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Opere d'arte: quando è lecito utilizzare marchi celebri?

Campbell's, Andy Warhol Special edition
Campbell's, Andy Warhol Special edition

Negli anni sessanta trentadue ordinarie e persino banali lattine di zuppa a marchio Campbell Soup dagli scaffali del supermercato sono volate sulle pareti del Moma, forse grazie ai fiori che la madre di Andy Warhol realizzava con il loro alluminio riciclato o forse perché queste zuppe erano state il suo “pranzo quotidiano, ogni giorno. Per vent’anni”.

Resta, però, che i marchi di una popolare ed economica zuppa in scatola e di una lattina di cola da segni distintivi di un’attività economica si sono trasformati in arte e in icone democratiche della Pop Art, perché “se c’è una cosa grandiosa dell’America è che qui è iniziata la tradizione in base alla quale i più ricchi consumatori comprano essenzialmente le stesse cose dei più poveri. Tu guardi la tv e vedi la Coca-Cola, e sai che il Presidente beve la Coca-Cola, Liz Taylor beve la Coca-Cola e puoi pensare che anche tu bevi Coca-Cola. Una Coca-Cola è una Coca-Cola e non esiste nessuna somma di denaro che possa garantirti di bere una Coca-Cola migliore di quella che sta bevendo un barbone all’angolo della strada. Tutte le Coca-Cola sono le stesse e tutte le Coca-Cola sono buone. Liz Taylor lo sa, il Presidente lo sa, il barbone lo sa, e lo sai anche tu[1], e perché, come precisato il 13 giugno 2002 dall’Avvocato Generale della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel “caso Arsenal” «un'interpretazione estremista della portata dei diritti del titolare del marchio avrebbe potuto privare l'arte contemporanea di dipinti tanto espressivi, eccezionale esempio della «pop art».

Ma se negli anni ’60 un brand popolare si è democraticamente trasformato in un’arte accessibile e comprensibile a tutti, oggi pare che il paradigma si sia completamente invertito e che i brand del lusso, ormai inaccessibili ai più, siano diventati affordable in un click, grazie alle loro “non autorizzate” riproduzioni su tela.

Chiunque non ha i mezzi per possedere una vera Chanel 2.55, l’iconica borsetta matelassé creata da Mademoiselle Coco in rue Cambon, nel febbraio del 1955 e che oggi costa poco meno di un’utilitaria, con poche decine di dollari può trovare consolazione  appendendosi in casa una sua “artistica riproduzione” su tela, con tanto di marchio Chanel.

Sui social network e sulle aste online si affollano, infatti, oggetti di ogni tipo con marchi celebri in primo piano e colori iconici, immediatamente riconducibili a questo o quell’altro brand del lusso.  La rete si è letteralmente riempita di estintori n. 5, di Birking bags in resina arancione logate Hermes e di bidoni con il monogramma di Luis Vuitton, realizzati da sconosciuti che li mettono in vendita professandosi artisti e invocando la libertà artistica.

Ma qual è discrimen tra la Coca Cola di Warhol e un estintore con il logo Chanel?

La Direttiva UE 2015/2436 sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa e il Regolamento (Ue) 2015/2424 hanno rispettivamente indicato nei considerando n. 27 e 21 che “è opportuno che i diritti esclusivi conferiti dal marchio d'impresa non permettano al titolare di vietare l'uso da parte di terzi di segni o indicazioni utilizzati correttamente e quindi conformemente alle consuetudini di lealtà in campo industriale e commerciale. [...] L'uso di un marchio d'impresa da parte di terzi per fini di espressione artistica dovrebbe essere considerato corretto a condizione di essere al tempo stesso conforme alle consuetudini di lealtà in campo industriale e commerciale. Inoltre, la presente direttiva dovrebbe essere applicata in modo tale da assicurare il pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare della libertà di espressione” tracciando una condivisibile linea a favore della libertà di espressione artistica che è stata fatta propria anche nei pochi precedenti giurisprudenziali editi.

Il primo caso che ha posto la questione al centro del dibattito l’utilizzo di marchi celebri in opere d’arte ha visto coinvolto l’artista danese Nadia Plesner contro il noto brand francese Louis Vuitton.

L’artista, nella sua opera del 2008 Simple Living, aveva raffigurato un bambino di colore, in grave stato di denutrizione, che stringeva tra le braccia un chihuahua vestito di rosa e una borsetta replicante il modello Audra del noto brand francese, del quale era ripresa la forma e il registrato “Multicolor Canvas Design”[2].

La “cruda realtà” dell’immagine, che evocava quella dell’ereditiera Paris Hilton, spesso al centro dei gossip e dell’attenzione dell’opinione pubblica, era stata eretta a emblema della critica nei confronti dello scarso interesse dimostrato dai media nei confronti della situazione del Darfur, su cui l’artista intendeva richiamare il coinvolgimento sociale.

L’immagine era stata, poi, riprodotta su t-shirt e poster venduti dalla stessa autrice, il cui ricavato era stato devoluto all’associazione Divest for Darfur.

La reazione della celebre casa di moda francese portava all’emissione di un’ordinanza da parte del Tribunal de Grande Istance de Paris[3] che poneva fine alla vendita del merchandise per limitare la violazione del design registrato. Successivamente, si tentava di risolvere la controversia tramite un accordo extragiudiziale tra le parti, che però non veniva mai stipulato.

Un paio di anni più tardi, la stessa artista riprendeva il medesimo disegno del bambino nell’opera “Darfunica”, un dipinto di grosse dimensioni ispirato alla famosa “Guernica” di Picasso, il quale veniva esposto in mostra a Copenaghen ed offerto in vendita, insieme ad altri oggetti facenti parte del sopracitato merchandise di “Simple Living”.

Nel 2011, la Corte dell’Aja emanava quindi un’ulteriore ordinanza[4], nella quale veniva sottolineato l’indebito vantaggio tratto da Nadia Plesner nell’utilizzo non autorizzato del design registrato da Louis Vuitton derivante dalla vendita di prodotti di merchandising derivati dall’opera. In tal sede, i giudici stabilivano che l’eccezione della libertà artistica, quale motivo di limitazione di un diritto di proprietà intellettuale, potesse essere invocata esclusivamente in casi eccezionali[5] e, non essendo l’azienda coinvolta nell’episodio del genocidio in Darfur, l’accostamento del marchio alla vicenda, anche solo come “elemento dello showbiz”, non fosse da considerarsi in alcun modo necessario al veicolare del messaggio dell’opera ed anzi indirettamente comprometteva la reputazione del brand francese.

Detta decisione veniva, poi, completamente ribaltata nel giudizio di impugnazione[6], nel quale le parti facevano riferimento ai loro diritti enunciati dalla CEDU: da una parte Nadia Plesner si appellava l’articolo 10 relativo alla liberà di espressione[7] e dall’altra l’azienda citava l’articolo 1 del primo protocollo addizionale alla CEDU in riferimento alla protezione della proprietà[8], nel quale dovrebbero intendersi inclusi i diritti di proprietà intellettuale (così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo[9]).

Considerando l’importanza dei due diritti in questione, definiti “su un piano di parità ma in conflitto”, la Corte affermava che la libertà di espressione e la conseguente critica sociale che ne derivava dovessero considerarsi di maggiore rilievo rispetto ai diritti di proprietà industriale derivanti dalla registrazione del design di Louis Vuitton. L’utilizzo da parte dell’artista era infatti definito come “funzionale e proporzionato” e soprattutto ritenuto “non-commerciale”, in quanto lo scopo dell’opera in questione non era quello di trarre un indebito vantaggio dallo sfruttamento del design del modello Audra, bensì quello di convergere l’attenzione della società sull’attualità delle vicende in Darfur.

In questo caso, il giusto bilanciamento tra il diritto alla libertà di espressione, specificatamente libertà artistica, e l’esercizio esclusivo del design registrato veniva risolto in favore della garanzia del primo, in quanto principio fondante di una società democratica.

La parodia intesa come "una forma di critica sociale e letteraria", che ha "valore socialmente significativo come libertà di parola ai sensi del Primo Emendamento" ha salvato anche le “Food Chain Barbie” di Tom Forsythe, alias "Walking Mountain Productions", ossia una serie di 78 scatti, in cui la celebre bambola della Mattel, icona della donna perfetta americana, e considerata un marchio di fatto, è stata raffigurata in varie posizioni sessualizzate in virtù del principio che “l'interesse pubblico per l'espressione libera e artistica supera di gran lunga il suo interesse per la potenziale confusione dei consumatori circa la sponsorizzazione[10] da parte di Mattel.

Più di recente, la questione riguardante il delicato equilibrio tra diritti di marchio e libertà di espressione è stata nuovamente sottoposta al giudizio del Tribunale commerciale di Bruxelles in una causa che ha visto coinvolta la nota azienda di champagne Moët Hennessy Champagne Services (MHCS) in contrapposizione all’utilizzo del suo marchio Dom Pérignon[11] da parte di Cédric Peers, un artista belga il quale aveva riprodotto nelle sue opere bottiglie di tale champagne facilmente riconoscibili tramite l’etichetta “a scudo con tre punte”[12], etichetta creato proprio da Andy Warhol, in contesti di vita decadente e quasi soft-erotici. L'artista descrive il suo obiettivo artistico come “fare di un capolavoro un'icona, trasformando il marketing in arte”, utilizzando nelle sue espressioni artistiche alcuni marchi famosi, perché emblematici di un marketing sofisticato.

Inoltre, l'artista aveva lanciato una collezione di abbigliamento (in particolare maglioni e magliette) con un'immagine stilizzata della bottiglia - ed annessa etichetta - e chiamata “Damn Perignon Collection”, destinata a fungere quale strumento promozionale per le proprie opere.

La MHCS ha dunque avviato un procedimento legale per chiedere un’ingiunzione contro la commercializzazione degli articoli di abbigliamento e delle opere che riproducevano la forma della bottiglia e la celebre etichetta utilizzate per decenni per identificare gli iconici vini di Champagne Dom Pérignon.

Il Tribunale Commerciale di Bruxelles accoglieva positivamente la richiesta della MHCS[13] ritenendo che l’utilizzo del marchio sull’abbigliamento ne identificasse l’origine commerciale da cui derivava per l’artista un indebito vantaggio dovuto alla reputazione dell’azienda e, allo stesso tempo, accostando ad esso il termine offensivo “Damn” e un’ambientazione poco consona, rischiava di offuscare la nomea del celebre champagne. Il Tribunale riteneva che l'artista non avesse un motivo valido per l'uso (illecito) del segno distintivo, sottolineando che lo scopo principale degli articoli di abbigliamento era di tipo commerciale e non puramente artistico, ed era così suscettibile di creare la falsa impressione che essi fossero prodotti su licenza concessa dall’azienda. Di conseguenza, in tale situazione il diritto di marchio di MHCS ha prevalso sul presunto diritto alla libertà artistica.

Al contrario, il Tribunale di Bruxelles stabiliva che l’uso del marchio nei dipinti costituiva “un utilizzo diverso da quello per distinguere i prodotti e i servizi”. Ai sensi della disciplina sui marchi[14], tale uso può essere vietato se da esso possa derivare un indebito profitto dalla notorietà del marchio, se esso possa essere causa di danneggiamento della sua reputazione o ancora se esso venga utilizzato senza un motivo legittimo. Il Tribunale si interrogava se la libertà di espressione e, nello specifico, la libertà artistica dovessero dunque ritenersi un motivo legittimo all’inclusione di un segno distintivo nelle opere d’arte.

La questione è stata quindi rimessa alla Corte di giustizia del Benelux[15] che, facendo riferimento al Considerando 27 della Direttiva (UE) 2015/2436[16] in materia, ha infine decretato che la libertà artistica, quale declinazione del diritto alla libertà di espressione, possa costituire una giusta causa per l’utilizzo del marchio ai sensi della disciplina del Benelux in materia di proprietà intellettuale, qualora l’espressione artistica sia “il risultato originale di un processo di progettazione creativa” e non danneggi il marchio o il suo titolare. In tal senso, restano salve le restrizioni alla libertà di espressione ex articolo 10, comma 2 della CEDU[17].

In generale, dall’analisi dagli scarsi precedenti giurisprudenziali emerge che l’orientamento comunitario sia quello di far prevalere la libertà di espressione e artistica, quale fondamento essenziale di una società democratica, sul diritto del marchio, in particolare quando quest’ultimo sia inserito in un contesto differente e non danneggi la rinomanza del titolare.

Se il marchio celebre, quindi, è un elemento ancillare dell’opera ed è inserito in un contesto narrativo ed espressivo più ampio in cui la “citazione” del marchio è solo uno degli elementi del messaggio che l’artista intende esprimere, l’utilizzo dovrebbe ritenersi sempre lecito e non un’appropriazione indebita di segno distintivo altrui.

Viceversa, se il marchio è il protagonista principale di un dipinto o di una scultura, come nel “caso dell’estintore”, che per quanto noto non è al momento ancora approdato in un aula di giustizia, e lo rende più commercialmente appetibile sul mercato in virtù dell’appeal esercitato dalla notorietà ed esclusività del brand citato dall’artista, la libertà di espressione sarà difficilmente invocabile nel caso in cui l’opera non sia connotata anche da un conclamato “valore artistico”.

Quest’ultimo, secondo il solco tracciato dalla giurisprudenza milanese, partendo dall’individuazione degli oggetti di design aventi un valore artistico e meritevoli di tutela autoriale, ha elaborato un’oggettivazione del concetto di opera d’arte.

In particolare, è stata ritenuta “arte” la lampada “Arco” per «la percezione che di una determinata opera del design possa essersi consolidata nella collettività ed in particolare negli ambienti culturali in senso lato» (Tribunale di Milano, sezione IP n. 9906/12 12 settembre 2012).

Tale criterio è stato, poi, esteso alle cancellature di Emilio Isgrò in cui il valore artistico e creativo è parso indubbio «tenendo conto dell’ampio riconoscimento, negli ambienti culturali specializzati, circa il carattere originale, creativo e il valore artistico delle opere del ricorrente, le quali sono state esposte in importanti mostre, gallerie d’arte, musei di tutto il mondo, sono oggetto di pubblicazioni in cataloghi di mostre, riviste specializzate nel campo dell’arte contemporanea e da anni sono oggetto di approfondimenti e riflessioni da parte dei maggiori critici e storici dell’arte» (Tribunale di Milano, sezione IP, 25 luglio 2017 RG 29032/2017 Isgrò Waters) e alla fotografia della famiglia “Homoparentale” di Oliviero Toscani alla quale è stato riconosciuto “valore artistico” (Tribunale di Milano, sezione I , n. 8120/2018 del 18/07/2018).

 

[1] The Philosophy of Andy Warhol: From A to B and Back Again, Andy Warhol, Houghton Mifflin Harcourt,  2014

[2] Registrazione del design comunitario nr. 84223-0001 del 6 ottobre 2003.

[3] TGI Paris, 25 marzo 2008

[4] Louis Vuitton Malletier SA v. Nadia Plesner Joensen, Galleri Esplanaden, Court of The Hague, 27 gennaio 2011, disponibile a: link.

[5] Cfr. Articolo 10, comma 2, CEDU: « L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario. »

[6] Nadia Plesner Joensen v. Louis Vuitton Malletier SA, Court of The Hague, 4 maggio 2011, disponibile a: link.

[7] Cfr. Articolo 10, comma 1, CEDU: «Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive.»

[8] Cfr. Articolo 1, Protocollo addizionale alla CEDU: «Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende. »

[9] Cfr. Caso Anheuser-Busch Inc. v. Portugal, European Court of Human Rights, 11 ottobre 2005

[10] Mattel Inc. v. Walking Mountain Productions, 353 F. 3d 792 – Court of Appeals, 9th Circuit 2003

[11] Registrazione del marchio europeo nr. 000515494 del 15 ottobre 1999

[12] Registrazione del marchio interazionale nr. 323543 del 19 ottobre 1996

[13] Tribunal de commerce de Bruxelles, AR A/17/2627, 12 aprile 2018

[14] Cfr. Articolo 2.20(2)(d) della Convenzione del Benelux in materia di proprietà intellettuale

[15] Benelux Court of Justice, A 2018/1/8, 14 ottobre 2019

[16] Cfr. « […] L’uso di un marchio d'impresa da parte di terzi per fini di espressione artistica dovrebbe essere considerato corretto a condizione di essere al tempo stesso conforme alle consuetudini di lealtà in campo industriale e commerciale. Inoltre, la presente direttiva dovrebbe essere applicata in modo tale da assicurare il pieno rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, in particolare della libertà di espressione.»

[17] Cfr. Nota 7