I permessi di soggiorno per i lavoratori stranieri gravemente sfruttati: il coraggio di denunciare e il dovere di prevenire

Caporalato
Caporalato

Abstract

Lo sfruttamento lavorativo di extracomunitari costituisce, secondo le più recenti rilevazioni, una triste realtà non solo nel settore agricolo. Tuttavia il contrasto del fenomeno pare affidato quasi unicamente al lavoro delle Procure. Gli utili strumenti legislativi di regolarizzazione del soggiorno per i lavoratori stranieri gravemente sfruttati non possono, da soli, porre rimedio ad una situazione ormai decisamente preoccupante. Appare evidente la mancanza di adeguate politiche di prevenzione.

 

Indice:

1. Dall’agricoltura alla logistica: la diffusione dello sfruttamento lavorativo e del caporalato

2. Il permesso di soggiorno “per grave sfruttamento lavorativo” e quello “per motivi di protezione sociale”: analisi degli istituti

 

1. Dall’agricoltura alla logistica: la diffusione dello sfruttamento lavorativo e del caporalato

Si chiama Euno come lo schiavo siciliano che guidò la prima guerra servile nel 136 a.C. ed è il nome dell’operazione che, a seguito di un’inchiesta durata più di un anno, ha portato all’arresto di 13 caporali e 7 imprenditori calabresi.

Siamo nella Piana di Gioia Tauro, dove esattamente dieci anni fa scoppiava la rivolta di Rosarno. Quell’anno erano 1500 i lavoratori stranieri presenti nella Piana e oggi, a dieci anni di distanza, i numeri non sembrano essere cambiati così come le condizioni di lavoro e di vita. È qui che la coraggiosa denuncia di due braccianti ha fatto partire le indagini.

Sono in tutto 35 gli arrestati e gli indagati con accusa di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (oltre a favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione di alcune giovani donne nigeriane).

Tre le aziende sequestrate che saranno affidate ad amministratori che ne gestiranno l’attività ed i rapporti di lavoro.

Purtroppo non siamo in presenza di un caso isolato: secondo i dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro nel primo semestre 2019 sono state 263 le persone denunciate per caporalato e sfruttamento dei lavoratori, 83.191 i lavoratori irregolari (di cui 23.300 totalmente “in nero”) e 530 milioni i contributi assicurativi e previdenziali non versati e recuperati nello stesso periodo.

Tutto ciò a conferma del fatto che i migranti rappresentano manodopera molto appetibile nel nostro Paese, poiché a basso costo e facilmente ricattabile. Ciò e dovuto principalmente all’incertezza e alla precarietà della loro condizione giuridica. Incertezza e precarietà peraltro aggravate dalla più recente legislazione in materia migratoria (si pensi al d.l. n. 113/2018, c.d. Decreto sicurezza).

Non stupisce quindi che fenomeni criminali come il c.d. caporalato o l’impiego di lavoratori irregolarmente soggiornanti si estendano ben oltre l’ambito agricolo e rurale cui idealmente si è abituati a confinarli, radicandosi non più soltanto nella terra coltivata delle campagne del Sud, ma anche nel cemento e nell’asfalto delle più ricche città del Nord.

È ancora senza indagati né ipotesi di reato l’indagine aperta dalla procura di Milano sulle attività di lavoro legate alle piattaforme digitali di food delivery: al vaglio degli investigatori possibili violazioni in materia di sicurezza sul lavoro e sicurezza stradale, aspetti igienico-sanitari dei contenitori utilizzati per il trasporto del cibo, ma anche occupazione di stranieri irregolari e forme di sfruttamento e caporalato nel rapporto tra committenti e ciclo-fattorini e tra gli stessi ciclo-fattorini.

In quest’ultimo caso l’ipotesi è che alcuni rider rivendano i propri account a lavoratori senza regolare permesso di soggiorno a fronte di un pagamento; quest’ultimo consisterebbe in una percentuale sul guadagno per le consegne effettuate da quelli che potrebbero definirsi “fattorini fantasma”: è il c.d. “caporalato digitale”.

Ma l’avanzata del caporalato nel settore terziario non riguarda soltanto i ciclo-fattorini.

Secondo i dati forniti dai carabinieri del N.a.s. (Nucleo antisofisticazione per la tutela della salute) e del N.i.l. (Nucleo ispettorato del lavoro) relativi al biennio 2018-2019, il terziario, con il 28% di irregolarità emerse, ha superato il settore industriale e si colloca oggi subito dopo quello agricolo con una preoccupante incidenza del fenomeno criminale nel campo della logistica.

È proprio nel settore relativo allo spostamento di persone e merci, tra facchini e trasportatori, che pare si ingrossino le fila dei nuovi “braccianti metropolitani”.

 

2. Il permesso di soggiorno per grave sfruttamento lavorativo: analisi dell’istituto

In una situazione così drammatica, denunce come quella fatta dai due braccianti della Piana di Gioia Tauro diventano indispensabili.

Questo è ancor più vero se si considera, con grande amarezza, che il nostro Paese non è ancora riuscito a dotarsi di un efficace sistema di prevenzione del fenomeno, il cui contrasto rimane affidato quasi esclusivamente all’apparato repressivo dello Stato.

Ma le denunce, in questi casi, oltre che a sostenere ed indirizzare gli sforzi delle Procure, possono restituire ai lavoratori denuncianti almeno un po’della dignità sottratta al loro lavoro e quindi alle loro persone.

Nel nostro ordinamento instaurare un rapporto di lavoro con uno straniero “irregolare” è contro la legge: l’articolo 22, comma 12, del Testo Unico Immigrazione (decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286) punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di 5000 euro per ogni lavoratore impiegato, «il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno (…) ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato».

Tuttavia, in aderenza a quanto previsto dall’articolo 2126 Codice Civile e dallo stesso T.U.I. all’articolo 2, comma 1, che riconosce i diritti fondamentali della persona umana allo straniero comunque presente sul territorio dello Stato, tale situazione di illegittimità non compromette il diritto alla retribuzione per il lavoro eseguito[1]. Va da sé che, dalla sussistenza di un obbligo retributivo, non può che derivare anche la sussistenza di un obbligo contributivo.

D’altronde esentare dagli oneri retributivi e contributivi il datore di lavoro che ha violato la legge impiegando stranieri “irregolari”, altererebbe significativamente le regole del mercato e della concorrenza a vantaggio di chi vìola le leggi sull’immigrazione[2].

In proposito, dal punto di vista probatorio, rileva la presunzione prevista dall’articolo 3 Decreto Legislativo 109/2012 che, nelle ipotesi di cui all’articolo 22, comma 12 T.U.I., stabilisce che «ai fini della determinazione delle somme dovute dal datore di lavoro a titolo retributivo, contributivo e fiscale, nonché per i relativi accessori si presume che il rapporto di lavoro instaurato con il lavoratore straniero privo del permesso di soggiorno abbia avuto una durata di almeno tre mesi, salvo prova contraria fornita dal datore di lavoro o dal lavoratore».

Lo stesso Decreto Legislativo 6 luglio 2012, n. 109, con cui l’Italia ha recepito la direttiva 2009/52/UE (relativa a sanzioni e provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare) ha anche introdotto le ipotesi aggravanti previste dal comma 12-bis dell’articolo 22 T.U.I.

Difatti le pene per il fatto previsto dal comma 12 (impiego di stranieri irregolarmente soggiornanti) sono aumentate da un terzo alla metà:

  1. se i lavoratori occupati sono in numero superiore a tre;
  2. se i lavoratori occupati sono minori in età non lavorativa;
  3. se i lavoratori occupati sono sottoposti alle altre condizioni lavorative di particolare sfruttamento di cui al terzo comma dell’articolo 603-bis del codice penale.

Allo straniero che abbia presentato denuncia e cooperi nel procedimento penale instaurato nei confronti del datore di lavoro, l’articolo 22, comma 12-quater, riconosce un permesso di soggiorno.

Tale permesso è rilasciato dal questore, su proposta o con il parere favorevole del procuratore della Repubblica, nelle sole ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo di cui al comma 12-bis.

Il particolare sfruttamento lavorativo è, quindi, quello previsto dall’articolo 603 - bis Codice Penale (c.d. reato di caporalato) che punisce chi, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori:

  1. recluta manodopera per destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento;
  2. «utilizza, assume o impiega manodopera» sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento anche, ma non necessariamente, avvalendosi di attività di intermediazione.

Lo stesso articolo stabilisce che costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

  • reiterata corresponsione di retribuzioni palesemente difformi dalle previsioni dei contratti collettivi di lavoro o comunque sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
  • reiterata violazione della normativa in materia di orario di lavoro, periodi di riposo, riposo settimanale, aspettativa obbligatoria e ferie;
  • violazioni delle norme in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro;
  • sottoposizione del lavoratore a degradanti condizioni di lavoro, alloggiative o di sorveglianza.

Si tratta, quindi, di una sorta di sistema premiale che dovrebbe incentivare il lavoratore extracomunitario privo di permesso di soggiorno, illegalmente occupato e sottoposto a particolare sfruttamento, a denunciare il proprio datore di lavoro e a collaborare nel procedimento penale instaurato contro quest’ultimo. Tutto ciò in cambio della regolarità del soggiorno. Difatti il permesso di soggiorno in questione, che ha durata di sei mesi e può essere rinnovato per un anno o per il maggior periodo occorrente alla definizione del procedimento penale, consente di svolgere attività lavorativa durante il suo periodo di validità e, alla scadenza, può essere convertito in permesso di soggiorno per lavoro.

Può, altresì, essere revocato in caso di condotta incompatibile con le finalità dello stesso, segnalata dal procuratore della Repubblica o accertata dal questore, ovvero qualora vengano meno le condizioni che ne hanno giustificato il rilascio.

Tuttavia la tutela e la regolarità del soggiorno di stranieri che versino in condizioni di lavoro così drammatiche, non può passare esclusivamente per l’effettuazione della denuncia da parte dei diretti interessati. Questa rimane un atto di coraggio e di giustizia che può essere solo incentivato.

A prescindere dal contributo fornito nelle indagini, lo straniero che versi in situazioni di violenza o di grave sfruttamento (che, come visto, ben può verificarsi anche in ambito lavorativo) può ottenere un permesso di soggiorno “per motivi di protezione sociale” ai sensi dell’articolo 18 T.U.I.[3] Tale permesso viene rilasciato dal questore qualora emergano concreti pericoli per l’incolumità dello straniero e con l’obiettivo di consentirgli di sottrarsi alla violenza subita e di partecipare ad un programma di assistenza ed integrazione sociale.

Anche questo permesso di soggiorno ha durata di sei mesi e può essere rinnovato per un anno, o per il maggior periodo occorrente per motivi di giustizia. È revocato in caso di interruzione del programma o di condotta incompatibile con le finalità dello stesso, segnalate dal procuratore della Repubblica o, per quanto di competenza, dai servizi sociali, o comunque accertate dal questore, ovvero quando vengono meno le altre condizioni che ne hanno giustificato il rilascio.

Concludendo, si tratta di strumenti sicuramente validi ma tutti azionabili a reato commesso; ed è ormai chiaro che la sola repressione non può contrastare efficacemente un fenomeno criminale che, come le rilevazioni confermano, si va diffondendo insinuandosi in maniera sempre più incisiva anche in settori diversi da quello agricolo.

Ciò che continua a mancare è la prevenzione e la vigilanza: investimenti, ispettori e strategie. Si resta in attesa, da troppo tempo ormai...

 

[1] Cfr., fra le altre: Cass. civ., sez. lavoro 21 settembre 2015, n. 18540; Cass. civ., sez. lavoro, 26 marzo 2010, n. 7380.

[2] Cfr., fra le altre: Cass. civ., sez. lavoro 26 marzo 2010, n. 7380; Cass. civ., sez. lavoro, 5 novembre 2010, n. 22559.

[3] Cfr. Circolare Ministero dell’Interno del 04 agosto 2007