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Enti religiosi e riforma del terzo settore

Milano
Ph. Alessandro Saggio / Milano

Gli Enti religiosi hanno da sempre ricoperto un ruolo fondamentale nel nostro ordinamento e, nello specifico, in quello che oggi è definito il Terzo settore.

Proprio in ragione del ruolo di particolare rilevanza sociale riconosciuto a tali Enti, già con il D.lgs. 460/97 “Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale” (che aveva dato vita alle ONLUS), il Legislatore aveva previsto una normativa ad hoc per “gli enti ecclesiastici delle confessioni religiose con le quali lo Stato ha stipulato patti, accordi o intese” che si differenziava da quella comune destinata a tutti gli altri soggetti giuridici.

Gli Enti cui la disciplina era rivolta erano, quindi, esclusivamente quelli aventi natura ecclesiastica, ossia, costituiti in forza di un diritto che non fosse quello proprio dello Stato italiano, bensì di un diritto religioso (come, per esempio, il diritto canonico) che ne disciplinasse modalità e requisiti. Oltre alla suddetta qualifica, doveva, inoltre, necessariamente sussistere un accordo o una intesa stipulata tra la religione e lo Stato italiano. In questo modo, l’Ente ecclesiastico di una religione tra quelle con cui lo Stato italiano ha firmato un’intesa era, pertanto, esentato dal rispetto degli altri requisiti individuati dall’articolo 10 del D.lgs. 460/97.

Con la Riforma del Terzo Settore tale soluzione è stata ripresa seppure con alcune sostanziali novità. La prima, e più rilevante, rispetto alla disciplina previgente, riguarda la platea degli Enti associativi religiosi cui la stessa si rivolge (come verrà meglio chiarito nel proseguo, infatti, la recente riforma ha introdotto la nozione di “Enti religiosi civilmente riconosciuti”, la quale coinvolge un maggior numero di soggetti) la seconda riguarda, invece, l’introduzione di un ulteriore requisito, ossia, la costituzione di un patrimonio destinato.

Prima di illustrare nello specifico le novità della Riforma, occorre segnalare che, per gli Enti religiosi, l’ingresso nell’alveo del Terzo settore rimane sempre una possibilità e mai un obbligo. L’Ente religioso che gestisce una o più attività di interesse generale potrà, quindi, sempre decidere di: continuare la propria attività senza assoggettarsi alle disposizioni dei decreti della Riforma; entrare nel Terzo Settore per tutte le attività di interesse generale; oppure solo con alcune delle attività di interesse generale gestite.

Le condizioni attualmente richieste quale conditio sine qua non dal Legislatore per l’applicabilità della disciplina del Terzo settore sono, quindi, le seguenti.

1. Deve trattarsi di “Enti religiosi civilmente riconosciuti”.

Come già anticipato, la precedente disciplina, così come le prime bozze dei decreti della Riforma, facevano riferimento agli “Enti ecclesiastici civilmente riconosciuti”. Sul punto determinante è stato l’intervento del Consiglio di Stato che, stante le possibili implicazioni discriminatorie che una simile previsione avrebbe avuto, ha suggerito di riconsiderare la disposizione facendo riferimento agli “Enti religiosi civilmente riconosciuti”. Tale indicazione, poi recepita dal Legislatore, ha evitato che la costituzione di un Ramo di Terzo settore o di impresa sociale fosse riservato esclusivamente agli Enti delle confessioni religiose che avessero concluso con lo Stato patti, accordi o intese.

2. Devono essere svolte almeno una delle attività di interesse generale previste da ciascun decreto.

In particolare, il D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 112 ha inserito tra i soggetti del Terzo Settore o dell’Impresa sociale anche gli Enti religiosi civilmente riconosciuti “limitatamente allo svolgimento delle attività d’impresa di interesse generale”.

Ebbene, è evidente come, per gli Enti religiosi, le attività di interesse generale non possano essere le uniche ad essere gestite, in quanto per questi Enti è indispensabile sia svolta almeno una delle attività che rientrano nel novero di quelle che, la normativa di settore, definisce di “religione o culto” (chiaramente non riconducibili a quelle civiche, solidaristiche e di utilità sociale che, invece, caratterizzano e definiscono gli Enti del Terzo settore).

La ragione per cui un soggetto non può assumere in toto la qualifica di Ente del Terzo settore, quindi, deriva dalla necessità giuridica di svolgere anzitutto attività diverse da quelle di interesse generale.

Attraverso la costituzione del “Ramo” l’Ente religioso è in grado di svolgere le sue attività più proprie (cioè quelle di religione o culto che, come detto, non possono essere ricondotte a quelle di interesse generale) e nel contempo di operare anche nel campo della attività di interesse generale godendo della disciplina del Terzo settore.

Una breve precisazione si rende necessaria per la categoria degli “Enti ecclesiastici civilmente riconosciuti” (tali in quanto promossi dalle confessioni religiose che hanno già concluso con lo Stato patti, accordi o intese). Non vi è dubbio, infatti, che questi si collochino all’interno della nuova e ampia categoria degli “Enti religiosi civilmente riconosciuti”, tuttavia, anche tali Enti, affinché possano essere ricondotti alla disciplina del Terzo settore, devono necessariamente rispettare il requisito dello svolgimento delle attività d’impresa di interesse generale.

In tal senso, la soluzione viene offerta dalle stesse Parti concordatarie che, proprio al fine di evitare dubbi in ordine alla vita dell’Ente, hanno inserito una esplicita precisazione, vale a dire che l’Ente può comunque e sempre svolgere anche attività che non siano riconducibili a quelle di religione o culto.

Tale assunto, che consente all’ente ecclesiastico di gestire tutte le attività diverse da quelle di religione e culto, è quella che permette allo stesso di svolgerle assumendo (anche solo parzialmente) la veste di ente di Terzo settore.

3. Deve essere adottato un Regolamento, in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata.

In questo modo si rende possibile l’accertamento, tramite controllo notarile, del recepimento nello stesso delle norme del Codice del Terzo settore applicabili agli Enti religiosi e della compatibilità di eventuali altre clausole con gli obblighi inderogabili della disciplina del Terzo settore. Tale Regolamento dovrà poi essere depositato nel Registro unico nazionale del Terzo settore.

La scelta di obbligare gli Enti ad adottare un Regolamento che recepisca le novità introdotte dalla Riforma, nasce dall’esigenza di garantire gli Enti religiosi (in quanto già esistenti) non gravandoli ulteriormente chiedendo loro di adeguare il proprio Statuto.

Occorre precisare che, per esplicita previsione normativa, alcune clausole imposte agli statuti degli enti civili che intendono acquisire lo status di Ente del Terzo settore non necessitano di essere recepite dal Regolamento in quanto ritenute, a priori, incompatibili con questi particolari soggetti.

La normativa stabilisce, inoltre, che la necessità di recepire le clausole/norme statutarie previste dai decreti della Riforma non possa, in ogni caso, implicare il venir meno dell’obbligo assunto dallo Stato di rispettare la struttura e la finalità di tali Enti religiosi. Ne consegue che, qualora l’introduzione di una clausola/norma nel Regolamento che l’Ente religioso dovrebbe adottare per avvalersi della disciplina della Riforma dovesse incidere sulla sua struttura e sulle sue finalità, l’Ente religioso avrà il diritto di non procedere al relativo recepimento.

4. Deve essere costituito un patrimonio destinato.

La ratio alla base della previsione è quella di imporre agli Enti religiosi di evidenziare chiaramente quella parte di patrimonio vincolata all’esercizio delle attività di interesse generale, e questo, sia al fine di limitare la responsabilità patrimoniale nei confronti dei possibili creditori, sia per consentire la verifica della stabilità del patrimonio e assicurare che i proventi delle attività di interesse generale rimangano vincolati alle medesime attività.

In tal senso si è da ultimo pronunciato il Legislatore che, in sede di conversione del D.L. n. 77/2021, ha espressamente chiarito uno degli aspetti più dibattuti con l’introduzione della Riforma del Terzo settore.

È stato esplicitamente previsto, infatti, che i beni che compongono il patrimonio destinato debbano essere indicati nel Regolamento (anche con atto distinto ad esso allegato) e, soprattutto, che, per le obbligazioni contratte in relazione alle attività di interesse generale (di cui all’art. 2 del D.lgs 112/2017 e agli artt. 5 e 6 del D.lgs 117/2017), gli Enti religiosi civilmente riconosciuti rispondano nei limiti del patrimonio destinato. Gli altri creditori dell’Ente religioso civilmente riconosciuto, pertanto, non potranno far valere alcun diritto sul patrimonio destinato allo svolgimento delle attività sopra indicate.

Ne consegue la segregazione reale dei beni inseriti in tale parte del patrimonio (che devono, quindi, considerarsi riservati ai creditori delle attività del ramo) rispetto a quelli che rimangono nel cosiddetto patrimonio istituzionale (riservati agli altri creditori).

5. Devono tenersi scritture contabili separate.

Tale obbligo era già contenuto nella normativa previgente e non desta, perciò, particolari problematiche. La separazione, infatti, permette di raggiungere molteplici finalità, quali, ad esempio, evitare commistioni tra la gestione delle attività istituzionali e quella delle attività di interesse generale svolta dall’Ente religioso, ovvero, rendere possibile l’applicazione di alcune norme specifiche del Terzo settore.

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Alla luce della disamina sopra effettuata è indubbio come la soluzione adottata dal Legislatore, con la Riforma del Terzo settore, abbia il pregio di aver evitato, da una parte, l’esclusione degli Enti religiosi e, dall’altra, l’obbligo, per gli stessi, di dover costituire un Ente civile ad hoc per poter continuare a svolgere le attività aventi interesse generale.

Tuttavia, non può negarsi come le novità introdotte (soprattutto alla luce delle modifiche da ultimo apportate in materia di patrimonio destinato, che coinvolgono specificatamente i diritti dei creditori) impongano, una attenta riflessione, anzitutto al fine di valutare in concreto il vantaggio che potrebbe rappresentare, per l’Ente ecclesiastico, l’ingresso nella Riforma.

D.lgs. 460 del 04.12.1997 “Riordino della disciplina tributaria degli enti non commerciali e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale”;

D.lgs. n. 112 del 03.07.2017 “Revisione della disciplina in materia di impresa sociale”;

D.lgs n. 117 del 03.07.2017 “Codice del Terzo settore”;

D.L. n. 77 del 31 maggio 2021 “Governance del Piano nazionale di ripresa e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure”, convertito con modificazioni in Legge 29 luglio 2021, n. 108;

LORENZO SIMONCELLI, Gli Enti ecclesiastici fra Codice civile, diritto canonico e Riforma del Terzo settore, Rivista “Terzo settore, non profit e cooperative”, n. 3/2018;

MARIO FERRANTE, Enti religiosi/ecclesiastici e riforma del terzo settore, 2019.