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Il marchio Coop tutelato dal Tribunale di Bologna mediante un’inibitoria pan-europea

Italian food
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È ora divenuto definitivo, a seguito dell’acquiescenza del destinatario del provvedimento (che in seguito a un accordo col titolare del diritto ha abbandonato il reclamo proposto contro di esso e ha modificato tutti i propri segni distintivi) un’ordinanza del Tribunale di Bologna, Sezione Specializzata dell’Impresa Società, emessa il 7 gennaio 2020, che ha inibito a una società che commercializzava in Europa prodotti agricoli italiani usando come marchio “COOP Italy” e come propria denominazione “COOP Italy Trade S.r.l., “ogni utilizzo del termine ‘Coop’ in funzione di marchio, denominazione sociale e nome a dominio, e in generale come segno distintivo dei prodotti e servizi offerti” e ciò “in tutti i Paesi dell’Unione Europea”, con un provvedimento, dunque, con efficacia cross border.

Il provvedimento è stato emesso sulla base di un ricorso promosso da Coop Italia s.c. a r.l., colosso della grande distribuzione organizzata, e da Coop Italian Food s.r.l., società che commercializza in Europa i prodotti a marchio “Coop”.

In tal modo il Tribunale di Bologna ha fatto una puntuale applicazione dell’articolo 131, comma 2°, RMUE, a mente del quale “Un tribunale dei marchi UE la cui competenza si fonda sull’articolo 125, paragrafi 1, 2, 3 o 4, è competente a ordinare misure provvisorie e cautelari che, fatte salve le procedure di riconoscimento e di esecuzione richieste dal capo III del regolamento (UE) n. 1215/2012, hanno efficacia sul territorio di qualsiasi Stato membro”.

La condizione prevista dal richiamato articolo 131 RMUE sussisteva appunto perché la ex Coop Italy Trade ha sede in Italia e la giurisdizione italiana a conoscere della presente causa si fonda quindi sull’articolo 125, comma 1°, RMUE.

Infatti, tali effetti cross border (o meglio: pan-europei) delle misure disposte a tutela dei marchi UE discendono dal carattere unitario del titolo invocato, appunto il marchio UE: ciò è stato chiarito dalla nota sentenza di Corte Giustizia UE, 22 settembre 2016, nella causa C223/15, ove i Giudici europei hanno appunto affermato che “Al fine di garantire la protezione uniforme di cui gode il marchio dell’Unione europea nell’intero territorio dell’Unione, il divieto di prosecuzione degli atti di contraffazione o di minaccia di contraffazione deve estendersi in linea di principio a tutto il suddetto territorio”, con la sola eccezione del caso in cui “il Tribunale dei marchi dell’Unione europea, sulla base degli elementi che il convenuto è tenuto in linea di principio a fornirgli, stabilisca l’assenza di un rischio di confusione in una parte dell’Unione”, nel quale unico caso “il commercio legittimo risultante dall’uso del segno in esame in tale parte dell’Unione non può formare oggetto di divieto” (punti 130-132).

Quest’ultima situazione tuttavia non sussisteva perché, come si evinceva dal suo sito Internet, la ex Coop Italy Trade distribuiva prodotti ortofrutticoli, compresi quelli a marchio “Coop Italy”, in tutta Europa.

Nella dottrina italiana si è anzi richiamata l’attenzione sulla possibilità che provvedimenti cross-border siano emessi non solo a tutela di marchi UE, ma anche di marchi stranieri, se non viene eccepita la nullità di essi o se questa è eccepita “in malafede”, cioè in modo pretestuoso, come aveva osservato l’Avvocato Generale Geelhoed nelle conclusioni presentate davanti alla Corte di Giustizia europea il 16 settembre 2004 nel procedimento C-4/03, dove, pur giungendo a sua volta alla conclusione poi accolta dalla Corte di negare ai Giudici di uno Stato la possibilità di conoscere anche in via incidentale della validità di un brevetto (o di una frazione di brevetto europeo) efficace in uno Stato diverso, osservava (al punto 46) che, davanti a un’eccezione di nullità, “Il giudice che conosce della contraffazione può rinviare integralmente la causa, può sospenderla fino a che il giudice di un altro Stato membro, competente ai sensi dell’articolo 16, n. 4, abbia deciso sulla validità del brevetto, e può infine deciderla egli stesso quando il convenuto sia in malafede”.

Questa osservazione implica infatti che, anche nel sistema europeo debba ritenersi “vietato un uso strumentale della norma allo scopo di sottrarre la causa (in questo caso, di contraffazione) al suo giudice naturale: e poiché “Cause di contraffazione ‘pure’, come le chiama l’Avvocato Generale, ovvero nelle quali la validità della privativa non è messa in discussione (o lo è soltanto sulla base di eccezioni di nullità che appaiono prima facie puramente pretestuose e non dovrebbero valere quindi a sottrarre la causa di contraffazione alla cognizione del Giudice presso il quale sia stata radicata), sono molto frequenti in materia di marchi (e anche di disegni e modelli)”, si deve concludere che “riguardo ad esse … non sembra che si possa escludere, nemmeno sulla base della più restrittiva giurisprudenza della Corte di giustizia, la possibilità di promuoverle anche davanti a Giudici diversi” da quello competente in via esclusiva a conoscere della validità del titolo (così Galli, La Corte di Giustizia C.E. restringe drasticamente lo spazio per le azioni cross-border in materia di brevetti, in Int’lis, 2006, poi ripubblicato in IP Law Galli Newsletter, Novembre 2006, consultabile alla pagina web).

Il Giudice ha tutelato i marchi “Coop” come marchi di rinomanza (già riconosciuti come tali da una precedente pronuncia del medesimo Tribunale), evidenziando, oltre al rischio di confusione, “L’intenzione di agganciamento ... ampiamente confermata dai contenuti della comunicazione promozionale e pubblicitaria” e rilevando che la “campagna pubblicitaria (di Coop Italy Trade: n.d.r.) è … assimilata ed imitativa della immagine della Coop, riproducendo talune delle modalità di presentazione dei prodotti e degli abbinamenti di colori propri di coop, e rappresentando, negli scritti, i valori propri della cooperazione, cosicché in effetti è più che possibile, probabile, che la ricorrente sia ritenuta società appartenente al gruppo Coop”.

Il Tribunale ha anche dato rilievo anche al fatto che l’imitatore non era una società  cooperativacosicché non vi è alcuna corrispondenza tra forma e organizzazione sociale e marchio; dunque la scelta del termine “coop” tra le componenti del marchio non pare appropriata, e specificamente con riguardo alle caratteristiche imprenditoriali di Coop Italy Trade s.r.l., ma piuttosto già di per sé tendenzialmente confusiva”.

Il Tribunale, perciò, non ha solo inibito l’uso del segno “Coop” da parte dell’imitatore, ma gli ha anche vietato di “diffondere notizie e comunicazioni ingannevoli volte ad attribuirsi caratteristiche e pregi di Coop Italia s.c. a r.l., o ingannare il pubblico circa la appartenenza della ricorrente al gruppo Coop”; ha fissato una penale di 1.000,00 euro per ogni violazione e per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento; e ha disposto la pubblicazione del provvedimento a spese dell’imitatore su due importanti quotidiani, nonché per trenta giorni consecutivi sulla home page di un sito Internet specializzato destinato ai professioni del mercato ortofrutticolo.

In tal modo la giurisdizione italiana si conferma all’avanguardia nella tutela dei segni distintivi, con un approccio realistico, che valorizza la percezione del pubblico rilevante e appresta ai diritti dei titolari le misure più adeguate, individuate “on a case by case basis” partendo dall’analisi di tutti gli elementi del caso concreto.