveva preso posizione sul principio di non contestazione dichiarandolo principio generale dell’ordinamento processuale, come tale applicabile anche al processo tributario), altre dalla nuova disciplina processualcivilistica.

E’ chiaro, però, che la situazione è ben differente nel caso della testimonianza. Per quanto, infatti, la nuova ottica del giusto processo porti sicuramente ad interrogarsi circa l’aderenza dell’art. 7 comma 4 al dettato costituzionale, qui non si è in presenza di una lacuna del D. Lgs., ma di una disposizione che espressamente vieta l’ utilizzabilità di questo mezzo di prova nel processo tributario, vincolando così l’interprete in maniera stringente.

Non a caso, la recente circolare ministeriale n. 17/E del 07 aprile 2010 dell’Agenzia delle Entrate, che illustra le principali novità normative introdotte dalla legge n. 69 del 2009 e le loro ricadute sul processo tributario (“La citata legge n. 69 del 2009 ha modificato alcune disposizioni del codice di procedura civile che trovano applicazione nel processo tributario stante il rinvio disposto dall’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, secondo il quale “I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”…), si limita a definire non rilevanti nel suddetto processo le modifiche in materia di testimonianza.

Una parte della dottrina ha quindi cercato di suffragare il dato normativo, basandosi essenzialmente sulle seguenti considerazioni:

1) “l’incompatibilità delle prove testimoniali nei rapporti disciplinati da norme imperative di legge”.

Si tratta di una posizione strettamente ancorata alla visione del processo tributario in chiave spiccatamente inquisitoria, che nelle sue manifestazioni più estremistiche ha portato parte della dottrina a sostenere finanche l’inammissibilità, in materia tributaria, di una regola di giudizio fondata sull’onere della prova, in base alla presunzione di legittimità dell’atto dell’Amministrazione finanziaria e alla “particolare struttura della prova in campo tributario, la quale è vista come oggetto non di un onere, bensì di un "obbligo" sia per il contribuente, di precostituire e conservare le prove, sia per l’Amministrazione finanziaria, di effettuare idonee verifiche, sia infine per il giudice tributario, di ricorrere ai poteri istruttori d’ufficio. In quest’ottica risulterebbe inutile una regola di giudizio sul fatto incerto, dovendosi addebitare l’incertezza stessa al titolare dell’obbligo, sanzionandolo con la soccombenza giudiziale” [Cfr. MASI P. “L’onere della prova nel processo tributario” in www.Giustizia tributaria.it Rivista cinque-sei];

2) una sorta di sfiducia nei confronti del testimone che, in quanto egli stesso contribuente, sarebbe negativamente influenzato, nella sua dichiarazione, nei confronti dell’Amministrazione finanziaria e considerato, come tale, inattendibile [Cfr. GAFFURI G., Lezioni di diritto tributario, Parte generale – Cedam 1989];

3) le esigenze di celerità e speditezza proprie del processo tributario, che sarebbero frustrate dall’ascolto in aula dei testimoni delle due parti;

4) (strettamente correlata alla precedente): la particolare natura del processo stesso, caratterizzato proprio dall’essere cartolare e documentale.

3. Dottrina favorevole

A tali ordini di considerazioni ha puntualmente obiettato altra parte della dottrina, decisamente favorevole all’eliminazione del divieto in esame dal D. Lgs. n. 546.

Per quanto riguarda la n. 1), si tratta, evidentemente, di un’impostazione ormai risalente, che poteva trovare forse una sua ragion d’essere nel sistema del 1972, in cui i profili inquisitori del processo tributario erano decisamente accentuati, ma difficilmente giustificabile già nel 1992, tanto che la stessa relazione ministeriale allo schema di D. Lgs., come si è detto, aveva preso posizione nel senso di un’attenuazione di tale carattere inquisitorio, (anche se con specifico riferimento “all’obbligo delle parti private di munirsi dell’assistenza tecnica”). La successiva evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, colmando le lacune dello stesso D. Lgs., ha comunque cercato di adeguarlo ai mutamenti legislativi e, soprattutto, costituzionali, susseguitisi nel tempo, cosicchè oggi, oltre a non dubitarsi più della sussistenza di un onere probatorio in capo ad entrambe le parti processuali, la dottrina tende piuttosto a ricostruire il processo tributario come “dispositivo con metodo acquisitivo”.

Quanto, poi, alla “sfiducia” nei confronti della dichiarazione testimoniale del contribuente, si è opposto che la non attendibilità del teste e la falsa testimonianza può riscontrarsi, anche per analoghi motivi, in altri processi, primo fra tutti quello penale, quindi non si vede perché tale sfiducia debba costituire un limite all’ingresso della prova testimoniale nel solo processo tributario.

Inoltre, le esigenze di celerità e speditezza, non basterebbero da sole a giustificare l’esclusione di un mezzo di prova quale quello testimoniale, che appare difficilmente sostituibile con altri, (e in particolare con le precostituite prove documentali), poiché consente al giudice di acquisire elementi di giudizio in modo diretto, avendo egli la possibilità di valutare in prima persona le risposte e le reazioni del testimone all’esame delle parti.

3.1 In particolare: la testimonianza scritta

Per quanto riguarda l’argomentazione di cui al n. 4), che si riferisce alla particolare “specificità” del processo tributario, individuata (anche dalla Corte Costituzionale) nell’essere tale processo cartolare e documentale, parte della dottrina si è interrogata relativamente alla possibilità di superare tale obiezione con il ricorso al nuovo istituto di cui all’art. 257 bis, introdotto nel c.p.c. dalla legge n. 69/2009, in un’ottica di razionalizzazione e semplificazione della fase istruttoria del processo civile: la testimonianza scritta, la cui assunzione può essere disposta dal giudice, previo accordo delle parti, valutata la natura della causa ed ogni altra circostanza. La deposizione è resa dal testimone compilando un apposito modello (approvato con d.m. 17-02-2010), predisposto dalla parte che ne ha chiesto l’ammissione ed articolato in specifici capitoli, tenendo conto di quelli ammessi dal giudice e dei requisiti richiesti dall’art. 103 bis disp. att. Ogni singola risposta del testimone deve poi essere sottoscritta con firma autenticata, ed il plico contenente la deposizione deve essere spedito con posta raccomandata o consegnato alla cancelleria del giudice. E’ espressamente prevista l’ applicabilità delle regole ordinarie in ordine alla facoltà del teste di astenersi ed alle sanzioni che il giudice può comminare al teste che non abbia reso la deposizione. Infine il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato. Questo, in sintesi, il contenuto della disposizione in esame, che, invero, ha suscitato vivaci discussioni già nella dottrina civilistica, che ha messo in evidenza come la testimonianza scritta faccia venir meno la stessa natura di questa prova, costituenda per eccellenza, e come tale da formarsi all’interno del processo, oltre ai dubbi circa l’attendibilità della prova stessa, decisamente attenuata dal mancato esame diretto del teste da parte del giudice e dal fatto che i capitoli di prova ben potrebbero essere articolati nel modo più favorevole ad una data risposta.

E’ chiaro, però, che ben diversamente si porrebbe la questione in diritto tributario, tanto che la testimonianza scritta “si presenta come una soluzione mediana decisamente accattivante, in una posizione per così dire a cavallo tra la realtà del processo civile, da un lato, e del processo tributario, dall’altro. Può osservarsi, infatti, che, nell’ipotesi si possa raggiungere la conclusione positiva alla sua ammissibilità nel processo tributario, si realizzerebbe una curiosa simmetria. La testimonianza scritta, introdotta nel processo civile come strumento di semplificazione e, in un certo senso, di restrizione (facoltativa) delle garanzie e formalismi necessari per la prova, calata nel processo tributario costituirebbe, all’inverso, un allargamento dello strumentario probatorio a disposizione delle parti (e delle garanzie del diritto di azione). Lo strumento della testimonianza scritta potrebbe, insomma, essere la “veste” nella quale calare un avvio di soluzione, sistematica, al problema dell’ingresso delle dichiarazioni di terzo nel processo tributario.” [Cfr. MARCHESELLI A. “Riforma del rito civile, testimonianza scritta e giusto processo tributario” in www.Giustiziatributaria.it].

Date queste premesse, però, è necessario verificare la effettiva possibilità di applicazione di questo istituto al processo tributario, e, in particolare, quindi, se esso consenta di superare il divieto di cui all’art. 7 comma 4. La suddetta dottrina propone un’argomentazione a contrario, oltre che storico-sistematica: la ragione del divieto sarebbe da individuare non in una aprioristica volontà di esclusione dei mezzi di prova basati sulla scienza del terzo, ma proprio nel carattere storicamente cartolare e documentale del rito tributario, più volte richiamato a sostegno della legittimità di tale divieto anche dalla stessa Corte Costituzionale, e nell’essere la testimonianza orale la sola conosciuta al momento dell’introduzione del divieto stesso. Ma, in questo caso, essendo la testimonianza non più orale, essa dovrebbe essere esclusa dal campo di applicazione dell’art 7 comma 4. E’ chiaro, però, che anche a voler accettare questa impostazione, residuano una serie di problemi interpretativi, che ne rendono molto difficoltosa l’ applicazione al rito tributario e dovuti soprattutto al fatto che nel processo civile la testimonianza scritta resta comunque un mezzo facoltativo rispetto a quella orale: così lo stesso autore mette in evidenza come, se si accogliesse l’ipotesi dell’applicabilità dell’art. 257 bis, bisognerebbe sicuramente espungerne sia l’accordo delle parti, (che, venendo meno, “paralizzerebbe non uno dei modi alternativi di realizzare il diritto alla prova dell’altra, ma il diritto alla prova tout court”), sia il comma 8 relativo alla possibilità del giudice di disporre comunque la deposizione del testimone dinanzi a lui o al giudice delegato, poiché questo ricadrebbe nell’espresso divieto dell’art. 7. E, oltre questo, la testimonianza scritta è comunque disciplinata rinviando a quella orale, con tutte le formalità proprie di questo mezzo di prova, che il legislatore ha voluto espressamente escludere; esclusione, questa, la cui legittimità risulta, allo stato, confermata dalla Corte Costituzionale, anche a seguito delle più recenti aperture relative al tema delle dichiarazioni di terzi.

4. Giurisprudenza contraria

A questo punto, dovrebbe risultare comprensibile come, in relazione alla disposizione in esame, siano state più volte sollevate, nel tempo, questioni di legittimità, tutte peraltro disattese dalla Corte Costituzionale, sulla base del principio di discrezionalità del legislatore, sempre riconosciuto dalla Corte, anche con notevole ampiezza, purchè frutto “di una scelta razionale del legislatore, derivante dal tipo di configurazione del processo e dalle situazioni sostanziali dedotte in giudizio (...), anche in relazione all’epoca della disciplina e alle tradizioni storiche di ciascun procedimento ..." (sentenza n. 82 del 1996). Con il solo limite, quindi, della illogicità.

Una parziale inversione di tendenza da parte della Consulta, nel senso di una maggiore apertura verso le esigenze di tutela del diritto di difesa delle parti (e soprattutto del contribuente) si è avuta nel 2000, con la sentenza n. 18 del 21 gennaio. In tale occasione la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 7 comma 4 in riferimento agli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione. Nel ribadire ancora una volta la legittimità del divieto di testimonianza nel processo tributario essa ha stabilito che:

1) “va anzitutto escluso che il divieto di prova testimoniale, essendo formulato in termini generali ed astratti, possa collidere con il principio di "parità delle armi" che (…) rappresenta l’espressione in campo processuale del principio di eguaglianza”. Infatti, “il divieto della prova testimoniale trova, nella specie, una sua non irragionevole giustificazione da un lato nella "spiccata specificità" del processo tributario rispetto a quello civile ed amministrativo, "correlata sia alla configurazione dell’organo decidente sia al rapporto sostanziale oggetto del giudizio" (sentenza n. 53 del 1998), dall’altro nella circostanza, pur essa sottolineata dalla giurisprudenza di questa Corte e dalla dottrina, che il processo tributario é ancora, specie sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale (sentenza n. 141 del 1998).”

2) Quanto all’asserita violazione del parametro di cui all’art. 24 della Costituzione, la Corte ha ribadito che “l’esclusione della prova testimoniale nel processo tributario non costituisce, di per sè, violazione del diritto di difesa, potendo quest’ultimo, ai fini della formazione del convincimento del giudice, essere diversamente regolato dal legislatore, nella sua discrezionalità, in funzione delle peculiari caratteristiche dei singoli procedimenti (sentenza n. 128 del 1972; ordinanze n. 6 del 1991, n. 76 del 1989 e n. 506 del 1987).”

3) Ha infine escluso la lesione nella specie del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. “riguardando esso (…) la disciplina sostanziale dei tributi e non la disciplina del processo (sentenza n. 120 del 1992, ordinanze n. 114 del 1999, n. 322 del 1992, n. 108 del 1990).”

Date queste premesse, che riprendono argomentazioni già utilizzate in precedenza, la Corte ha però introdotto un principio innovativo, laddove, nel sottolineare la differenza tra la testimonianza e le dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale (“va infatti considerato che le dichiarazioni di cui si tratta - rese al di fuori e prima del processo - sono essenzialmente diverse dalla prova testimoniale, che é necessariamente orale e di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio”) ha stabilito l’utilizzabilità di tali dichiarazioni in sede processuale. Ha inoltre escluso che questa statuizione possa porsi in contrasto con il principio di uguaglianza e con il diritto di difesa del contribuente, sia per il particolare valore probatorio attribuito alle dichiarazioni di terzi, che è “solamente quello proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione”, sia perché è riconosciuta al contribuente la possibilità di contestare la veridicità delle dichiarazioni; in questo caso, diventa particolarmente rilevante l’intervento del giudice tributario, che “potrà e dovrà far uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell’art. 7 del decreto legislativo n. 546 del 1992, rinnovando e, eventualmente, integrando - secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità - l’attività istruttoria svolta dall’ufficio. E non é dubbio che, in presenza di una specifica richiesta di parte, le ragioni del mancato esercizio di tale potere-dovere restino soggette al generale sindacato di congruità e sufficienza della motivazione proprio delle decisioni giurisdizionali.”

Questa, dunque, la posizione della Consulta, ma sull’argomento è intervenuta più volte anche la Corte di Cassazione (n. 4269 del 25/03/2002; n. 6407 del 22/04/2003; n. 7445 del 14/05/2003; n. 5957 del 15/04/2003; n. 16032 del 29/07/2005; n. 11221 del 16/05/2007, n. 9958 del 16/04/2008, n. 10261 del 21/04/2008 e, da ultimo, n. 28.004 del 30 dicembre 2009, n. 5746 del 10/03/2010, n. 23996 del 26/11/2010), che ha ribadito per lo più i principi espressi nella sentenza n. 18 (“Il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio davanti alle commissioni tributarie, sancito dal Decreto Legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, articolo 7, comma 4, si riferisce alla prova testimoniale da assumere nel processo, che e’ necessariamente orale, di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi, e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio, e non implica, pertanto, l’inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale e rese da "terzi", e cioè da soggetti terzi rispetto al rapporto tra il contribuente - parte e l’Erario” – sent. 5746/2010); ma è anche intervenuta in maniera incisiva a riequilibrare ulteriormente la posizione delle parti, con particolare riferimento alla necessità di riconoscere anche al contribuente la possibilità di utilizzare dichiarazioni di terzi. A tal proposito, la Cassazione tributaria (sentenza n. 2942 del 2006) precisa che “Nel processo tributario, come e’ ammessa la possibilita’ che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’Amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente, - fermo il divieto di ammissione della "prova testimoniale" - con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, va del pari necessariamente riconosciuto anche al contribuente lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale (dichiarazione sostitutive di atto notorio) dando cosi’ concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione, per garantire il principio della parita’ delle armi processuali nonche’ l’effettivita’ del diritto di difesa.”

5. Giurisprudenza favorevole

Se questo è lo stato attuale della giurisprudenza interna, non bisogna poi trascurare le indicazioni che provengono dall’ordinamento comunitario. Ci si riferisce, in particolare, alla fondamentale decisione n. 73053 del 23 novembre 2006 sul caso Jussilia contro Finlandia. E’ infatti da dire che il principio del giusto processo è sancito a livello europeo dall’art. 6 CEDU, che prevede che "ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale e costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sia in ordine alla controversia sui suoi diritti ed obblighi di natura civile, sia sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti". Ebbene, mentre in precedenza la Corte di Strasburgo aveva escluso l’applicabilità di tale articolo al processo tributario (caso Ferrazzini – Italia, deciso con sentenza n. 44795/98 pronunciata il 12 luglio 2001 “detto articolo non si applica nemmeno alle controversie tra l’amministrazione e alcuni suoi agenti, ossia coloro che occupano impieghi comportanti una partecipazione all’esercizio della potestà pubblica (…). La Corte ritiene che la materia fiscale fa ancora parte del nucleo duro delle prerogative della potestà pubblica, poiché la natura pubblica del rapporto tra il contribuente e la collettività resta predominante.”), nel caso Jussilia contro Finlandia la Corte Europea cambia orientamento, proprio con specifico riferimento al problema della testimonianza. Nella fattispecie, il ricorrente si doleva di non essersi potuto adeguatamente difendere poiché il sistema vigente in Finlandia non prevedeva, di norma, un’udienza pubblica, cosicchè egli non aveva avuto la possibilità di controinterrogare i funzionari che avevano effettuato l’accertamento tramite deduzione di prova testimoniale. Ora, nel sancire la legittimità del rifiuto opposto dal Tribunale nazionale di ricorso alla prova testimoniale, la Corte ha però affermato che tale legittimità sussisteva solo in quanto, nel caso di specie, si poteva ritenere sufficiente ed adeguata la mera prova documentale, stabilendo altresì un fondamentale principio: “l’assenza di pubblica udienza o il divieto di prova testimoniale nel processo tributario sono compatibili con il principio del giusto processo solo se da siffatti divieti non deriva un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente sul piano probatorio, non altrimenti rimediabile”. Per quanto la massima risulti applicabile solo se il contenzioso verte sull’irrogazione di sanzioni che possano definirsi di carattere “penale” ai sensi della Convenzione, è evidente come si tratti di una posizione molto diversa da quella della Corte Costituzionale, che non ammette il ricorso alla prova testimoniale nemmeno quando essa possa risultare l’unico strumento utilizzabile dal contribuente per contrastare la posizione dell’amministrazione finanziaria.

C’è però da dire che una parziale apertura è emersa, invece, dalla giurisprudenza della Suprema Corte, che, con sentenza n. 21233 del 18 maggio 2006 (depositata il 29 settembre 2006), ha affermato che il contribuente impossibilitato - a seguito di un furto subito - a esibire, in sede di verifica e di accertamento, i documenti contabili (registri e fatture) la cui tenuta è obbligatoria, non è ipso facto esonerato dall’onere della prova della sussistenza dei crediti esposti in dichiarazione annuale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. Stabilisce la Corte che “ove il contribuente dimostri di essere nell’impossibilità di acquisire presso i fornitori dei beni o dei servizi copia delle fatture, si deve fare riferimento alla regola generale fissata dall’art. 2724, n. 3), del codice civile. Secondo tale disposizione la perdita senza colpa del documento, che occorra alla parte per attestare una circostanza a lei favorevole, non integra ragione di esenzione dall’onere della prova, né sposta il medesimo sulla controparte, ma rileva esclusivamente come situazione autorizzativa della prova per testimoni (o per presunzioni), in deroga ai limiti per essa previsti. In applicazione della suddetta norma, è da ritenersi che l’incolpevole perdita della contabilità…non introduce una presunzione di veridicità di quanto in proposito denunciato dal contribuente agli organi di polizia…”. La mancata manifestazione di volersi avvalere dei suddetti mezzi istruttori comporta il mancato assolvimento degli oneri probatori e il rigetto del ricorso. Ora, sebbene una parte dei commentatori ritiene trattarsi comunque di “testimonianza in senso improprio”, quindi di dichiarazione di terzi, secondo altra parte, nel caso di specie, la Corte ha voluto riferirsi proprio alla prova testimoniale, come d’altronde confermerebbe l’esplicito richiamo alla disciplina del codice civile.

6. Conclusioni

Da quanto fin qui esposto, risulta evidente, a mio parere, che il divieto di cui all’art. 7 comma 4, non a caso definito da una dottrina come “un residuato storico che resiste all’usura del tempo”, appare non più giustificabile alla luce della mutata realtà dell’ordinamento giurisdizionale in generale e di quello tributario in particolare. La soluzione mediana adottata dalla Corte Costituzionale, che ad oggi, come visto, ha respinto tutte le istanze di incostituzionalità dell’articolo stesso, cercando nel contempo di salvare il diritto di difesa ex art. 24 Cost. e il principio di “parità delle armi”, non soddisfa la maggior parte della dottrina, che evidenzia come la Corte, ammettendo l’utilizzabilità delle dichiarazioni di terzi, implicitamente sembri affermare proprio la violazione di quegli stessi principi; come la decisione si fondi su una tautologia, che emerge evidente quando la Corte legittima il divieto della prova testimoniale nel processo tributario affermando che tale limite non è un vizio di legittimità costituzionale, ma solo la conseguenza della scelta, fatta in questo processo, dei limiti ai mezzi di prova ; come la discrezionalità del legislatore debba comunque incontrare un limite nel principio di ragionevolezza e logicità, che dovrebbe comportare l’illegittimità della preclusione di strumenti di prova necessari alla tutela delle posizioni giuridiche delle parti, con conseguente preclusione della soddisfazione del diritto.

Anche la motivazione ormai risalente relativa alla specificità del processo tributario e, in particolare, dalla sua “cartolarità” non trova riscontro nella realtà attuale perché la riforma del rito civile offre oggi lo strumento della testimonianza scritta, che potrebbe essere utilizzato quantomeno per incanalare nella tipicità probatoria e “ufficializzare” le dichiarazioni di terzi raccolte fuori dal processo, superando così un’ulteriore e condivisibile critica mossa dalla dottrina alla sentenza n. 18 del 2000: non si vede, infatti, perché, il pieno valore probatorio delle dichiarazioni di terzi debba essere aprioristicamente escluso non per la ritenuta debolezza del mezzo di prova, ma per ragioni di equilibrio e simmetria delle posizioni delle parti. Non a caso, la testimonianza scritta ex art. 257 bis c.p.c. è oggi ammessa a pieno titolo anche nel processo amministrativo, che ha gli stessi connotati cartolari di quello tributario, ed eventuali abusi dell’istituto potrebbero essere agevolmente impediti con il controllo di rilevanza della prova che il giudice procederebbe ad ammettere solo quando fosse impossibile o estremamente oneroso produrre quella documentale.

Inoltre, per quanto la Corte di Cassazione abbia cercato di affermare la legittimità del divieto in esame anche in relazione all’art. 111 Cost., sulla base del riconoscimento di analoghi poteri in capo al contribuente e all’Amministrazione finanziaria, molti dubbi sono stati sollevati circa la compatibilità di tale divieto con i principi del giusto processo e del contraddittorio, tanto che l’utilizzabilità delle dichiarazioni di terzi appare come un’ “arma spuntata” che non realizza affatto il pieno soddisfacimento del diritto di difesa (non a caso, con l’introduzione del comma 3 nell’art. 111, seppur con riferimento al solo processo penale, si è evidenziata l’importanza del ricorso alla prova orale, laddove si è previsto che “la legge assicura che la persona accusata di un reato (…) abbia la facoltà , davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore”).

Ed infine il divieto di testimonianza non sembra più reggere dopo i mutamenti intervenuti a livello comunitario, tanto che, a seguito della pronuncia della Corte di Strasburgo sul caso Jussilia contro Finlandia, parte della dottrina ritiene che l’art. 7 comma 4 presenti profili di incostituzionalità anche rispetto all’art. 117 comma 1 della Costituzione (parametro di riferimento alla luce del quale valutare la conformità alla CEDU della legislazione nazionale), dato che l’assolutezza del divieto è inconciliabile con la effettiva valutazione in merito alla necessità di ricorrere alla prova testimoniale cui il giudice è chiamato, secondo la statuizione della Corte, nel singolo caso concreto. E’ quindi evidente, quantomeno per le fattispecie alle quali la pronuncia fa espresso riferimento (irrogazione di sanzioni da ritenersi di carattere penale ai sensi della Convenzione e secondo i parametri indicati dalla Corte), l’insanabile contrasto del divieto in esame con l’art. 6 della CEDU.

Per tutti i motivi fin qui esposti, si rende, a mio avviso, auspicabile, de jure condendo, un preciso intervento del legislatore volto alla definitiva eliminazione del divieto di testimonianza dal D. Lgs. n. 546.

E’ infatti innegabile che, a differenza di altri (pur) fondamentali istituti relativamente ai quali il decreto tace, mettendo sì in evidenza le numerose lacune di un sistema processuale ormai troppo datato, ma consentendo, altresì, l’applicazione delle norme del c.p.c. e l’elaborazione di dottrina e giurisprudenza ai fini di un suo adeguamento ai mutamenti che si verificano nel tempo, la fattispecie in esame, essendo espressamente disciplinata, vincola l’interprete sia al dato normativo che alla inequivocabile intenzione del legislatore; perciò, e conclusivamente, fino a quando l’art. 7 comma 4 resterà in vigore nella sua attuale versione, risulterà estremamente difficoltoso, o addirittura impossibile, risolvere tutte le problematiche che esso pone a livello costituzionale e comunitario.

1. Premessa. Storia della normativa: l’art. 7 comma 4 del D. Lgs. n. 546 del 1992

Il presente lavoro si riferisce alle problematiche sottese all’art. 7 comma 4 del D. Lgs. n. 546 del 1992, (che prevede la non ammissibilità, nel processo tributario, della prova testimoniale e del giuramento). In particolare, si esaminerà l’attuale valenza del divieto di prova testimoniale e la possibilità di sostenere la tesi contraria alla sua “sopravvivenza” nell’ordinamento tributario.

L’art. 7 riprende, sostanzialmente, il disposto dell’art. 35 D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, nella sua ultima versione (derivante da una modifica operata dall’art. 23 del D.P.R. 3 novembre 1981 n. 737, il quale aveva rimaneggiato gran parte della disciplina del contenzioso tributario), coerente con la tradizione del rito tributario, in un primo tempo riconducibile ad un procedimento di annullamento più che a un vero giudizio di cognizione. Tale norma attribuiva alle Commissioni di primo e secondo grado facoltà da esercitare d’ufficio “al fine di conoscere i fatti rilevanti per la decisione”, in un’ottica improntata a principi tipicamente inquisitori: nel corso dell’assunzione dei mezzi di prova o, più in generale, dei mezzi di informazione, i poteri riconosciuti alle parti si riassumevano nel diritto ad intervenire, a fare osservazioni ed a produrre proprie relazioni tecniche. Il divieto di ammissione del giuramento e della testimonianza, dunque, era già presente nel sistema ora abrogato, e, per effetto di una disposizione della legge delega, 30 dicembre 1991, n. 413, che, all’art. 30, primo comma, lettera d), stabilisce “…nei decreti legislativi sarà prevista l’esclusione della prova testimoniale e del giuramento nei procedimenti regolati dal presente articolo;…” è stato inserito senza sostanziali modifiche nel D. Lgs. n. 546 del 1992, ingenerando così una continuità con tale sistema ed evidenziando una precisa intenzione del legislatore in tal senso.

E’ subito evidente come tale perentorio divieto costituisca un grave limite al diritto di difesa, difficilmente spiegabile se si considera che già la stessa Relazione Ministeriale allo schema di decreto legislativo del ‘92, riconosceva un’evoluzione rispetto al passato (anche se non con specifico riferimento al comma 4), affermando “…L’art. 7, solo in parte riportabile all’art. 35 del decreto presidenziale sopra ricordato, attenua la natura tipicamente inquisitoria del processo tributario, in relazione al maggior spazio lasciato all’impulso di parte e soprattutto al venir meno della funzione assistenziale prima riconosciuta ai giudici tributari e ora soppiantata dall’obbligo delle parti private di munirsi dell’assistenza tecnica”.

A fortiori, quindi, il discorso vale oggi, a seguito delle modifiche introdotte nell’art. 111 Cost. dalla legge costituzionale n. 2/1999 (principi del “giusto processo”, ormai acquisiti non solo a livello nazionale, ma anche comunitario) e, da ultimo, dopo la riforma del rito civile (che ha portato, come si vedrà, ad interrogarsi sulla possibile applicazione del nuovo istituto della testimonianza scritta anche al processo tributario).

2. Dottrina contraria. Circolare ministeriale n. 17 del 7 aprile 2010

Da quanto esposto in premessa, risulta già comprensibile come il D. Lgs. 546/1992 non possa costituire l’unico punto di riferimento, in base al quale interpretare la disciplina del processo tributario, essendo, invece, necessario, integrare tale disciplina con quella del codice di procedura civile (come, d’altronde, espressamente previsto dall’art. 1 comma 2 del decreto stesso) e con la giurisprudenza della Corte di Cassazione.

Quest’ultima, infatti, già prima della riforma introdotta nel c.p.c. con la legge n. 69 del 2009, aveva iniziato ad interpretare il D. Lgs. n. 546 alla luce del giusto processo di cui all’ art. 111 della Costituzione, con particolare riferimento, per ciò che qui interessa, al principio di cui al comma 2, che recita: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. E proprio la necessità di applicare il principio di “parità delle armi” processuali ha messo in evidenza le numerose lacune del D. Lgs. n. 546, alcune delle quali erano già state colmate, dalla Suprema Corte (valga per tutti l’es. della sentenza n. 25136 del 30.11.2009 con la quale la Corte aveva preso posizione sul principio di non contestazione dichiarandolo principio generale dell’ordinamento processuale, come tale applicabile anche al processo tributario), altre dalla nuova disciplina processualcivilistica.

E’ chiaro, però, che la situazione è ben differente nel caso della testimonianza. Per quanto, infatti, la nuova ottica del giusto processo porti sicuramente ad interrogarsi circa l’aderenza dell’art. 7 comma 4 al dettato costituzionale, qui non si è in presenza di una lacuna del D. Lgs., ma di una disposizione che espressamente vieta l’ utilizzabilità di questo mezzo di prova nel processo tributario, vincolando così l’interprete in maniera stringente.

Non a caso, la recente circolare ministeriale n. 17/E del 07 aprile 2010 dell’Agenzia delle Entrate, che illustra le principali novità normative introdotte dalla legge n. 69 del 2009 e le loro ricadute sul processo tributario (“La citata legge n. 69 del 2009 ha modificato alcune disposizioni del codice di procedura civile che trovano applicazione nel processo tributario stante il rinvio disposto dall’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, secondo il quale “I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”…), si limita a definire non rilevanti nel suddetto processo le modifiche in materia di testimonianza.

Una parte della dottrina ha quindi cercato di suffragare il dato normativo, basandosi essenzialmente sulle seguenti considerazioni:

1) “l’incompatibilità delle prove testimoniali nei rapporti disciplinati da norme imperative di legge”.

Si tratta di una posizione strettamente ancorata alla visione del processo tributario in chiave spiccatamente inquisitoria, che nelle sue manifestazioni più estremistiche ha portato parte della dottrina a sostenere finanche l’inammissibilità, in materia tributaria, di una regola di giudizio fondata sull’onere della prova, in base alla presunzione di legittimità dell’atto dell’Amministrazione finanziaria e alla “particolare struttura della prova in campo tributario, la quale è vista come oggetto non di un onere, bensì di un "obbligo" sia per il contribuente, di precostituire e conservare le prove, sia per l’Amministrazione finanziaria, di effettuare idonee verifiche, sia infine per il giudice tributario, di ricorrere ai poteri istruttori d’ufficio. In quest’ottica risulterebbe inutile una regola di giudizio sul fatto incerto, dovendosi addebitare l’incertezza stessa al titolare dell’obbligo, sanzionandolo con la soccombenza giudiziale” [Cfr. MASI P. “L’onere della prova nel processo tributario” in www.Giustizia tributaria.it Rivista cinque-sei];

2) una sorta di sfiducia nei confronti del testimone che, in quanto egli stesso contribuente, sarebbe negativamente influenzato, nella sua dichiarazione, nei confronti dell’Amministrazione finanziaria e considerato, come tale, inattendibile [Cfr. GAFFURI G., Lezioni di diritto tributario, Parte generale – Cedam 1989];

3) le esigenze di celerità e speditezza proprie del processo tributario, che sarebbero frustrate dall’ascolto in aula dei testimoni delle due parti;

4) (strettamente correlata alla precedente): la particolare natura del processo stesso, caratterizzato proprio dall’essere cartolare e documentale.

3. Dottrina favorevole

A tali ordini di considerazioni ha puntualmente obiettato altra parte della dottrina, decisamente favorevole all’eliminazione del divieto in esame dal D. Lgs. n. 546.

Per quanto riguarda la n. 1), si tratta, evidentemente, di un’impostazione ormai risalente, che poteva trovare forse una sua ragion d’essere nel sistema del 1972, in cui i profili inquisitori del processo tributario erano decisamente accentuati, ma difficilmente giustificabile già nel 1992, tanto che la stessa relazione ministeriale allo schema di D. Lgs., come si è detto, aveva preso posizione nel senso di un’attenuazione di tale carattere inquisitorio, (anche se con specifico riferimento “all’obbligo delle parti private di munirsi dell’assistenza tecnica”). La successiva evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, colmando le lacune dello stesso D. Lgs., ha comunque cercato di adeguarlo ai mutamenti legislativi e, soprattutto, costituzionali, susseguitisi nel tempo, cosicchè oggi, oltre a non dubitarsi più della sussistenza di un onere probatorio in capo ad entrambe le parti processuali, la dottrina tende piuttosto a ricostruire il processo tributario come “dispositivo con metodo acquisitivo”.

Quanto, poi, alla “sfiducia” nei confronti della dichiarazione testimoniale del contribuente, si è opposto che la non attendibilità del teste e la falsa testimonianza può riscontrarsi, anche per analoghi motivi, in altri processi, primo fra tutti quello penale, quindi non si vede perché tale sfiducia debba costituire un limite all’ingresso della prova testimoniale nel solo processo tributario.

Inoltre, le esigenze di celerità e speditezza, non basterebbero da sole a giustificare l’esclusione di un mezzo di prova quale quello testimoniale, che appare difficilmente sostituibile con altri, (e in particolare con le precostituite prove documentali), poiché consente al giudice di acquisire elementi di giudizio in modo diretto, avendo egli la possibilità di valutare in prima persona le risposte e le reazioni del testimone all’esame delle parti.

3.1 In particolare: la testimonianza scritta

Per quanto riguarda l’argomentazione di cui al n. 4), che si riferisce alla particolare “specificità” del processo tributario, individuata (anche dalla Corte Costituzionale) nell’essere tale processo cartolare e documentale, parte della dottrina si è interrogata relativamente alla possibilità di superare tale obiezione con il ricorso al nuovo istituto di cui all’art. 257 bis, introdotto nel c.p.c. dalla legge n. 69/2009, in un’ottica di razionalizzazione e semplificazione della fase istruttoria del processo civile: la testimonianza scritta, la cui assunzione può essere disposta dal giudice, previo accordo delle parti, valutata la natura della causa ed ogni altra circostanza. La deposizione è resa dal testimone compilando un apposito modello (approvato con d.m. 17-02-2010), predisposto dalla parte che ne ha chiesto l’ammissione ed articolato in specifici capitoli, tenendo conto di quelli ammessi dal giudice e dei requisiti richiesti dall’art. 103 bis disp. att. Ogni singola risposta del testimone deve poi essere sottoscritta con firma autenticata, ed il plico contenente la deposizione deve essere spedito con posta raccomandata o consegnato alla cancelleria del giudice. E’ espressamente prevista l’ applicabilità delle regole ordinarie in ordine alla facoltà del teste di astenersi ed alle sanzioni che il giudice può comminare al teste che non abbia reso la deposizione. Infine il giudice, esaminate le risposte o le dichiarazioni, può sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato. Questo, in sintesi, il contenuto della disposizione in esame, che, invero, ha suscitato vivaci discussioni già nella dottrina civilistica, che ha messo in evidenza come la testimonianza scritta faccia venir meno la stessa natura di questa prova, costituenda per eccellenza, e come tale da formarsi all’interno del processo, oltre ai dubbi circa l’attendibilità della prova stessa, decisamente attenuata dal mancato esame diretto del teste da parte del giudice e dal fatto che i capitoli di prova ben potrebbero essere articolati nel modo più favorevole ad una data risposta.

E’ chiaro, però, che ben diversamente si porrebbe la questione in diritto tributario, tanto che la testimonianza scritta “si presenta come una soluzione mediana decisamente accattivante, in una posizione per così dire a cavallo tra la realtà del processo civile, da un lato, e del processo tributario, dall’altro. Può osservarsi, infatti, che, nell’ipotesi si possa raggiungere la conclusione positiva alla sua ammissibilità nel processo tributario, si realizzerebbe una curiosa simmetria. La testimonianza scritta, introdotta nel processo civile come strumento di semplificazione e, in un certo senso, di restrizione (facoltativa) delle garanzie e formalismi necessari per la prova, calata nel processo tributario costituirebbe, all’inverso, un allargamento dello strumentario probatorio a disposizione delle parti (e delle garanzie del diritto di azione). Lo strumento della testimonianza scritta potrebbe, insomma, essere la “veste” nella quale calare un avvio di soluzione, sistematica, al problema dell’ingresso delle dichiarazioni di terzo nel processo tributario.” [Cfr. MARCHESELLI A. “Riforma del rito civile, testimonianza scritta e giusto processo tributario” in www.Giustiziatributaria.it].

Date queste premesse, però, è necessario verificare la effettiva possibilità di applicazione di questo istituto al processo tributario, e, in particolare, quindi, se esso consenta di superare il divieto di cui all’art. 7 comma 4. La suddetta dottrina propone un’argomentazione a contrario, oltre che storico-sistematica: la ragione del divieto sarebbe da individuare non in una aprioristica volontà di esclusione dei mezzi di prova basati sulla scienza del terzo, ma proprio nel carattere storicamente cartolare e documentale del rito tributario, più volte richiamato a sostegno della legittimità di tale divieto anche dalla stessa Corte Costituzionale, e nell’essere la testimonianza orale la sola conosciuta al momento dell’introduzione del divieto stesso. Ma, in questo caso, essendo la testimonianza non più orale, essa dovrebbe essere esclusa dal campo di applicazione dell’art 7 comma 4. E’ chiaro, però, che anche a voler accettare questa impostazione, residuano una serie di problemi interpretativi, che ne rendono molto difficoltosa l’ applicazione al rito tributario e dovuti soprattutto al fatto che nel processo civile la testimonianza scritta resta comunque un mezzo facoltativo rispetto a quella orale: così lo stesso autore mette in evidenza come, se si accogliesse l’ipotesi dell’applicabilità dell’art. 257 bis, bisognerebbe sicuramente espungerne sia l’accordo delle parti, (che, venendo meno, “paralizzerebbe non uno dei modi alternativi di realizzare il diritto alla prova dell’altra, ma il diritto alla prova tout court”), sia il comma 8 relativo alla possibilità del giudice di disporre comunque la deposizione del testimone dinanzi a lui o al giudice delegato, poiché questo ricadrebbe nell’espresso divieto dell’art. 7. E, oltre questo, la testimonianza scritta è comunque disciplinata rinviando a quella orale, con tutte le formalità proprie di questo mezzo di prova, che il legislatore ha voluto espressamente escludere; esclusione, questa, la cui legittimità risulta, allo stato, confermata dalla Corte Costituzionale, anche a seguito delle più recenti aperture relative al tema delle dichiarazioni di terzi.

4. Giurisprudenza contraria

A questo punto, dovrebbe risultare comprensibile come, in relazione alla disposizione in esame, siano state più volte sollevate, nel tempo, questioni di legittimità, tutte peraltro disattese dalla Corte Costituzionale, sulla base del principio di discrezionalità del legislatore, sempre riconosciuto dalla Corte, anche con notevole ampiezza, purchè frutto “di una scelta razionale del legislatore, derivante dal tipo di configurazione del processo e dalle situazioni sostanziali dedotte in giudizio (...), anche in relazione all’epoca della disciplina e alle tradizioni storiche di ciascun procedimento ..." (sentenza n. 82 del 1996). Con il solo limite, quindi, della illogicità.

Una parziale inversione di tendenza da parte della Consulta, nel senso di una maggiore apertura verso le esigenze di tutela del diritto di difesa delle parti (e soprattutto del contribuente) si è avuta nel 2000, con la sentenza n. 18 del 21 gennaio. In tale occasione la Corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’art. 7 comma 4 in riferimento agli artt. 3, 24 e 53 della Costituzione. Nel ribadire ancora una volta la legittimità del divieto di testimonianza nel processo tributario essa ha stabilito che:

1) “va anzitutto escluso che il divieto di prova testimoniale, essendo formulato in termini generali ed astratti, possa collidere con il principio di "parità delle armi" che (…) rappresenta l’espressione in campo processuale del principio di eguaglianza”. Infatti, “il divieto della prova testimoniale trova, nella specie, una sua non irragionevole giustificazione da un lato nella "spiccata specificità" del processo tributario rispetto a quello civile ed amministrativo, "correlata sia alla configurazione dell’organo decidente sia al rapporto sostanziale oggetto del giudizio" (sentenza n. 53 del 1998), dall’altro nella circostanza, pur essa sottolineata dalla giurisprudenza di questa Corte e dalla dottrina, che il processo tributario é ancora, specie sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale (sentenza n. 141 del 1998).”

2) Quanto all’asserita violazione del parametro di cui all’art. 24 della Costituzione, la Corte ha ribadito che “l’esclusione della prova testimoniale nel processo tributario non costituisce, di per sè, violazione del diritto di difesa, potendo quest’ultimo, ai fini della formazione del convincimento del giudice, essere diversamente regolato dal legislatore, nella sua discrezionalità, in funzione delle peculiari caratteristiche dei singoli procedimenti (sentenza n. 128 del 1972; ordinanze n. 6 del 1991, n. 76 del 1989 e n. 506 del 1987).”

3) Ha infine escluso la lesione nella specie del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. “riguardando esso (…) la disciplina sostanziale dei tributi e non la disciplina del processo (sentenza n. 120 del 1992, ordinanze n. 114 del 1999, n. 322 del 1992, n. 108 del 1990).”

Date queste premesse, che riprendono argomentazioni già utilizzate in precedenza, la Corte ha però introdotto un principio innovativo, laddove, nel sottolineare la differenza tra la testimonianza e le dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale (“va infatti considerato che le dichiarazioni di cui si tratta - rese al di fuori e prima del processo - sono essenzialmente diverse dalla prova testimoniale, che é necessariamente orale e di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio”) ha stabilito l’utilizzabilità di tali dichiarazioni in sede processuale. Ha inoltre escluso che questa statuizione possa porsi in contrasto con il principio di uguaglianza e con il diritto di difesa del contribuente, sia per il particolare valore probatorio attribuito alle dichiarazioni di terzi, che è “solamente quello proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione”, sia perché è riconosciuta al contribuente la possibilità di contestare la veridicità delle dichiarazioni; in questo caso, diventa particolarmente rilevante l’intervento del giudice tributario, che “potrà e dovrà far uso degli ampi poteri inquisitori riconosciutigli dal comma 1 dell’art. 7 del decreto legislativo n. 546 del 1992, rinnovando e, eventualmente, integrando - secondo le indicazioni delle parti e con garanzia di imparzialità - l’attività istruttoria svolta dall’ufficio. E non é dubbio che, in presenza di una specifica richiesta di parte, le ragioni del mancato esercizio di tale potere-dovere restino soggette al generale sindacato di congruità e sufficienza della motivazione proprio delle decisioni giurisdizionali.”

Questa, dunque, la posizione della Consulta, ma sull’argomento è intervenuta più volte anche la Corte di Cassazione (n. 4269 del 25/03/2002; n. 6407 del 22/04/2003; n. 7445 del 14/05/2003; n. 5957 del 15/04/2003; n. 16032 del 29/07/2005; n. 11221 del 16/05/2007, n. 9958 del 16/04/2008, n. 10261 del 21/04/2008 e, da ultimo, n. 28.004 del 30 dicembre 2009, n. 5746 del 10/03/2010, n. 23996 del 26/11/2010), che ha ribadito per lo più i principi espressi nella sentenza n. 18 (“Il divieto di ammissione della prova testimoniale nel giudizio davanti alle commissioni tributarie, sancito dal Decreto Legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, articolo 7, comma 4, si riferisce alla prova testimoniale da assumere nel processo, che e’ necessariamente orale, di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi, e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio, e non implica, pertanto, l’inutilizzabilità, ai fini della decisione, delle dichiarazioni raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale e rese da "terzi", e cioè da soggetti terzi rispetto al rapporto tra il contribuente - parte e l’Erario” – sent. 5746/2010); ma è anche intervenuta in maniera incisiva a riequilibrare ulteriormente la posizione delle parti, con particolare riferimento alla necessità di riconoscere anche al contribuente la possibilità di utilizzare dichiarazioni di terzi. A tal proposito, la Cassazione tributaria (sentenza n. 2942 del 2006) precisa che “Nel processo tributario, come e’ ammessa la possibilita’ che le dichiarazioni rese da terzi agli organi dell’Amministrazione finanziaria trovino ingresso, a carico del contribuente, - fermo il divieto di ammissione della "prova testimoniale" - con il valore probatorio proprio degli elementi indiziari, va del pari necessariamente riconosciuto anche al contribuente lo stesso potere di introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale (dichiarazione sostitutive di atto notorio) dando cosi’ concreta attuazione ai principi del giusto processo come riformulati nel nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione, per garantire il principio della parita’ delle armi processuali nonche’ l’effettivita’ del diritto di difesa.”

5. Giurisprudenza favorevole

Se questo è lo stato attuale della giurisprudenza interna, non bisogna poi trascurare le indicazioni che provengono dall’ordinamento comunitario. Ci si riferisce, in particolare, alla fondamentale decisione n. 73053 del 23 novembre 2006 sul caso Jussilia contro Finlandia. E’ infatti da dire che il principio del giusto processo è sancito a livello europeo dall’art. 6 CEDU, che prevede che "ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente ed imparziale e costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sia in ordine alla controversia sui suoi diritti ed obblighi di natura civile, sia sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti". Ebbene, mentre in precedenza la Corte di Strasburgo aveva escluso l’applicabilità di tale articolo al processo tributario (caso Ferrazzini – Italia, deciso con sentenza n. 44795/98 pronunciata il 12 luglio 2001 “detto articolo non si applica nemmeno alle controversie tra l’amministrazione e alcuni suoi agenti, ossia coloro che occupano impieghi comportanti una partecipazione all’esercizio della potestà pubblica (…). La Corte ritiene che la materia fiscale fa ancora parte del nucleo duro delle prerogative della potestà pubblica, poiché la natura pubblica del rapporto tra il contribuente e la collettività resta predominante.”), nel caso Jussilia contro Finlandia la Corte Europea cambia orientamento, proprio con specifico riferimento al problema della testimonianza. Nella fattispecie, il ricorrente si doleva di non essersi potuto adeguatamente difendere poiché il sistema vigente in Finlandia non prevedeva, di norma, un’udienza pubblica, cosicchè egli non aveva avuto la possibilità di controinterrogare i funzionari che avevano effettuato l’accertamento tramite deduzione di prova testimoniale. Ora, nel sancire la legittimità del rifiuto opposto dal Tribunale nazionale di ricorso alla prova testimoniale, la Corte ha però affermato che tale legittimità sussisteva solo in quanto, nel caso di specie, si poteva ritenere sufficiente ed adeguata la mera prova documentale, stabilendo altresì un fondamentale principio: “l’assenza di pubblica udienza o il divieto di prova testimoniale nel processo tributario sono compatibili con il principio del giusto processo solo se da siffatti divieti non deriva un grave pregiudizio della posizione processuale del ricorrente sul piano probatorio, non altrimenti rimediabile”. Per quanto la massima risulti applicabile solo se il contenzioso verte sull’irrogazione di sanzioni che possano definirsi di carattere “penale” ai sensi della Convenzione, è evidente come si tratti di una posizione molto diversa da quella della Corte Costituzionale, che non ammette il ricorso alla prova testimoniale nemmeno quando essa possa risultare l’unico strumento utilizzabile dal contribuente per contrastare la posizione dell’amministrazione finanziaria.

C’è però da dire che una parziale apertura è emersa, invece, dalla giurisprudenza della Suprema Corte, che, con sentenza n. 21233 del 18 maggio 2006 (depositata il 29 settembre 2006), ha affermato che il contribuente impossibilitato - a seguito di un furto subito - a esibire, in sede di verifica e di accertamento, i documenti contabili (registri e fatture) la cui tenuta è obbligatoria, non è ipso facto esonerato dall’onere della prova della sussistenza dei crediti esposti in dichiarazione annuale ai fini dell’imposta sul valore aggiunto. Stabilisce la Corte che “ove il contribuente dimostri di essere nell’impossibilità di acquisire presso i fornitori dei beni o dei servizi copia delle fatture, si deve fare riferimento alla regola generale fissata dall’art. 2724, n. 3), del codice civile. Secondo tale disposizione la perdita senza colpa del documento, che occorra alla parte per attestare una circostanza a lei favorevole, non integra ragione di esenzione dall’onere della prova, né sposta il medesimo sulla controparte, ma rileva esclusivamente come situazione autorizzativa della prova per testimoni (o per presunzioni), in deroga ai limiti per essa previsti. In applicazione della suddetta norma, è da ritenersi che l’incolpevole perdita della contabilità…non introduce una presunzione di veridicità di quanto in proposito denunciato dal contribuente agli organi di polizia…”. La mancata manifestazione di volersi avvalere dei suddetti mezzi istruttori comporta il mancato assolvimento degli oneri probatori e il rigetto del ricorso. Ora, sebbene una parte dei commentatori ritiene trattarsi comunque di “testimonianza in senso improprio”, quindi di dichiarazione di terzi, secondo altra parte, nel caso di specie, la Corte ha voluto riferirsi proprio alla prova testimoniale, come d’altronde confermerebbe l’esplicito richiamo alla disciplina del codice civile.

6. Conclusioni

Da quanto fin qui esposto, risulta evidente, a mio parere, che il divieto di cui all’art. 7 comma 4, non a caso definito da una dottrina come “un residuato storico che resiste all’usura del tempo”, appare non più giustificabile alla luce della mutata realtà dell’ordinamento giurisdizionale in generale e di quello tributario in particolare. La soluzione mediana adottata dalla Corte Costituzionale, che ad oggi, come visto, ha respinto tutte le istanze di incostituzionalità dell’articolo stesso, cercando nel contempo di salvare il diritto di difesa ex art. 24 Cost. e il principio di “parità delle armi”, non soddisfa la maggior parte della dottrina, che evidenzia come la Corte, ammettendo l’utilizzabilità delle dichiarazioni di terzi, implicitamente sembri affermare proprio la violazione di quegli stessi principi; come la decisione si fondi su una tautologia, che emerge evidente quando la Corte legittima il divieto della prova testimoniale nel processo tributario affermando che tale limite non è un vizio di legittimità costituzionale, ma solo la conseguenza della scelta, fatta in questo processo, dei limiti ai mezzi di prova ; come la discrezionalità del legislatore debba comunque incontrare un limite nel principio di ragionevolezza e logicità, che dovrebbe comportare l’illegittimità della preclusione di strumenti di prova necessari alla tutela delle posizioni giuridiche delle parti, con conseguente preclusione della soddisfazione del diritto.

Anche la motivazione ormai risalente relativa alla specificità del processo tributario e, in particolare, dalla sua “cartolarità” non trova riscontro nella realtà attuale perché la riforma del rito civile offre oggi lo strumento della testimonianza scritta, che potrebbe essere utilizzato quantomeno per incanalare nella tipicità probatoria e “ufficializzare” le dichiarazioni di terzi raccolte fuori dal processo, superando così un’ulteriore e condivisibile critica mossa dalla dottrina alla sentenza n. 18 del 2000: non si vede, infatti, perché, il pieno valore probatorio delle dichiarazioni di terzi debba essere aprioristicamente escluso non per la ritenuta debolezza del mezzo di prova, ma per ragioni di equilibrio e simmetria delle posizioni delle parti. Non a caso, la testimonianza scritta ex art. 257 bis c.p.c. è oggi ammessa a pieno titolo anche nel processo amministrativo, che ha gli stessi connotati cartolari di quello tributario, ed eventuali abusi dell’istituto potrebbero essere agevolmente impediti con il controllo di rilevanza della prova che il giudice procederebbe ad ammettere solo quando fosse impossibile o estremamente oneroso produrre quella documentale.

Inoltre, per quanto la Corte di Cassazione abbia cercato di affermare la legittimità del divieto in esame anche in relazione all’art. 111 Cost., sulla base del riconoscimento di analoghi poteri in capo al contribuente e all’Amministrazione finanziaria, molti dubbi sono stati sollevati circa la compatibilità di tale divieto con i principi del giusto processo e del contraddittorio, tanto che l’utilizzabilità delle dichiarazioni di terzi appare come un’ “arma spuntata” che non realizza affatto il pieno soddisfacimento del diritto di difesa (non a caso, con l’introduzione del comma 3 nell’art. 111, seppur con riferimento al solo processo penale, si è evidenziata l’importanza del ricorso alla prova orale, laddove si è previsto che “la legge assicura che la persona accusata di un reato (…) abbia la facoltà , davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore”).

Ed infine il divieto di testimonianza non sembra più reggere dopo i mutamenti intervenuti a livello comunitario, tanto che, a seguito della pronuncia della Corte di Strasburgo sul caso Jussilia contro Finlandia, parte della dottrina ritiene che l’art. 7 comma 4 presenti profili di incostituzionalità anche rispetto all’art. 117 comma 1 della Costituzione (parametro di riferimento alla luce del quale valutare la conformità alla CEDU della legislazione nazionale), dato che l’assolutezza del divieto è inconciliabile con la effettiva valutazione in merito alla necessità di ricorrere alla prova testimoniale cui il giudice è chiamato, secondo la statuizione della Corte, nel singolo caso concreto. E’ quindi evidente, quantomeno per le fattispecie alle quali la pronuncia fa espresso riferimento (irrogazione di sanzioni da ritenersi di carattere penale ai sensi della Convenzione e secondo i parametri indicati dalla Corte), l’insanabile contrasto del divieto in esame con l’art. 6 della CEDU.

Per tutti i motivi fin qui esposti, si rende, a mio avviso, auspicabile, de jure condendo, un preciso intervento del legislatore volto alla definitiva eliminazione del divieto di testimonianza dal D. Lgs. n. 546.

E’ infatti innegabile che, a differenza di altri (pur) fondamentali istituti relativamente ai quali il decreto tace, mettendo sì in evidenza le numerose lacune di un sistema processuale ormai troppo datato, ma consentendo, altresì, l’applicazione delle norme del c.p.c. e l’elaborazione di dottrina e giurisprudenza ai fini di un suo adeguamento ai mutamenti che si verificano nel tempo, la fattispecie in esame, essendo espressamente disciplinata, vincola l’interprete sia al dato normativo che alla inequivocabile intenzione del legislatore; perciò, e conclusivamente, fino a quando l’art. 7 comma 4 resterà in vigore nella sua attuale versione, risulterà estremamente difficoltoso, o addirittura impossibile, risolvere tutte le problematiche che esso pone a livello costituzionale e comunitario.