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Il consenso al trattamento del malato psichiatrico incapace

Amministrazione di sostegno o interdizione
Il consenso al trattamento del malato psichiatrico incapace
Il consenso al trattamento del malato psichiatrico incapace

Abstract: L’autrice affronta le problematiche connesse al consenso informato nel paziente psichico ed al ricovero in struttura, con riferimento alle norme europee e italiane.

Con la legge 13 maggio 1978 n. 180, nota anche come “legge Basaglia” è cambiato il modo di considerare il malato psichiatrico, non più persona socialemente pericolosa da tenere chiusa dentro ad una struttura manicomiale, ma soggetto cui vanno riconosciuti spazi di autodeterminazione e il cui consenso al trattamento sanitario va ricercato e raggiunto in ogni situazione, pur permanendo la possibilità di ricorso a trattamenti sanitari obbligatori, quando vi siano “alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici” (Montanari Vergallo G, Il rapporto medico-paziente. Consenso e informazione tra libertà e responsabilità. Milano, Giuffrè, 2008 pag 249-271).

Prima della legge 180, l’obbligo all’intervento produceva automaticamente la custodia  del malato. L’autorità, quindi, si dichiarava responsabile della salute del paziente psichiatrico, sospendendo taluni suoi diritti per tutelarlo come malato. Quando tale sospensione non avveniva, l’autorità non aveva alcuna responsabilità in ordine alla salute della persona.

La legge 180, al contrario, non vuole dare al paziente psichiatrico la medesima contrattualità del ricoverato volontario, libero di dimettersi sotto la propria responsabilità ma fornisce un contratto nuovo, che lo garantisce, oltrechè dal rischio di compressione dei diritti per motivi terapeutici, anche dal rischio opposto, ovvero che la libertà di autodeterminarsi si risolva in forme di abbandono da parte del medico.

L’articolo 7 della Convenzione di Oviedo, prevede che “la persona che soffre di un disturbo mentale grave non può essere sottoposta senza il proprio consenso a un intervento avente per oggetto il trattamento di questo disturbo se non quando l’assenza di questo trattamento rischia di essere pregiudizievole alla sua salute e sotto riserva delle condizioni di protezioni previste dalla legge comprendenti le procedure di sorveglianza e di controllo e le vie di ricorso…”.

Stante la variegata e peculiare tipologia dei disturbi mentali, il consenso in psichiatria assume spesso valenza particolare poiché può risultare problematico instaurare una terapia.

La validità del consenso al trattamento da parte del paziente psichiatrico richiede che siano soddisfatte alcune condizioni che riguardano “le capacità” in merito alla decisione di accettare o rifiutare il trattamento proposto:

1- Capacità di comprendere le informazioni essenziali;

2- Capacità di elaborare razionalmente le informazioni;

3- Capacità di valutare la situazione e le probabili conseguenze di una scelta;

4- Capacità di comunicare una scelta.

Il complesso problema del consenso in psichiatria è stato considerato dal Comitato Nazionale per la bioetica nell’ambito dei pareri su “Il trattamento dei pazienti psichiatrici” (24 settembre 1999) e su “Psichiatria e salute mentale:orientamenti bioetici” (24 novembre 2000).

Il Comitato ha sottolineato la natura graduale e mutevole della capacità o incapacità di intendere e volere anche nel caso delle psicosi, in quanto tra l’assoluta incapacità, propria della demenza, e la “normalita” ci sono una serie di gradi intermedi dove deficit cognitivi e alterazioni affettive possono determinarne diminuzioni, ma non l’assenza della capacità. Questo, ovviamente, non può legittimare la rinuncia all’informazione del paziente psichiatrico, ma comporta una maggiore cautela nel vagliare caso  per caso la misura adatta al singolo paziente in riferimento alla sua situazione (Fiori A. Informazione e consenso dell’atto medico, in CNB -1990-2005, Atti del convegno di studio (Roma, 30 novembre -3 dicembre 2005).

Il Codice Deontologio Medico  del 2014 (art. 33) prevede che il medico debba informare il paziente, tenendo conto delle capacità di comprensione di quest’ultimo, senza però  omettere  informazioni.

La Convenzione di Oviedo stabilisce la necessità del consenso di un “rappresentante” nel caso in cui questo sia impedito ad esprimersi “Allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge “ (articolo 6).

I medici che devono raccogliere il consenso informato del paziente, ovviamente non in caso di intervento urgente, nel caso in cui questo non abbia un rappresentante legale – amministratore di sostegno o tutore- devono, quindi, rivolgersi all’autorità giudiziaria per le determinazioni di competenza, fornendo tutte le necessarie informazioni sanitarie sulla capacità del beneficiario. 

Nel settore delle cure sanitarie, pertanto, il rispetto della volontà dell’individuo assume particolare rilievo in ossequio al principio costituzionale  sancito dall’articolo 32. Tale principio non può, ovviamente, subire deroghe sul mero presupposto che siamo in presenza di una persona disabile.

La deroga prevista dall’articolo 6 della Convenzione di Oviedo, di conseguenza, ha la sua unica ragione d’essere nell’accertata esistenza della capacità di discernimento ed allo scopo di proteggere i soggetti deboli da possibili abusi.

Con la legge 9 gennaio 2004, n. 6, è stato introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’amministrazione di sostegno e sono stati modificati gli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 427 e 429 del codice civile.

L’articolo 404 cc indica quale beneficiaria “la persona  che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”.

Il dato letterale prevede espressamente l’applicabilità dell’istituto alla persona affetta da patologia psichica.

La Corte Costituzionale, con la sentenza  9 dicembre 2005 n.440 ha affermato che solo ove non vengano ravvisati interventi di sostegno idonei ad assicurare protezione al beneficiario, il giudice tutelare può ricorrere alle più invasive misure dell’inabilitazione o dell’interdizione.

La Corte di Cassazione, con la sentenza 12 giugno 2006  n. 13584, si è pronunciata per la prima volta su nuovo istituto,  evidenziando l’importanza di un’ottica meno custodialistica e più orientata al rispetto della dignità della persona ed alla cura complessiva della persona e della sua personalità, affermando espressamente il carattere residuale dell’interdizione.

L’art. 405  comma 5 codice civile, prevedendo che l’incarico di amministratore di sostegno possa essere conferito anche a tempo indeterminato, giustifica la conclusione che l’istituto possa essere applicato anche in caso di patologia psichica non temporanea.

L’art. 414 codice civile  ha  inoltre modificato l’istituto dell’interdizione, eliminando l’obbligo per il giudice di interdire i soggetti incapaci di provvedere ai propri interessi, ma contempla la mera facoltà di procedere in tal senso, “quando ciò sia necessario per assicurare la loro adeguata protezione”.

Nel corso degli anni, tuttavia, va rilevato che la giurisprudenza ha  assunto orientamenti difformi in merito alla scelta tra la nomina di un amministratore di sostegno o  quella di un tutore.

La misura dell’interdizione, peraltro, viene ritenuta preferibile nel caso in cui  vi sia una elevata consistenza del patrimonio mobiliare ed immobiliare, collegata  con la gravità ed irreversibilità delle condizioni psicofisiche del  soggetto (Cassazione Civile, Sez. I,  4 aprile 2014).

Si deve optare, al contrario, per l’amministrazione di sostegno  quando “l’attività da compiere per la cura dell’interessato si presenti “semplice”, vuoi per la scarsa consistenza del patrimonio disponibile, vuoi per la semplicità delle operazioni da svolgere (attinenti, ad esempio, alla gestione ordinaria del reddito da pensione) e per l’attitudine del soggetto protetto a non porre in discussione i risultati dell’attività di sostegno nei suoi confronti” (Tribunale di Lamezia Terme, decreto 8 marzo 2011).

Va, peraltro, osservato che non vi sono ostacoli normativi a che l’amministratore di sostegno possa prestare un consenso informato alle cure, in caso di accertamenti o trattamenti sanitari, sostituendosi al soggetto incapace. Anche se tale potere non è espressamente previsto dall’articolo 411 cc, è insito nelle disposizioni codicistiche sull’amministrazione di sostegno. (Tribunale di Varese, decreto 30 aprile 2012).

Tale potere, tuttavia, è limitato agli accertamenti, ai trattamenti ed alle terapie routinarie, che escludono trattamenti invasivi e che non comportano periodi di lungodegenza in ospedale.  Nel caso di operazioni chirurgiche, cicli terapici quali dialisi, chemioterapia… l’amministratore di sostegno dovrà coinvolgere il Giudice Tutelare anche a fini autorizzativi.

Al contempo, però, l’amministratore di sostegno dovrà tenere presente, per quanto possibile, i desideri del beneficiario.

Nel caso di ricoveri coatti, infatti, a parte l’ipotesi del TSO, sulla base della normativa vigente, il Giudice Tutelare potrebbe conferire all’amministratore di sostegno il potere di prestare il consenso, al posto del beneficiario, ad un ricovero  coatto  in struttura ospedaliera.

Si deve, tuttavia, osservare che l’articolo 5 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo recita” Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei caso seguenti e nei modi prescritti dalla legge (…) e se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo (…)”.

La Corte di Giustizia Europea, peraltro, nel corso degli anni, ha elaborato una serie di requisiti per considerare “lawful” la detenzione di un malato psichico.

Si deve trattare, innanzitutto, di una  vera infermità mentale, che deve essere accertata dall’autorità competente sulla base di una perizia medica oggettiva, salvo che in caso di urgenza; il disturbo psichico deve essere di natura o gravità tale da giustificare la privazione della libertà personale; la privazione della libertà deve essere proporzionata rispetto all’esigenza di tutelare la sicurezza del malato e della collettività ed infine il perpetuarsi della detenzione deve essere correlato all’effettiva persistenza del disturbo psichico (L. Beduschi, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010; il diritto alla libertà personale).

Nel caso del ricovero in una struttura di un malato psichico, pertanto, deve essere innanzitutto dimostrata la sussistenza di una effettiva infermità mentale. Tale requisito non può essere ritenuto soddisfatto da un mero certificato medico ma si deve fondare su una perizia attestante una oggettiva infermità mentale connotata da gravità.

Il problema si pone, ad esempio, nel caso affrontato dal giudice tutelare di Varese con il decreto 30 aprile 2012, che ha conferito ad un amministratore di sostegno il potere di prestare il consenso a trattamenti sanitari, contro la volontà del beneficiario, perché “privo della sufficiente consapevolezza critica della malattia” e delle “ conseguenze del rifiuto a sottoporsi a trattamento terapeutico.”.

Nel caso in cui il beneficiario, anche se di fatto incapace, non presti il consenso a tali trattamenti, seguendo i principi stabiliti dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo, si deve ricorrere ad una effettiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria sulla necessità del trattamento e sulla proporzionalità della terapia rispetto allo scopo.

Nulla quaestio nel caso in cui venga richiesto un Trattamento Sanitario Obbligatorio dai sanitari. La normativa prevede che possa essere chiesto solo in determinate ipotesi e dopo un iter amministrativo che garantisce il paziente.

Ma dall’esame della giurisprudenza degli ultimi anni, si ravvisano ipotesi in cui viene, di fatto, esteso il ricovero di un malato psichico, ben oltre il limite di legge fissato per il trattamento sanitario obbligatorio, aggirando la normativa e  trasformando il ricovero coatto in ricovero volontario sulla base del consenso espresso dall’amministratore di sostegno (Tribunale di Cosenza, 28 ottobre 2004 in Corti Calabresi 2007).

Mentre alcuni giudici parlano di una proroga del ricovero in regime volontario, per mezzo del consenso prestato dall’amministratore di sostegno in luogo – ed anzi con il dissenso del beneficiario, il Giudice tutelare di Bari, con il decreto 27 dicembre 2006  (G.Cassano, L’amministrazione di sostegno. Conforme, Trib. Cosenza 24.10 2004 per paziente affetto da psicosi cronica e  Trib. Modena 15.9.2004 per paziente affetto da disturbo delirante cronico) abbandona tale generica definizione, definendo apertamente l’operazione effettuata una coazione e, ancora prima, il giudice tutelare di Modena che con il decreto 15 settembre 2004, ha nominato un amministratore di sostegno ad un soggetto affetto da psicosi  e diabete che rifiutava le terapie salavavita, autorizzandolo a prestare il consenso ai trattamenti sanitari.

Va rilevato, inoltre, che il codice non richiede necessariamente per la nomina di un amministratore di sostegno una documentata diagnosi medica (articolo 407 e 419 del codice civile) e, soprattutto, non fornisce indicazioni circa le caratteristiche delle patologie che, adeguatamente documentate, possano fondare un ricovero psichiatrico coatto. Dovrà essere, quindi, valutato caso per caso se tali decreti siano conformi alle norme della Convenzione.

Ciò che deve essere tenuto presente è il principio sancito all’articolo 32, 2 della Costituzione, per cui “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Dalla Carta costituzionale e dalla legge che disciplina il Trattamento Sanitario Obbligatorio, emerge chiaramente  che i casi in cui si può disporre limitazioni alla libertà personale o trattamenti sanitari obbligatori sono di stretta interpretazione e non possono essere estesi dall’autorità giudiziaria.

Nel caso dell’amministrazione di sostegno, l’articolo 411 del codice civile, pur richiamando gli articoli relativi alla tutela, omette il richiamo all’articolo 371 del codice civile. Tale omissione non può costituire una mera dimenticanza del legislatore ma deve essere intesa quale precisa volontà di limitare i poteri del giudice tutelare nel procedimento per amministrazione di sostegno,  di fatto privo delle garanzie previste, al contrario, per il procedimento di interdizione.

Questa interpretazione “restrittiva” viene fatta propria anche dalla Corte di Cassazione con le sentenze 1 marzo 2010 n. 4866, 22 aprile 2009 n.  9628, 12 giugno 2006, laddove definiscono il confine tra l’amministrazione di sostegno e l’interdizione, precisando che “ il criterio distintivo tra l’amministrazione di sostegno e gli altri istituti a tutela dell’incapace è qualitativo e non quantitativo,  e deve, quindi, essere individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi da parte del soggetto carente di autonomia, ma, piuttosto, alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze del soggetto stesso, tenuto conto della sua complessiva condizione psicofisica e di tutte le circostanze caratterizzanti la fattispecie, con riguardo, in particolare, alla rete di protezione di cui la persona gode e alle esigenze che con l’invocata misura protettiva si mirano a soddisfare, dato il carattere estremamente più duttile dell’amministrazione di sostegno rispetto alle misure dell’interdizione  e dell’inabilitazione. L’amministratore di sostegno, infatti, diversamente da quanto accade nel caso delle altre misure a protezione dell’incapace, non si sostituisce al rappresentato ma sceglie con questo il suo best interest” (tribunale di Lamezia Terme decreto 8 marzo 2011; Trib Varese  decreto 6 ottobre 2009).

Nel caso in cui vi sia la necessità di trattamenti sanitari - che non rientrano nell’ipotesi prevista per il tso- se il malato psichico ha manifestato il dissenso alle terapie, i medici dovranno rispettare la volontà del malato. Quando, infatti, non vi sono pericoli per il paziente o per terzi  e si esce, di conseguenza, dall’ambito di applicazione del trattamento sanitario obbligatorio, deve essere valutata la capacità di discernimento del malato psichico che, in alcuni casi, permane (Decreto del Giudice Tutelare del Tribunale di Trani, Sezione distaccata di Rivo di Puglia del 13 maggio 2011 – Est. Dott.ssa Fiandaca).

Come ha evidenziato il Giudice Tutelare del Tribunale di Varese nel decreto  28 giugno 2012,  “Il fatto che un paziente sia “malato” a causa di un disturbo psichiatrico non è elemento sufficiente per confirnarlo entro i limiti di una misura di protezione giuridica. Infatti, isituire un’amministrazione di sostegno per il solo fatto che il paziente accus un disturbo psichiatrico equivarebbe ad alimentare lo stigma che, al contrario, la ragio istitutiva dell’ADS mira a demolire completamente. Non solo: il rischio è quello di trasformare l’amministrazione di sostegno in un “ammortizzatore sociale”, come taluno ha scritto”.

Nel caso in cui ritengano che sia stata compromessa totalamente ed in via permanente la capacità del malato, dovranno adire l’autorità giudiziaria per la nomina di un rappresentante che possa esprimere il consenso al trattamento al posto del beneficiario.

Tenuto conto della giurisprudenza europea e costituzionale, tuttavia, pare evidente che l’unica opzione conforme alle norme è quella dell’interdizione, istituto che offre maggiori garanzie al malato.

Si veda  il decreto del Giudice Tutelare di Milano del 27 agosto 2013, est. Buffone, seguito in punto di diritto dal Tribunale di Vercelli, sezione civile, sentenza 31 ottobre 2014 n. 142, laddove indica quale criterio distintivo per la scelta tra la nomina di un amministratore di sostegno o un tutore, la possibilità di porre in essere una gestione collaborativa con l’amministrato, in chiaro ossequio ai principi costituzionali (articolo 2 e 3), europei (articolo 8 Convenzione Europea dei diritti dell’uomo), internazionali (preambolo, articolo 1,2,3, e 4 Convenzioni delle Nazioni Unite sulle persone con disabilità). Ove tale gestione collaborativa non sia possibile, deve essere favorita una gestione sostitutiva, quale è quella che si crea con l’interdizione.

Nel caso in cui, tuttavia, il malato sia totalemente incapace di esprimere un consenso, ad avviso di chi scrive, si dovrebbe ricorrere all’interdizione. L’affiancamento dell’amministratore all’amministrato nella scelta terapeutica, infatti, presuppone non soltanto che il paziente non si opponga alla terapia ma anche che sia, sia pure in modo menomato, capace di comprendere il trattamento che gli viene proposto. Ove questo non sia possibile, si dovrà ricorrere al Trattamento Sanitario Obbligatorio ove ne ricorrano gli estremi fissati dalla legge ed all’interdizione negli altri casi.

La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sezione IV del 22 gennaio 2013 Mihailovs contro Lettonia, detta i criteri cui tutti gli Stati ed il giudici devono uniformarsi.

L’articolo 5, infatti, che tutela il diritto alla libertà ed alla sicurezza di ogni persona nonché l’articolo 8 della Convenzione, sono direttamente applicabili da ogni giudice in quanto vertono su diritti fondamentali e non necessitano di alcuna legge di ratifica da parte degli Stati aderenti.

I principi elaborati dalla Corte nella citata sentenza sono: “l’infermità mentale deve essere accertata dall’autorità giudiziaria sulla base di una perizia medica oggettiva, salvo che in caso di urgenza”, …”il disturbo psichico deve essere di natura o gravità tale da giustificare la privazione della libertà personale”; la privazione della libertà deve essere proporzionata all’esigenza di tutelare la sicurezza dell’internato e della collettività ed infine “il perpetuarsi della detenzione deve essere correlato all’effettiva persistenza del disturbo psichico” (Maria Pelazza, commento a Sentenza Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez IV, 22 gennaio 2013 Mihailovs c. Lettonia, in Diritto penale contemporaneo)

La pratica di molti Tribunali di affidarsi per la nomina di un amministratore di sostegno o di un tutore alla valutazione  di un mero certificato medico rilasciato dal medico di famiglia  nonché dell’incontro  del malato con il giudice, appare essere chiaramente in contrasto con i principi  stabiliti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Sarà compito dei magistrati, pertanto, vigilare sul rispetto di tali norme.

Abstract: L’autrice affronta le problematiche connesse al consenso informato nel paziente psichico ed al ricovero in struttura, con riferimento alle norme europee e italiane.

Con la legge 13 maggio 1978 n. 180, nota anche come “legge Basaglia” è cambiato il modo di considerare il malato psichiatrico, non più persona socialemente pericolosa da tenere chiusa dentro ad una struttura manicomiale, ma soggetto cui vanno riconosciuti spazi di autodeterminazione e il cui consenso al trattamento sanitario va ricercato e raggiunto in ogni situazione, pur permanendo la possibilità di ricorso a trattamenti sanitari obbligatori, quando vi siano “alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici” (Montanari Vergallo G, Il rapporto medico-paziente. Consenso e informazione tra libertà e responsabilità. Milano, Giuffrè, 2008 pag 249-271).

Prima della legge 180, l’obbligo all’intervento produceva automaticamente la custodia  del malato. L’autorità, quindi, si dichiarava responsabile della salute del paziente psichiatrico, sospendendo taluni suoi diritti per tutelarlo come malato. Quando tale sospensione non avveniva, l’autorità non aveva alcuna responsabilità in ordine alla salute della persona.

La legge 180, al contrario, non vuole dare al paziente psichiatrico la medesima contrattualità del ricoverato volontario, libero di dimettersi sotto la propria responsabilità ma fornisce un contratto nuovo, che lo garantisce, oltrechè dal rischio di compressione dei diritti per motivi terapeutici, anche dal rischio opposto, ovvero che la libertà di autodeterminarsi si risolva in forme di abbandono da parte del medico.

L’articolo 7 della Convenzione di Oviedo, prevede che “la persona che soffre di un disturbo mentale grave non può essere sottoposta senza il proprio consenso a un intervento avente per oggetto il trattamento di questo disturbo se non quando l’assenza di questo trattamento rischia di essere pregiudizievole alla sua salute e sotto riserva delle condizioni di protezioni previste dalla legge comprendenti le procedure di sorveglianza e di controllo e le vie di ricorso…”.

Stante la variegata e peculiare tipologia dei disturbi mentali, il consenso in psichiatria assume spesso valenza particolare poiché può risultare problematico instaurare una terapia.

La validità del consenso al trattamento da parte del paziente psichiatrico richiede che siano soddisfatte alcune condizioni che riguardano “le capacità” in merito alla decisione di accettare o rifiutare il trattamento proposto:

1- Capacità di comprendere le informazioni essenziali;

2- Capacità di elaborare razionalmente le informazioni;

3- Capacità di valutare la situazione e le probabili conseguenze di una scelta;

4- Capacità di comunicare una scelta.

Il complesso problema del consenso in psichiatria è stato considerato dal Comitato Nazionale per la bioetica nell’ambito dei pareri su “Il trattamento dei pazienti psichiatrici” (24 settembre 1999) e su “Psichiatria e salute mentale:orientamenti bioetici” (24 novembre 2000).

Il Comitato ha sottolineato la natura graduale e mutevole della capacità o incapacità di intendere e volere anche nel caso delle psicosi, in quanto tra l’assoluta incapacità, propria della demenza, e la “normalita” ci sono una serie di gradi intermedi dove deficit cognitivi e alterazioni affettive possono determinarne diminuzioni, ma non l’assenza della capacità. Questo, ovviamente, non può legittimare la rinuncia all’informazione del paziente psichiatrico, ma comporta una maggiore cautela nel vagliare caso  per caso la misura adatta al singolo paziente in riferimento alla sua situazione (Fiori A. Informazione e consenso dell’atto medico, in CNB -1990-2005, Atti del convegno di studio (Roma, 30 novembre -3 dicembre 2005).

Il Codice Deontologio Medico  del 2014 (art. 33) prevede che il medico debba informare il paziente, tenendo conto delle capacità di comprensione di quest’ultimo, senza però  omettere  informazioni.

La Convenzione di Oviedo stabilisce la necessità del consenso di un “rappresentante” nel caso in cui questo sia impedito ad esprimersi “Allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l’autorizzazione del suo rappresentante, di un’autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge “ (articolo 6).

I medici che devono raccogliere il consenso informato del paziente, ovviamente non in caso di intervento urgente, nel caso in cui questo non abbia un rappresentante legale – amministratore di sostegno o tutore- devono, quindi, rivolgersi all’autorità giudiziaria per le determinazioni di competenza, fornendo tutte le necessarie informazioni sanitarie sulla capacità del beneficiario. 

Nel settore delle cure sanitarie, pertanto, il rispetto della volontà dell’individuo assume particolare rilievo in ossequio al principio costituzionale  sancito dall’articolo 32. Tale principio non può, ovviamente, subire deroghe sul mero presupposto che siamo in presenza di una persona disabile.

La deroga prevista dall’articolo 6 della Convenzione di Oviedo, di conseguenza, ha la sua unica ragione d’essere nell’accertata esistenza della capacità di discernimento ed allo scopo di proteggere i soggetti deboli da possibili abusi.

Con la legge 9 gennaio 2004, n. 6, è stato introdotto nel nostro ordinamento l’istituto dell’amministrazione di sostegno e sono stati modificati gli articoli 388, 414, 417, 418, 424, 427 e 429 del codice civile.

L’articolo 404 cc indica quale beneficiaria “la persona  che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”.

Il dato letterale prevede espressamente l’applicabilità dell’istituto alla persona affetta da patologia psichica.

La Corte Costituzionale, con la sentenza  9 dicembre 2005 n.440 ha affermato che solo ove non vengano ravvisati interventi di sostegno idonei ad assicurare protezione al beneficiario, il giudice tutelare può ricorrere alle più invasive misure dell’inabilitazione o dell’interdizione.

La Corte di Cassazione, con la sentenza 12 giugno 2006  n. 13584, si è pronunciata per la prima volta su nuovo istituto,  evidenziando l’importanza di un’ottica meno custodialistica e più orientata al rispetto della dignità della persona ed alla cura complessiva della persona e della sua personalità, affermando espressamente il carattere residuale dell’interdizione.

L’art. 405  comma 5 codice civile, prevedendo che l’incarico di amministratore di sostegno possa essere conferito anche a tempo indeterminato, giustifica la conclusione che l’istituto possa essere applicato anche in caso di patologia psichica non temporanea.

L’art. 414 codice civile  ha  inoltre modificato l’istituto dell’interdizione, eliminando l’obbligo per il giudice di interdire i soggetti incapaci di provvedere ai propri interessi, ma contempla la mera facoltà di procedere in tal senso, “quando ciò sia necessario per assicurare la loro adeguata protezione”.

Nel corso degli anni, tuttavia, va rilevato che la giurisprudenza ha  assunto orientamenti difformi in merito alla scelta tra la nomina di un amministratore di sostegno o  quella di un tutore.

La misura dell’interdizione, peraltro, viene ritenuta preferibile nel caso in cui  vi sia una elevata consistenza del patrimonio mobiliare ed immobiliare, collegata  con la gravità ed irreversibilità delle condizioni psicofisiche del  soggetto (Cassazione Civile, Sez. I,  4 aprile 2014).

Si deve optare, al contrario, per l’amministrazione di sostegno  quando “l’attività da compiere per la cura dell’interessato si presenti “semplice”, vuoi per la scarsa consistenza del patrimonio disponibile, vuoi per la semplicità delle operazioni da svolgere (attinenti, ad esempio, alla gestione ordinaria del reddito da pensione) e per l’attitudine del soggetto protetto a non porre in discussione i risultati dell’attività di sostegno nei suoi confronti” (Tribunale di Lamezia Terme, decreto 8 marzo 2011).

Va, peraltro, osservato che non vi sono ostacoli normativi a che l’amministratore di sostegno possa prestare un consenso informato alle cure, in caso di accertamenti o trattamenti sanitari, sostituendosi al soggetto incapace. Anche se tale potere non è espressamente previsto dall’articolo 411 cc, è insito nelle disposizioni codicistiche sull’amministrazione di sostegno. (Tribunale di Varese, decreto 30 aprile 2012).

Tale potere, tuttavia, è limitato agli accertamenti, ai trattamenti ed alle terapie routinarie, che escludono trattamenti invasivi e che non comportano periodi di lungodegenza in ospedale.  Nel caso di operazioni chirurgiche, cicli terapici quali dialisi, chemioterapia… l’amministratore di sostegno dovrà coinvolgere il Giudice Tutelare anche a fini autorizzativi.

Al contempo, però, l’amministratore di sostegno dovrà tenere presente, per quanto possibile, i desideri del beneficiario.

Nel caso di ricoveri coatti, infatti, a parte l’ipotesi del TSO, sulla base della normativa vigente, il Giudice Tutelare potrebbe conferire all’amministratore di sostegno il potere di prestare il consenso, al posto del beneficiario, ad un ricovero  coatto  in struttura ospedaliera.

Si deve, tuttavia, osservare che l’articolo 5 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo recita” Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei caso seguenti e nei modi prescritti dalla legge (…) e se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo (…)”.

La Corte di Giustizia Europea, peraltro, nel corso degli anni, ha elaborato una serie di requisiti per considerare “lawful” la detenzione di un malato psichico.

Si deve trattare, innanzitutto, di una  vera infermità mentale, che deve essere accertata dall’autorità competente sulla base di una perizia medica oggettiva, salvo che in caso di urgenza; il disturbo psichico deve essere di natura o gravità tale da giustificare la privazione della libertà personale; la privazione della libertà deve essere proporzionata rispetto all’esigenza di tutelare la sicurezza del malato e della collettività ed infine il perpetuarsi della detenzione deve essere correlato all’effettiva persistenza del disturbo psichico (L. Beduschi, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010; il diritto alla libertà personale).

Nel caso del ricovero in una struttura di un malato psichico, pertanto, deve essere innanzitutto dimostrata la sussistenza di una effettiva infermità mentale. Tale requisito non può essere ritenuto soddisfatto da un mero certificato medico ma si deve fondare su una perizia attestante una oggettiva infermità mentale connotata da gravità.

Il problema si pone, ad esempio, nel caso affrontato dal giudice tutelare di Varese con il decreto 30 aprile 2012, che ha conferito ad un amministratore di sostegno il potere di prestare il consenso a trattamenti sanitari, contro la volontà del beneficiario, perché “privo della sufficiente consapevolezza critica della malattia” e delle “ conseguenze del rifiuto a sottoporsi a trattamento terapeutico.”.

Nel caso in cui il beneficiario, anche se di fatto incapace, non presti il consenso a tali trattamenti, seguendo i principi stabiliti dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo, si deve ricorrere ad una effettiva valutazione da parte dell’autorità giudiziaria sulla necessità del trattamento e sulla proporzionalità della terapia rispetto allo scopo.

Nulla quaestio nel caso in cui venga richiesto un Trattamento Sanitario Obbligatorio dai sanitari. La normativa prevede che possa essere chiesto solo in determinate ipotesi e dopo un iter amministrativo che garantisce il paziente.

Ma dall’esame della giurisprudenza degli ultimi anni, si ravvisano ipotesi in cui viene, di fatto, esteso il ricovero di un malato psichico, ben oltre il limite di legge fissato per il trattamento sanitario obbligatorio, aggirando la normativa e  trasformando il ricovero coatto in ricovero volontario sulla base del consenso espresso dall’amministratore di sostegno (Tribunale di Cosenza, 28 ottobre 2004 in Corti Calabresi 2007).

Mentre alcuni giudici parlano di una proroga del ricovero in regime volontario, per mezzo del consenso prestato dall’amministratore di sostegno in luogo – ed anzi con il dissenso del beneficiario, il Giudice tutelare di Bari, con il decreto 27 dicembre 2006  (G.Cassano, L’amministrazione di sostegno. Conforme, Trib. Cosenza 24.10 2004 per paziente affetto da psicosi cronica e  Trib. Modena 15.9.2004 per paziente affetto da disturbo delirante cronico) abbandona tale generica definizione, definendo apertamente l’operazione effettuata una coazione e, ancora prima, il giudice tutelare di Modena che con il decreto 15 settembre 2004, ha nominato un amministratore di sostegno ad un soggetto affetto da psicosi  e diabete che rifiutava le terapie salavavita, autorizzandolo a prestare il consenso ai trattamenti sanitari.

Va rilevato, inoltre, che il codice non richiede necessariamente per la nomina di un amministratore di sostegno una documentata diagnosi medica (articolo 407 e 419 del codice civile) e, soprattutto, non fornisce indicazioni circa le caratteristiche delle patologie che, adeguatamente documentate, possano fondare un ricovero psichiatrico coatto. Dovrà essere, quindi, valutato caso per caso se tali decreti siano conformi alle norme della Convenzione.

Ciò che deve essere tenuto presente è il principio sancito all’articolo 32, 2 della Costituzione, per cui “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

Dalla Carta costituzionale e dalla legge che disciplina il Trattamento Sanitario Obbligatorio, emerge chiaramente  che i casi in cui si può disporre limitazioni alla libertà personale o trattamenti sanitari obbligatori sono di stretta interpretazione e non possono essere estesi dall’autorità giudiziaria.

Nel caso dell’amministrazione di sostegno, l’articolo 411 del codice civile, pur richiamando gli articoli relativi alla tutela, omette il richiamo all’articolo 371 del codice civile. Tale omissione non può costituire una mera dimenticanza del legislatore ma deve essere intesa quale precisa volontà di limitare i poteri del giudice tutelare nel procedimento per amministrazione di sostegno,  di fatto privo delle garanzie previste, al contrario, per il procedimento di interdizione.

Questa interpretazione “restrittiva” viene fatta propria anche dalla Corte di Cassazione con le sentenze 1 marzo 2010 n. 4866, 22 aprile 2009 n.  9628, 12 giugno 2006, laddove definiscono il confine tra l’amministrazione di sostegno e l’interdizione, precisando che “ il criterio distintivo tra l’amministrazione di sostegno e gli altri istituti a tutela dell’incapace è qualitativo e non quantitativo,  e deve, quindi, essere individuato con riguardo non già al diverso, e meno intenso, grado di infermità o di impossibilità di attendere ai propri interessi da parte del soggetto carente di autonomia, ma, piuttosto, alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze del soggetto stesso, tenuto conto della sua complessiva condizione psicofisica e di tutte le circostanze caratterizzanti la fattispecie, con riguardo, in particolare, alla rete di protezione di cui la persona gode e alle esigenze che con l’invocata misura protettiva si mirano a soddisfare, dato il carattere estremamente più duttile dell’amministrazione di sostegno rispetto alle misure dell’interdizione  e dell’inabilitazione. L’amministratore di sostegno, infatti, diversamente da quanto accade nel caso delle altre misure a protezione dell’incapace, non si sostituisce al rappresentato ma sceglie con questo il suo best interest” (tribunale di Lamezia Terme decreto 8 marzo 2011; Trib Varese  decreto 6 ottobre 2009).

Nel caso in cui vi sia la necessità di trattamenti sanitari - che non rientrano nell’ipotesi prevista per il tso- se il malato psichico ha manifestato il dissenso alle terapie, i medici dovranno rispettare la volontà del malato. Quando, infatti, non vi sono pericoli per il paziente o per terzi  e si esce, di conseguenza, dall’ambito di applicazione del trattamento sanitario obbligatorio, deve essere valutata la capacità di discernimento del malato psichico che, in alcuni casi, permane (Decreto del Giudice Tutelare del Tribunale di Trani, Sezione distaccata di Rivo di Puglia del 13 maggio 2011 – Est. Dott.ssa Fiandaca).

Come ha evidenziato il Giudice Tutelare del Tribunale di Varese nel decreto  28 giugno 2012,  “Il fatto che un paziente sia “malato” a causa di un disturbo psichiatrico non è elemento sufficiente per confirnarlo entro i limiti di una misura di protezione giuridica. Infatti, isituire un’amministrazione di sostegno per il solo fatto che il paziente accus un disturbo psichiatrico equivarebbe ad alimentare lo stigma che, al contrario, la ragio istitutiva dell’ADS mira a demolire completamente. Non solo: il rischio è quello di trasformare l’amministrazione di sostegno in un “ammortizzatore sociale”, come taluno ha scritto”.

Nel caso in cui ritengano che sia stata compromessa totalamente ed in via permanente la capacità del malato, dovranno adire l’autorità giudiziaria per la nomina di un rappresentante che possa esprimere il consenso al trattamento al posto del beneficiario.

Tenuto conto della giurisprudenza europea e costituzionale, tuttavia, pare evidente che l’unica opzione conforme alle norme è quella dell’interdizione, istituto che offre maggiori garanzie al malato.

Si veda  il decreto del Giudice Tutelare di Milano del 27 agosto 2013, est. Buffone, seguito in punto di diritto dal Tribunale di Vercelli, sezione civile, sentenza 31 ottobre 2014 n. 142, laddove indica quale criterio distintivo per la scelta tra la nomina di un amministratore di sostegno o un tutore, la possibilità di porre in essere una gestione collaborativa con l’amministrato, in chiaro ossequio ai principi costituzionali (articolo 2 e 3), europei (articolo 8 Convenzione Europea dei diritti dell’uomo), internazionali (preambolo, articolo 1,2,3, e 4 Convenzioni delle Nazioni Unite sulle persone con disabilità). Ove tale gestione collaborativa non sia possibile, deve essere favorita una gestione sostitutiva, quale è quella che si crea con l’interdizione.

Nel caso in cui, tuttavia, il malato sia totalemente incapace di esprimere un consenso, ad avviso di chi scrive, si dovrebbe ricorrere all’interdizione. L’affiancamento dell’amministratore all’amministrato nella scelta terapeutica, infatti, presuppone non soltanto che il paziente non si opponga alla terapia ma anche che sia, sia pure in modo menomato, capace di comprendere il trattamento che gli viene proposto. Ove questo non sia possibile, si dovrà ricorrere al Trattamento Sanitario Obbligatorio ove ne ricorrano gli estremi fissati dalla legge ed all’interdizione negli altri casi.

La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sezione IV del 22 gennaio 2013 Mihailovs contro Lettonia, detta i criteri cui tutti gli Stati ed il giudici devono uniformarsi.

L’articolo 5, infatti, che tutela il diritto alla libertà ed alla sicurezza di ogni persona nonché l’articolo 8 della Convenzione, sono direttamente applicabili da ogni giudice in quanto vertono su diritti fondamentali e non necessitano di alcuna legge di ratifica da parte degli Stati aderenti.

I principi elaborati dalla Corte nella citata sentenza sono: “l’infermità mentale deve essere accertata dall’autorità giudiziaria sulla base di una perizia medica oggettiva, salvo che in caso di urgenza”, …”il disturbo psichico deve essere di natura o gravità tale da giustificare la privazione della libertà personale”; la privazione della libertà deve essere proporzionata all’esigenza di tutelare la sicurezza dell’internato e della collettività ed infine “il perpetuarsi della detenzione deve essere correlato all’effettiva persistenza del disturbo psichico” (Maria Pelazza, commento a Sentenza Corte Europea dei diritti dell’uomo, sez IV, 22 gennaio 2013 Mihailovs c. Lettonia, in Diritto penale contemporaneo)

La pratica di molti Tribunali di affidarsi per la nomina di un amministratore di sostegno o di un tutore alla valutazione  di un mero certificato medico rilasciato dal medico di famiglia  nonché dell’incontro  del malato con il giudice, appare essere chiaramente in contrasto con i principi  stabiliti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Sarà compito dei magistrati, pertanto, vigilare sul rispetto di tali norme.