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​​​​​​​Il profitto confiscabile nei reati associativi e i princìpi di legalità e di irretroattività degli illeciti amministrativi ex D.Lgs. 231 del 2001 alla luce di Cass. Pen., Sez. IV, n. 47010 del 17 dicembre 2021*

Philippines
Ph. Max Gibelli / Philippines

Confiscable profit in associative crimes and the principles of legality and non-retroactivity of administrative offences pursuant to Legislative Decree 231 of 2001 in the light of Cass. Pen., Sect. IV, n. 47010, December 17th, 2021

 

ABSTRACT

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ha affrontato due temi di estremo interesse con riferimento alla responsabilità degli enti ex D.Lgs. 231 del 2001 in materia di reati associativi finalizzati alla commissione di reati tributari.

In particolare, il Giudice di Legittimità si è soffermato sulle modalità di determinazione del profitto confiscabile all’ente quando l’illecito amministrativo oggetto di accertamento sia un reato associativo: fattispecie che – come noto – è spesso rappresentata come la cornice organizzativa entro cui si realizzano una serie di reati (i cosiddetti reati-fine), ma che mantiene la propria autonomia rispetto a questi ultimi anche nell’individuazione del profitto derivante dallo specifico reato, che si identifica nel complesso dei vantaggi direttamente conseguenti dall’insieme dei reati fine.

Un ulteriore tema affrontato dalla pronuncia qui esaminata è rappresentato dall’applicazione dei princìpi di legalità e di irretroattività affermati dall’art. 2 D.Lgs. 231 del 2001, in ossequio al quale le misure sanzionatorie previste a carico dell’ente sono applicabili solo in virtù di una previsione legislativa espressa, che sia entrata in vigore prima della commissione del fatto e che comprenda sia l’illecito che la specifica sanzione.

 

With the sentence under review, the Supreme Court addressed two issues of extreme interest with reference to the liability of entities pursuant to Legislative Decree 231 of 2001 in the matter of associative crimes aimed at the commission of tax offences.

In particular, the Judge of Legitimacy focused on the methods to determine the profit that can be confiscated from the entity when the administrative offence under investigation is an associative crime: a case that – as is well known – is often represented as the organizational framework within which a series of crimes (the so-called purpose-crimes) are carried out, but which maintains its autonomy with respect to the aforementioned purpose-crimes also in recognizing the profit deriving from the specific crime, which is identified in the complex of advantages directly resulting from the set of purpose-crimes.

A further issue addressed by the here examined sentence is represented by the application of the principles of legality and non-retroactivity stated by art. 2 Legislative Decree 231 of 2001, in compliance with which the sanctions provided for the entity are applicable only by virtue of an express legislative provision, which entered into force before the commission of the fact and which includes both the offence and the specific sanction.

 

*Contributo sottoposto a referaggio esterno con il sistema del doppio cieco secondo le regole della rivista

e valutato positivamente.

 

Sommario

1. Il caso oggetto di esame da parte della Suprema Corte

2. Le conclusioni a cui sono pervenuti i giudizi di merito e il precedente giudizio di legittimità

3. Le valutazioni della Suprema Corte in merito alla determinazione del profitto confiscabile nel caso di illecito amministrativo dipendente dal reato di associazione a delinquere finalizzato alla commissione di reati tributari

4. Le valutazioni della Suprema Corte in merito ai principi di legalità e di irretroattività degli illeciti amministrativi

5. Considerazioni conclusive

Summary

1. The case examined by the Supreme Court

2. The conclusions reached by the judgments of merit and the previous judgment of legitimacy

3. The assessment of the Supreme Court regarding the determination of the confiscable profit in case of an administrative offence related to the crime of criminal association aimed at the commission of tax offenses

4. The assessment of the Supreme Court regarding the principles of legality and non-retroactivity of administrative offences

5. Final considerations

 

1. Il caso oggetto di esame da parte della Suprema Corte

Il procedimento all’attenzione della Suprema Corte trae origine dalla contestazione del delitto di associazione a delinquere previsto dall’art. 416 c.p., finalizzata alla commissione di una serie di delitti tributari: sia il reato associativo che i reati fine dell’associazione sono stati contestati a carico dell’imputato (e di altri soggetti, che avevano definito le proprie posizioni nell’ambito di separati procedimenti penali).

In particolare, l’imputato era accusato di aver costituito, organizzato e gestito un’associazione a delinquere volta alla commissione di delitti di natura fiscale, attraverso la pianificazione contabile dell’attività, la costituzione di società “cartiere”, che avevano lo scopo di emettere fatture per operazioni inesistenti e di essere fittiziamente intestatarie dei contratti di lavoro attraverso i quali venivano eseguite le prestazioni di appalto nei cantieri della società principale, operante nel settore degli appalti di opere pubbliche e di cui l’imputato era amministratore e legale rappresentante.

Dalla contestazione di associazione a delinquere discendeva la contestazione a carico di quest’ultima società dell’illecito amministrativo ex art. 24-ter, comma 2 D.Lgs. 231 del 2001, sulla scorta dell’ipotesi che il delitto associativo sarebbe stato commesso nell’interesse o comunque a vantaggio della società, senza che questa avesse adottato – prima della commissione del reato presupposto – un modello organizzativo idoneo a prevenire delitti della specie di quello verificatosi.

 

2. Le conclusioni a cui sono pervenuti i giudizi di merito e il precedente giudizio di legittimità

La vicenda processuale ha attraversato alterne fasi che – con riferimento alle sole posizioni oggetto di esame da parte della sentenza in commento – si sono sviluppate secondo le seguenti scansioni.

All’esito del dibattimento di primo grado, l’imputato era stato condannato per il delitto di cui all’art 2 D.Lgs. 74 del 2000 per avere utilizzato nelle relative dichiarazioni fiscali, al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture e di altri documenti per operazioni inesistenti, nonché per il delitto di cui all’art. 8 D.Lgs. 74 del 2000, per avere emesso – sempre quale legale rappresentante della medesima società e al fine di consentire a terzi l’evasione delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto – fatture per operazioni inesistenti; era stato, invece, assolto per i delitti di associazione a delinquere di cui all’art. 416 c.p. e di indebita compensazione di cui all’art. 10-quater D.Lgs. 74 del 2000.

Dall’assoluzione della persona fisica per il reato associativo era discesa come corollario anche l’assoluzione dell’ente per l’illecito amministrativo di cui all’art. 24-ter D.Lgs. 231 del 2001.

Sia l’imputato che il Pubblico Ministero hanno impugnato la pronuncia di primo grado e la Corte di Appello ha ribaltato il giudizio di prime cure, affermando la responsabilità dell’imputato anche per il reato associativo e per alcuni degli episodi ascrivibili alla fattispecie di indebita compensazione.

Dalla condanna per il delitto di associazione a delinquere è conseguita la condanna dell’ente – nel frattempo dichiarato fallito – per il reato di cui all’art. 24-ter D.Lgs. 231 del 2001.

La pronuncia di appello è stata poi impugnata dall’imputato con ricorso in cassazione e la Sezione Terza della Suprema Corte, con la sentenza n. 15788 dell’11 ottobre 2017 (depositata nel 2018), ha rilevato la sussistenza di un vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., per il mancato rispetto del canone di giudizio di cui all’art. 533, comma 1 c.p.p., secondo cui «Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio».

In particolare, il Giudice di Legittimità ha ritenuto che la sentenza di appello aveva dichiarato la responsabilità dell’imputato operando una diversa valutazione delle prove dichiarative raccolte in primo grado, senza tuttavia disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ai sensi dell’art. 603, comma 3 c.p.p. Incidentalmente, la Suprema Corte ha avuto anche modo di ribadire l’applicabilità della responsabilità ex D.Lgs. 231 del 2001 all’ente dichiarato fallito, richiamando la precedente consolidata giurisprudenza, secondo cui l’avvio di una procedura concorsuale non integra una situazione assimilabile alla morte del reo e quindi non determina l’estinzione dell’illecito amministrativo a carico dell’ente[1].

L’esito dell’iter argomentativo del Giudice di Legittimità è stato l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alle contestazioni di associazione a delinquere e di indebita compensazione.

Avverso la pronuncia della Terza Sezione Penale, l’imputato ha interposto ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p., eccependo l’errore di fatto in merito alla mancata dichiarazione di avvenuta prescrizione di alcune condotte oggetto di contestazione sub art. 8 D.Lgs. 74 del 2000. Investita del ricorso, la Quarta Sezione Penale, con la sentenza n. 2332 del 13 dicembre 2018 (depositata nel 2019), ha accolto il motivo di impugnazione e rinviato alla Corte di Appello – già investita del giudizio di rinvio sui reati di associazione a delinquere e di indebita compensazione – per rideterminare la pena conseguente alla condanna per il reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti, a seguito dell’intervenuta prescrizione di parte delle contestazioni.

La Corte di Appello, in sede di giudizio di rinvio, ha infine condannato l’imputato anche per il reato di associazione a delinquere, dichiarando prescritta la fattispecie di indebita compensazione, rideterminando la pena anche a seguito dell’intervenuta parziale prescrizione del reato di emissione di fatture per operazioni inesistenti e condannando altresì l’ente per l’illecito amministrativo di cui all’art. 24-ter D.Lgs. 231 del 2001 alla sanzione pecuniaria di Euro 150.000,00 e alla confisca del profitto del reato per una somma pari a Euro 8.000.990,79.

Avverso la sentenza della Corte di Appello hanno interposto ricorso per cassazione sia l’imputato che l’ente.

La società condannata, in particolare, ha dedotto il vizio di violazione di legge e di motivazione – rispetto a quanto stabilito dalla precedente pronuncia di legittimità della Terza Sezione Penale – in relazione al percorso argomentativo utilizzato da giudice di rinvio per ricostruire la struttura organizzativa della presunta associazione ed ha altresì richiesto la rideterminazione della somma da confiscare, posto che la stessa sarebbe stata calcolata tenendo conto anche di reati presupposto commessi prima dell’introduzione del delitto di associazione a delinquere nel catalogo dei reati rilevanti ex D.Lgs. 231 del 2001 (introduzione avvenuta dopo il luglio del 2009 con la legge n. 94 del 2009).

 

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[1] La Suprema Corte, nel richiamare i precedenti di legittimità sul punto (Cass., Sez. V, n. 4335 del 29 gennaio 2013; Cass. Sez. V, n. 44824 del 15 novembre 2012) specifica che «Il fallimento […] non determina alcun mutamento soggettivo della società, la quale viene sottoposta semplicemente a una procedura di gestione della crisi ad opera di un pubblico ufficiale (il curatore) e sotto il controllo dell’autorità giudiziaria. L’estinzione dell’ente, del resto, che non si produce, automaticamente, nemmeno alla chiusura della procedura concorsuale, essendo necessario un atto formale di cancellazione della società da parte del curatore […]. Fino a quel momento, dunque, la società rimane in vita, mantenendo funzioni limitate ed ausiliarie e potendo comunque ritornare in bonis, con conseguente riespansione dei poteri gestionali ed amministrativi degli organi sociali (Sez. 5, n. 44824 del 26/09/2012, dep. 15/11/2012, P.M. in proc. Magiste International S.A., in motivazione). In questa prospettiva, la sentenza che dichiara il fallimento priva la società fallita dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti a quella data, assoggettandoli alla procedura esecutiva concorsuale finalizzata al soddisfacimento dei creditori; fermo restando che tale effetto di spossessamento non si traduce in una perdita della proprietà, in quanto la società resta titolare dei beni fino al momento della vendita fallimentare […]. Ne consegue che, durante il fallimento, la società continua ad essere soggetto passivo della sanzione pecuniaria, di cui risponde con il suo patrimonio ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231; e la sanzione irrogata nel corso del fallimento potrà legittimare la pretesa creditoria dello Stato al recupero dell’importo di natura economica mediante la insinuazione al passivo. La sanzione continua a gravare sul patrimonio dell’ente anche quando, per l’incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, sia stato dichiarato il fallimento di quest’ultimo (per tali considerazioni Sez. 5, n. 4335 del 16/11/2012, dep. 29/01/2013, Franza e altro, in motivazione). Il curatore cumula la legittimazione ad agire che gli deriva dalla gestione patrimoniale degli affari del fallito e la legittimazione ad agire che gli deriva dalla rappresentanza degli interessi patrimoniali dei creditori che, ai sensi dell’art. 51 I. falI., non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, ma devono sottoporre la loro pretesa all’accertamento degli organi fallimentari secondo le regole proprie del concorso. Con riferimento all’illecito amministrativo della società deve nondimeno riconoscersi la legittimazione processuale della curatela fallimentare, potendo configurarsi, in conseguenza dell’applicazione della relativa sanzione, il sorgere di un credito privilegiato dell’Erario nei confronti del fallimento, rispetto al quale deve configurarsi la legittimazione in capo all’organo istituzionalmenté preposto alla ricostruzione e alla tutela del patrimonio fallimentare». Sul tema, oltre ai precedenti citati dalla Corte, si veda anche Cass., Sez. II, n. 25501 del 13 giugno 2014.