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Il ruolo del trust nelle fasi successive la chiusura del fallimento

[Relazione tenuta al convegno: Trust e procedure concorsuali, Bologna, 8 giugno 2007, Oratorio di San Giovanni Battista dei Fiorentini]

 

 

A mio avviso il trust trova, nelle fasi successive la chiusura del fallimento, così come in quelle immediatamente prossime, e mi riferisco alla fase di liquidazione dell’attivo, un terreno di massima elezione.

 

Se da un canto è infatti pacifico che la sentenza dichiarativa di fallimento sottrae i beni al debitore, affidandoli al curatore fallimentare, attuando una segregazione sul patrimonio del fallito finalizzata al soddisfacimento dei creditori concorsuali (segregazione legale), è d’altro canto altrettanto vero che tale segregazione cessa con la chiusura del fallimento.

 

E questo è il problema sul quale dobbiamo concentrare oggi la nostra attenzione.

 

E’ pertanto necessario spendere alcune parole circa le sorti dei crediti inescussi dopo la chiusura del fallimento secondo il testo di legge anteriore alla riforma.

 

In proposito occorre ricordare che le poste più comuni che appartengono a questa categoria sono i crediti per IVA pagata in eccedenza e le ritenute di acconto sugli interessi maturati sui depositi bancari, esigibili solo in carenza di imponibile, che di fatto risulta solo dopo la sentenza di fallimento in ragione della dichiarazione finale del C.F[1].

 

In quest’ambito vorrei rammentare gli ostacoli che si frapponevano fra l’auspicato recupero dell’attivo, e le operazione di fatto necessarie per portarlo a compimento, sostanzialmente dovuti alle rigidità della procedura concorsuale previgente e all’inadeguatezza dei mezzi ai quali si faceva ricorso.

 

La prassi adottata dalle curatele era solita optare per soluzioni che recavano tutte insuperabili ostacoli pratici o giuridici e cioè:

 

1) consentire la riscossione del credito futuro da parte del fallito, poi tornato in bonis, non garantiva la certezza del pagamento spontaneo da parte di costui, ai creditori concorsuali né, tantomeno, l’immediata riapertura del fallimento, appresa la notizia degli avvenuti pagamenti, poteva garantire alcunché, rivelandosi spesso o inutilmente dispendiosa, o addirittura inutile se nel frattempo il fallito aveva abilmente sottratto le somme alle pretese di costoro;

 

2) la cessione del credito, era di fatto scarsissima convenienza atteso lo sconto praticato dal cessionario;

 

3) il tentativo di far sopravvivere le funzioni degli organi fallimentari, era fortemente contestata in ragione delle ipotesi di ultrattività, tassativamente previste dalla legge fallimentare connotata da estrema rigidità;

 

4) il mandato attribuito ad un terzo non aveva mai risolto, nè il problema della compensazione pretesa dall’Amministrazione finanziaria, di compensare il proprio debito, con gli eventuali crediti dell’imprenditore nel frattempo tornato in bonis, né il problema della concorrenza fra creditori anteriori e successivi al fallimento, nemmeno attribuendo al contratto di mandato la natura di mandato nell’interesse dei creditori concorsuali e quindi irrevocabile ed in rem propriam.

 

In questo scenario si innestavano allora isolate e coraggiose decisioni come quella del Tribunale di Padova del 26 aprile 2002 che, proprio in tema di recupero di crediti fiscali, con grande lungimiranza giuridica, formula una ragionamento fondamentale anche in tema di trust; essa recita (e cito le parole del Tribunale) : “ Non è nuova al complesso fallimentare l’ipotesi della sopravvivenza degli organi della procedura per il compimento di atti specifici che non poterono essere compiuti durante la procedura stessa (e non era opportuno né necessario lasciare aperto il fallimento) o la cui necessità si manifesta solo dopo la chiusura della procedura: si vedano gli art. 18 lf. Sulla prosecuzione da parte del curatore del giudizio di opposizione al fallimento, l’art. 21 2° co sulla liquidaizone delle spese della procedura e del compenso del curatore dopo la revoca del fallimento, l’art 102, 5 co, sulla prosecuzione del giudizio di revocazione contro i crediti ammessi, l’art. 117, 2 co sul riparto di quote precedentemente accantonate, l’art. 136, 1 co e 3 co relativamente alla sorveglianza sull’esecuzione del concordato fallimentare. E’ dunque immanente al sistema, e quindi compatibile con esso la sopravvivenza degli organi fallimentari allo scopo di realizzare appieno le finalità liquidatorie della procedura fallimentare che va quindi intesa non soltanto come un complesso di norma processuali e sostanziali di un sistema chiuso e fine a sé stesso, il che potrebbe, in ipotesi a negare l’ultrattività degli organi fallimentari fuori dei casi espressamente previsti ma, come uno strumento di attuazione del concorso dei creditori dotato di ultrattività fino alla piena realizzazione dei suoi scopi, sempre entro i limiti della legge fallimentare.

 

Era quindi genericamente avvertito questo disagio pratico causato da una lacuna normativa e dall’impossibilità di riempirla con soluzioni privatistiche teoricamente incompatibili con una disciplina di connotazione strettamente pubblicistica quale era quella fallimentare ante - riforma.

 

Nell’ambito di questo scenario, nell’anno 2003, il Tribunale fallimentare di Roma, con decreto del 4 marzo 2003[2], ha fatto ricorso all’impiego del trust per consentire al ceto creditorio il recupero del credito IVA.

 

Questa innovativa soluzione, che ha suscitato clamore e grande interesse fra gli studiosi, ha aperto la strada ad una riflessione per massimi sistemi circa la possibilità di impiego effettivo, all’interno di una procedura marcatamente pubblicistica, qual è quella concorsuale, di uno strumento privatistico che in sostanza deroga convenzionalmente alla disciplina in tema di crisi d’impresa e tutela dei creditori.

 

Il nodo era rappresentato dalle norme imperative sul diritto di aggredire il patrimonio del fallito, tornato in bonis, da parte dei vecchi e dei nuovi creditori, in posizione fra loro di par condicio, con particolare riguardo all’esplicitazione tassativa, di cui all’art. 121, per poter riaprire il fallimento e soddisfare i creditori concorrenti nella precedente procedura.

 

A mio avviso la riforma della legge fallimentare ha cambiato questo scenario.

 

Essa, fra le tante novità, ha fatto suoi due principi supremi: un’accentuata privatizzazione della crisi d’impresa (il primo principio) resa attraverso (il secondo principio) un generale depotenziamento del ruolo del giudice delegato con uno speculare incremento dei poteri conferiti agli altri organi della procedura.

 

Ne è quindi derivata una maggiore responsabilizzazione della curatela, in termini di effettiva gestione della procedura, ed un penetrante coinvolgimento del comitato dei creditori nelle operazioni di liquidazione.

 

Sia chiaro però, e dico questo per tacitare fin da subito possibili eccezioni che da simile premessa potrebbero sollevarsi, che privatizzazione non è in antitesi con la natura pubblicistica delle norme fallimentari.

 

Rimane indiscusso il ruolo di tutela dell’ordine economico da parte della procedura fallimentare e le modalità stabilite per l’accertamento dei crediti e l’acquisizione dell’attivo.

 

Lo strumento privatistico del trust, per la parte relativa alle fasi di liquidazione dell’attivo e il recupero dei crediti dopo la chiusura della procedura, riguarda solo modalità tecniche-operative, in sostanza l’azione sul campo, ma non incide sui diritti dei creditori in alcun modo.

 

In particolare, proprio rammentando la decisione di Padova che prima ho letto per esteso, essa continua, e ripeto è del 2002, precisando che l’ultrattività degli organi fallimentari dopo la chiusura del fallimento, convive pacificamente con le disposizioni dell’art. 113, 3° co e 117, 2° co, ( della previgente disciplina) circa il piano di riparto; ne consegue che una volta recuperate le somme, alcun margine di discrezionalità è lasciato in punto alla distribuzione delle stessa, che avverrà secondo i criteri stabiliti dal piano di riparto.

 

Il nuovo assetto normativo portato dalla riforma del diritto fallimentare, unitamente al vento nuovo che già spirava sotto la previgente disciplina, consente oggi di superare le obiezioni sull’impiego del trust nella procedura concorsuale cui ho fatto prima riferimento per spalancare la porta a nuove soluzioni.

 

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Comincio pertanto con una delle norme più significative, l’art 106 che, collocata nella sezione Della vendita dei beni mobili, recita:

 

“ Il curatore può cedere i crediti, compresi quelli di natura fiscale o futuri, anche se oggetto di contestazione; può altresì cedere le azioni revocatorie concorsuali se i relativi giudizi sono già pendenti.

 

Per la vendita della quota di società a responsabilità limitata si applica l’art.2471 cc.

 

In alternativa alla cessione di cui al primo comma, il curatore può stipulare contratti di mandato per la riscossione dei crediti”

 

Ogni volta in cui leggo questo articolo mi viene subito da pensare che sebbene il legislatore non abbia espressamente menzionato lo strumento del trust, è indubbio che a qualcosa di simile deve aver pensato durante la sua stesura.

 

La lacuna non può comunque costituire un ostacolo per il professionista[3] atteso che il trust potrà senza dubbio rivelarsi lo strumento più efficace per perseguire il fine indicato dall’art. 106 per una ragione su tutte: il trust ripristina, o meglio assicura continuità, agli effetti segregativi sul patrimonio del fallito che, al contrario, cessano inesorabilmente con la chiusura del fallimento.

 

Tuttavia, affinché al trust si possa ricorrere, è comunque necessario che lo strumento venga ricompreso nel programma di liquidazione che ai sensi dell’art. 104 ter, il curatore è tenuto a predisporre entro i 60 gg successivi alla redazione dell’inventario.

 

Esaurito questo adempimento, la lettura della relazione accompagnatrice alla legge di riforma, può rivelarsi di conforto alla ratio che informerebbe di sé la scelta del trust.

 

Detta relazione precisa che la possibilità di cedere tutti i crediti, e quindi anche quelli oggetto di contenzioso, è nata dall’esigenza di “evitare ritardi nella chiusura della procedura concorsuale che, secondo il sistema previgente, sono spesso dovuti proprio ai lunghi tempi connessi alla definizione, con sentenza passata in giudicato, dei contenziosi fiscali e ordinari” ed ancora che sono cedibili tutte quelle azioni “ comunemente dirette a conseguire incrementi di patrimonio del debitore”.

 

La dottrina[4] si è chiesta allora se il negozio di mandato, come richiamato dal legislatore, potesse intendersi con durata che vada oltre la data di chiusura del fallimento, e parimenti se fosse possibile assimilare il trust, al mandato o comunque ritenere che l’impiego del primo non fosse impedito dalla mera indicazione del secondo.

 

La conclusione raggiunta ha dato risposta affermativa a questi due quesiti, prospettandola quale unica soluzione possibile per salvare l’utilità pratica della norma. Diversamente, infatti, ritenere il mandato quale unico strumento impiegabile, sarebbe in contrasto con l’opposto principio che vuole il curatore non più vincolato all’adozione di particolari modalità nella fase di liquidazione dell’attivo.

 

Non avrei dubbi, quindi, sulla legittimità di un’ interpretazione estensiva, o analogica della norma, che arrivi a ricomprendere il trust fra l’elencazione dei negozi da essa enunciati[5].

 

La tipologia di crediti cedibili non conosce poi limiti di sorta e, a parte quelli fiscali, sono altresì cedibili anche i crediti futuri purchè già in essere il rapporto da cui i crediti hanno titolo sicchè gli stessi possano dirsi determinati o determinabili[6].

 

In quest’ambito viene spontanea una riflessione che si rivela sostanziale rapportata al trust.

 

Il trasferimento dei crediti in capo al cessionario avviene, secondo giurisprudenza consolidata in tema[7], nell’esatto momento in cui il credito viene ad esistenza sicché, prima di tale evento, il contratto produce solo meri effetti obbligatori fra le parti mentre, dopo, l’unico legittimato a ricevere il pagamento è il cessionario.

 

Per ciò che concerne invece i crediti oggetto di contestazione, la fattispecie è stata estesa anche alle possibili domande di condanna o azioni di accertamento con la cautela, per tutte le cessioni di azioni diverse dalla azione revocatoria, di cedere anche il credito sottostante atteso che la mera cessione dell’azione è possibile, nella norma in commento, solo per le citate azioni revocatorie.

 

Cedere il credito significa poi cedere i privilegi, le garanzie reali o personali sottostanti e tutti gli accessori connessi e quindi, ai sensi dell’ult. co dell’art. 1263 cc., salvo patto contrario, la cessione comporterà anche gli interessi scaduti benché si tratti di fattispecie ontologicamente diverse dal credito in sé medesimo.

 

Occorre allora un’ulteriore riflessione che parimenti si rivelerà sostanziale rispetto al trust.

 

L’art. 1266 cc impone al curatore, salvo patto contrario, di dare garanzia circa l’esistenza del credito ceduto, ferma la responsabilità del cedente per fatto proprio.

 

Diversamente, nel caso di cessione a titolo gratuito, la garanzia è dovuta solo nei casi e nei limiti previsti dalla legge a carico del donante per evizione.

 

Autorevole dottrina ha ritenuto che nell’ambito fallimentare si debba preferire l’esclusione del patto che garantirebbe l’esistenza del credito da parte del cedente, in ragione dell’incertezza circa l’esatta portata della nozione di cui all’art. 1266 rispetto all’ambito fallimentare, volendo in sostanza evitare onerose chiamate in garanzia della curatela.

 

Mi fermo allora a questo punto per tirare le fila di quanto suddetto, evidenziando alcuni punti salienti rispetto al trust, che si devono necessariamente tener presenti per comprendere quanto di seguito esposto:

 

Ø il cedente – curatore – non risponde della solvibilità del debitore ceduto

 

Ø il solo legittimato alla riscossione è il cessionario

 

Ø prima della venuta ad esistenza del credito, il contratto di cessione produce solo effetti obbligatori

 

Alla luce di ciò si veda perché il trust

 

La cessione dei crediti al trustee avverrebbe a titolo gratuito, dal che consegue che la garanzia possa pattiziamente escludersi, salvo che l’evizione non dipenda dal dolo o da fatto personale del soggetto.

 

La cessione dei crediti in capo al trustee, che dovrà avvenire nelle forme e termini del contratto di cessione come previsto dagli artt. 1260 e ss cc., comporterà l’immediata segregazione di queste posizioni giuridiche in un patrimonio separato, rispetto a quello personale del trustee, di talchè alcuna confusione sarà possibile in futuro.

 

Da simile premessa il ceto creditorio ne trae estremo vantaggio.

 

Le fasi di recupero, o comunque di incasso del credito, che saranno onere ed obblighi del trustee, avverranno nel tempo a venire e confluiranno nelle tasche dei creditori sulla base di un piano di riparto, prestabilito in percentuali di riferimento, detratti i costi sostenuti dal trustee ed, ovviamente, il suo onorario.

 

Sono quindi palmare evidenza gli effetti che il trust produce, rispetto alla mera cessione del credito da un terzo:

 

Ø il margine di recupero del credito, non più venduto al terzo, ma cedutogli a titolo gratuito, si eleva sensibilmente;

 

Ø l’eventuale insolvibilità del debitore ceduto, si spalmerà su tutto il ceto creditorio, in termini di minor incasso di somme rispetto al previsto, lasciando indenne il curatore e la procedura da azioni di sorta;

 

Ø gli effetti obbligatori che il contratto di cessione produce, allorquando diventano reali, per venuta ad esistenza del credito, si producono in relazione a posizioni soggettive e diritti già segregati in trust con ogni conseguente impossibilità sia di illegittima distrazione di somme, sia di confusione del patrimonio laddove, nel frattempo, il terzo cessionario subisse azioni esecutive da parte dei suoi creditori personali. Alcuni principi poi segnalati dalla dottrina in tema di cessione dei crediti in ambito fallimentare, devono essere tenuti in debita considerazione anche laddove si facesse ricorso al trust. Atteso che la cessione di crediti futuri, come sopra ricordato, ha meri effetti obbligatori finchè il credito non viene ad esistenza, il cedente ha il dovere di attivarsi affinché il credito appunto venga ad esistenza per farne acquistare la titolarità al cessionario. In pratica quindi il cedente deve fare la domanda di rimborso sicchè il debitore, ed anche quindi l’amministrazione finanziaria atteso che ad essa si applicano i comuni principi del codice civile, potrebbe pagare bene, pagando al cedente tornato in bonis quale creditore apparente (art.1189 cc). Per evitare ciò, è necessario che il cessionario presenti a sua volta altra domanda di rimborso, con allegati il contratto di cessione e la dichiarazione del curatore. In tal modo, ai sensi dell’art. 1264, 1° co cc., la cessione è opponibile al debitore sin dalla notifica e il trasferimento del credito al cessionario – trustee – diviene conosciuto e conoscibile da parte del debitore;

 

Ø il problema della compensazione, che il debitore ceduto potrebbe opporre, come accade di norma per la cessione dei crediti fiscali, viene scongiurato nel trust, atteso il trasferimento del credito in capo al trustee in ragione di un traslativo funzionale alla destinazione della risorsa al ceto creditorio.

 

Due sono però gli ulteriori problemi che si rende necessario affrontare:

 

1) la scelta del trustee, del guardiano e la tipologia di trust a cui ricorrere

 

2) la dotazione iniziale di fondi al trustee del trust istituito.

 

Il trustee non deve essere, a mio avviso, il curatore; bensì un trustee professionista (una trust company) o un professionista che intenda divenire trustee del trust; in tal modo sono superate le obiezioni circa l’ultrattività degli organi fallimentari.

 

Guardiano del trust potrebbe essere il curatore ma se vi sono ostacoli circa il perdurare di tale carica dopo la chiusura del fallimento, le soluzioni praticabili sono due: o il curatore ricopre l’ufficio a titolo personale o, diversamente, il ceto creditorio nomina un guardiano di sua fiducia.

 

Ritengo poi opportuno che l’atto istitutivo di trust nomini quali beneficiari del trust, il ceto creditorio, e quale beneficiario residuale, al quale potranno andare le somme che residueranno pagati tutti i creditori, il fallito, sicchè costoro avranno tutti i diritti e poteri che il diritto dei trust riconosce ai beneficiari quali, segnatamente, quello di rendiconto da parte del trustee.

 

Il secondo problema, invece, è meramente pratico.

 

All’atto dell’istituzione del trust, vengono ceduti al trustee dei crediti, come riconosciuti nei rispettivi contratti da cui hanno titolo; il trustee, quindi, comincia la sua attività, che comporta delle spese iniziali, senza fondi liquidi.

 

I fondi, infatti, arriveranno man mano che i crediti vengono incassati.

 

Parimenti l’atto di trust potrà prevedere il potere del trustee di procedere ad anticipazioni delle somme riscosse in favore dei creditori, in proporzione ovviamente alle rispettive percentuali; diversamente potrà invece prevedersi le somme siano corrisposte in un’unica soluzione al termine del trust.

 

Nel primo caso, comunque, sarà inevitabile per il trustee assicurarsi sempre e comunque una provvista che gli consenta di affrontare le spese successive che lo attendono e, a scanso di ogni contestazione sul punto.

 

Aiuta in proposito l’art. 113 che in tema di ripartizioni parziali, prevede l’obbligo di accantonamento del 20% rispetto al totale distribuito.

 

Non si risolve però il problema iniziale: quando il trustee inizia la sua attività di recupero, ha solo contratti, non liquidi e quindi come si finanzia?

 

Il problema a mio avviso è superabile solo assegnandogli una provvista iniziale, cui saranno chiamati a far fronte i creditori, ancora una volta secondo criteri da prestabilirsi.

 

E’ ovvio che in tal modo verrà ad esistenza un debito del trust, verso i beneficiari-creditori, che andrà pagato in “prededuzione”, mutando un temine tipico della procedura concorsuale, prelevando dai primi incassi avvenuti ed a prescindere dal potere di anticipazione o meno riconosciuto al trustee.

 

Questa però è solo una mia personale ipotesi e sarò lieta di ascoltare suggerimenti diversi in proposito.

 

L’ultimo comma della norma in commento, prevede poi, quale soluzione alternativa alla cessione dei crediti, il contratto di mandato per la riscossione dei crediti che il curatore è chiamato a stipulare con il mandatario.

 

Si è quindi codificata la prassi di molti uffici giudiziari che spesso affidavano a soggetti terzi, di solito società facenti parte di gruppi bancari, il compito di trasformare in moneta fallimentare i crediti esistenti.

 

Questa norma è strettamente correlata con l’art. 104 ter l.f, 3° co, ove prevede il potere del curatore di affidare ad altri professionisti la liquidazione dell’attivo.

 

Evidenti le differenze con la cessione di credito, atteso che il mandato non ha efficacia reale ed il credito rimane in capo al mandante, mentre il mandatario diviene legittimato a riscuoterlo in nome e per conto del mandante.

 

La dottrina ha evidenziato come tale strumento abbia di fatto scarsa utilità pratica, servendo di fatto a mero sgravio rispetto ai compiti che gravano sul curatore senza peraltro incidere sensibilmente sui tempi di definizione della procedura.

 

Nuovamente i criteri generali che ho accennato prima, laddove ho rappresentato l’estrema competitività del trust, rispetto al contratto di cessione di crediti, sono integralmente da richiamarsi anche in questa sede.

 

Anche l’obbligo di rendiconto, che grava sul mandatario ai sensi dell’art. 1713 cc. non è norma sufficiente a decretare una possibile preferenza del ricorso al mandato, rispetto al trust.

 

Il rendiconto cui è tenuto un trustee non è certo paragonabile a quello che fa obbligo al mandatario; in questo caso l’obbligo del mandatario è l’altra faccia del corrispondente diritto del mandante, nel diritto dei trusts, il rendiconto è uno dei principali obblighi e doveri del trustee e si pone su di un piano avulso e superiore rispetto al diritto dei beneficiarli a riceverlo.

 

Pregnanti e complesse quindi le norme contabili e fiscali che disciplinano il rendiconto di un trustee che certo saranno solo di estrema utilità per i creditori.

 

Vorrei allora chiude le fila a questa prima parte del mio intervento, circa il rapporto fra trust ed articolo 106 della l.f, per segnalare che se da un canto la forza del trust è racchiusa in due ordini precisi che si manifestano in tutta la loro importanza in ambito fallimentare: il trasferimento dei beni in capo al trustee, che ne diviene proprietario, e la segregazione che viene ad imprimersi su detti beni rispetto al patrimonio personale del trustee, destinati all’esclusivo soddisfacimento dei diritti del ceto creditorio, d’altro canto ricorrere l truste consente anche di superare un ostacolo su tutti: addivenire ad una solerte chiusura della procedura, nonostante la presenza di crediti ancora non escutibili.

 

La presenza infatti del trustee, quale soggetto terzo e quindi non organo del concorso, la nomina dei ceto creditorio ai beneficiari del trust, dando loro ogni potere tipico di tale posizione soggettiva, la previa predisposizione di un piano di riparto secondo i criteri dell’art. 117 o anche dell’art. 113, per procedere a ripartizioni parziali, il tutto sotto il controllo di un guardiano, non può conferire a detta soluzione la massima competitività rispetto a qualsiasi altra ipotesi civilisticamente praticabile.

 

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Vorrei poi spendere alcune parole circa gli artt. 104 e 104 bis della lf.

 

Le ipotesi possibili di esercizio provvisorio dell’impresa del fallito, con decisione del tribunale in composizione collegiale al momento della pronuncia dichiarativa dello stato di insolvenza e da parte del g.d. su proposta del curatore, successivamente alla dichiarazioni di fallimento, non interessano l’ambito della relazione oggi assegnatami.

 

Rivolgo invece la mia attenzione sulla terza ed ultima ipotesi che concerne l’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito, al quale il curatore può decidere di ricorrere per la prima volta in sede di predisposizione del programma di liquidazione disposto ai sensi dell’art. 104 ter l.f.

 

In questo contesto si innesta poi il successivo art. 104 bis l.f. che consente di procedere all’affitto dell’azienda o di rami produttivi di essa anche prima del programma di liquidazione.

 

Ciò che di fatto ha sempre reso di scarso utilizzo queste norme è sempre stata la naturale ritrosia del curatore ad assumere il rischio della gestione dell’impresa attesa la sua natura di organo predisposto ad una gestione statico-liquidatoria dell’impresa e non in grado di assumere un ruolo prettamente dinamico.

 

La ratio che informava di sé dette norme, anche secondo la stesura ante –riforma, è sempre stata, secondo autorevole dottrina e consolidata giurisprudenza di legittimità, quella non tanto di perseguire obiettivi di risanamento dell’impresa, ma più modestamente di effettuarne una gestione conservativa, finalizzata a conservarne o aumentarne il valore, in vista di una sua liquidazione – e cioè vendita – a terzi.

 

Questo criterio ha trovato la sua massima espressione nella legge di riforma, secondo la quale l’esercizio provvisorio o l’affitto dell’azienda sono comunque finalizzati alla liquidazione ottimizzata dell’impresa.

 

Se così stanno le cose, allora due cose vorrei dire in proposito:

 

Ø affidare l’esercizio provvisorio dell’impresa ad un trustee, soggetto terzo rispetto all’imprenditore che ha concorso a determinare il dissesto della stessa, sarà certo un criterio di scelta che potrà trovare maggior consenso nel ceto creditorio; forse in questo contesto il problema più delicato sarà individuare un trustee che si renda disponibile in tal senso ma nell’ottica della liquidazione dell’impresa, la scelta potrà rivelarsi meno difficile del previsto

 

Ø l’affitto dell’azienda non risolve il problema dell’eventuale confusione fra i beni personali dell’affittuario ed i beni facenti parte dell’azienda affittata, anche in questo ambito il ricorso al trust sarebbe risolutivo per assicurare adeguata protezione ai diritti dei creditori. E’ ovvio che in simile contesto sarebbe necessario studiare il caso specifico con attenzione, atteso che il trust ha per definizione effetti traslativi mentre l’affitto di azienda solo meramente obbligatori ma indubbiamente la soluzione potrà trovarsi

 

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In tema poi di programma di liquidazione di cui all’art. 104 ter l.f., vorrei soffermarmi su di un ultimo aspetto.

 

Recita l’ultimo comma di detta norma: il curatore previa autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all’attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni se l’attività di liquidazione appaia manifestatamene non conveniente.In questo caso il curatore ene dà comunicazione ai creditori i quali in deroga a quanto revisto dall’art. 51, possono iniziare azioni esecutive o cautelari sui beni rimessi nella disponibilità del debitore.

 

In altri termini, in presenza di simile accadimento, si riapre la corsa personale dei creditori uti singuli al soddisfacimento del loro credito mediante azioni esecutive individuali.

 

In proposito ha segnalato autorevole dottrina come la norma non specifichi se il g.d. su impulso del curatore, debba procedere alla cancellazioni necessarie (esempio cancellazione dell’annotazione della sentenza dichiarativa di fallimento) che si rende indispensabile per rimettere il bene nella materiale disponibilità dei singoli creditori.

 

La soluzione offerta dal trust è radicalmente nuova: il bene viene trasferito dal curatore ad un trustee, a beneficio di tutti i creditori concorsuali.

 

Se da un canto quindi cessa la segregazione legale per effetto della cancellazione dell’annotata sentenza dichiarativa di fallimento, contestualmente sorge una segregazione volontaria effetto del trust che imprime sul bene de quo il detto vincolo di destinazione, ovviamente annotato o trascritto nei competenti registri.

 

Ciò comporterebbe, con buona pace di tutti i creditori, il venir meno dell’ansia di dovere procedere subito, certo della soddisfazione che su tale bene potrà derivarne.

 

In tal modo la par condicio è assicurata e con essa si eviteranno anche le eventuali riduzioni, o comunque liti, che potranno derivare, in ragione dell’integrale soddisfacimento ottenuto da un solo creditore, rispetto agli altri, che veda ridotto il suo credito per il quale inizialmente era stato ammesso al passivo.

 

La scelta di opzione per questa soluzione è rimessa prima di tutto al curatore che ovviamente dovrà prescegliere la strada del trust, o quella ordinaria di cui all’ultimo comma della norma in commento, in ragione della specificità del fallimento e del bene in questione rispetto alla posizione dei singoli creditori facenti parte della procedura.

 

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Da ultimo, ricordo l’istituto dell’ esdebitazione che proprio grazie al trust potrà di fatto assicurare ai creditori che determinati beni non sfuggiranno dalle loro pretese.

 

Se difatti la ratio dell’esdebitazione è quella di evitare che il fallito, gravato da debiti non soddisfatti dalla procedura stessa, ricorra a mezzi fraudolenti per occultare il suo futuro patrimonio, (premiandone per converso il buon comportamento tenuto nel corso della procedura) d’altro canto proprio il trust consentirà di perseguire gli obiettivi voluti dal legislatore: la liberazione del fallito “onesto” dai debiti residui e la certezza che l’attivo, ancora esistente, sarà impiegato al solo fine di soddisfare i creditori concorsuali non saldati integralmente.

 

 



[1] Sulle problematiche connesse alla riscossione dell’attivo fallimentare dopo la chiusura del fallimento si rinvia a U. Apice, Trust strumento di esemplificazione della procedura concorsuale, in Diritto e Pratica del Fallimento, 2006,3

 

[2] In Fallimento, 2004, 101 con nota di G.Fauceglia, “La funzione del Trust nelle procedure concorsuali”

 

[3] Altre volte il legislatore ha pensato al trust senza avere di fatto il coraggio di nominarlo. Penso alla riforma societaria quando sono stati introdotti i patrimoni separati che di fatto sono trust, anche se imperfetti, e sul punto rinvio P. Manes, I patrimoni dedicati ad uno specifico affare, in La protezione dei Patrimoni, AA.VV. a cura di M. Montefameglio, Rimini, 2006, alla D. Lgs 24 febbraio 1998 n. 245, cd. Testo Unico sull’Intermediazione Finanziaria, il cui art. 22 è l’attuale norma di riferimento in materia di separazione ed infine la L. 30 aprile 1999 n. 30 in tema di separazione dei patrimoni cartolarizzati in punto alla quale rinvio a M. Sacchi, La segregazione patrimoniale del trust con particolare riguardo alle operazioni di cartolarizzazione, in T&AF, 2005, 548.

 

[4] U. Apice citato, e nello stesso senso M. Ferro

 

[5] Dello stesso avviso pare U. Apice, cit.

 

[6] M. Ferro, La legge fallimentare, Padova, 2007, 806 e ss. che richiama anche la C.App di Milano 2.2.96

 

[7] Cass. 6422/03; 17162/02; 8333/01

 

[Relazione tenuta al convegno: Trust e procedure concorsuali, Bologna, 8 giugno 2007, Oratorio di San Giovanni Battista dei Fiorentini]

 

 

A mio avviso il trust trova, nelle fasi successive la chiusura del fallimento, così come in quelle immediatamente prossime, e mi riferisco alla fase di liquidazione dell’attivo, un terreno di massima elezione.

 

Se da un canto è infatti pacifico che la sentenza dichiarativa di fallimento sottrae i beni al debitore, affidandoli al curatore fallimentare, attuando una segregazione sul patrimonio del fallito finalizzata al soddisfacimento dei creditori concorsuali (segregazione legale), è d’altro canto altrettanto vero che tale segregazione cessa con la chiusura del fallimento.

 

E questo è il problema sul quale dobbiamo concentrare oggi la nostra attenzione.

 

E’ pertanto necessario spendere alcune parole circa le sorti dei crediti inescussi dopo la chiusura del fallimento secondo il testo di legge anteriore alla riforma.

 

In proposito occorre ricordare che le poste più comuni che appartengono a questa categoria sono i crediti per IVA pagata in eccedenza e le ritenute di acconto sugli interessi maturati sui depositi bancari, esigibili solo in carenza di imponibile, che di fatto risulta solo dopo la sentenza di fallimento in ragione della dichiarazione finale del C.F[1].

 

In quest’ambito vorrei rammentare gli ostacoli che si frapponevano fra l’auspicato recupero dell’attivo, e le operazione di fatto necessarie per portarlo a compimento, sostanzialmente dovuti alle rigidità della procedura concorsuale previgente e all’inadeguatezza dei mezzi ai quali si faceva ricorso.

 

La prassi adottata dalle curatele era solita optare per soluzioni che recavano tutte insuperabili ostacoli pratici o giuridici e cioè:

 

1) consentire la riscossione del credito futuro da parte del fallito, poi tornato in bonis, non garantiva la certezza del pagamento spontaneo da parte di costui, ai creditori concorsuali né, tantomeno, l’immediata riapertura del fallimento, appresa la notizia degli avvenuti pagamenti, poteva garantire alcunché, rivelandosi spesso o inutilmente dispendiosa, o addirittura inutile se nel frattempo il fallito aveva abilmente sottratto le somme alle pretese di costoro;

 

2) la cessione del credito, era di fatto scarsissima convenienza atteso lo sconto praticato dal cessionario;

 

3) il tentativo di far sopravvivere le funzioni degli organi fallimentari, era fortemente contestata in ragione delle ipotesi di ultrattività, tassativamente previste dalla legge fallimentare connotata da estrema rigidità;

 

4) il mandato attribuito ad un terzo non aveva mai risolto, nè il problema della compensazione pretesa dall’Amministrazione finanziaria, di compensare il proprio debito, con gli eventuali crediti dell’imprenditore nel frattempo tornato in bonis, né il problema della concorrenza fra creditori anteriori e successivi al fallimento, nemmeno attribuendo al contratto di mandato la natura di mandato nell’interesse dei creditori concorsuali e quindi irrevocabile ed in rem propriam.

 

In questo scenario si innestavano allora isolate e coraggiose decisioni come quella del Tribunale di Padova del 26 aprile 2002 che, proprio in tema di recupero di crediti fiscali, con grande lungimiranza giuridica, formula una ragionamento fondamentale anche in tema di trust; essa recita (e cito le parole del Tribunale) : “ Non è nuova al complesso fallimentare l’ipotesi della sopravvivenza degli organi della procedura per il compimento di atti specifici che non poterono essere compiuti durante la procedura stessa (e non era opportuno né necessario lasciare aperto il fallimento) o la cui necessità si manifesta solo dopo la chiusura della procedura: si vedano gli art. 18 lf. Sulla prosecuzione da parte del curatore del giudizio di opposizione al fallimento, l’art. 21 2° co sulla liquidaizone delle spese della procedura e del compenso del curatore dopo la revoca del fallimento, l’art 102, 5 co, sulla prosecuzione del giudizio di revocazione contro i crediti ammessi, l’art. 117, 2 co sul riparto di quote precedentemente accantonate, l’art. 136, 1 co e 3 co relativamente alla sorveglianza sull’esecuzione del concordato fallimentare. E’ dunque immanente al sistema, e quindi compatibile con esso la sopravvivenza degli organi fallimentari allo scopo di realizzare appieno le finalità liquidatorie della procedura fallimentare che va quindi intesa non soltanto come un complesso di norma processuali e sostanziali di un sistema chiuso e fine a sé stesso, il che potrebbe, in ipotesi a negare l’ultrattività degli organi fallimentari fuori dei casi espressamente previsti ma, come uno strumento di attuazione del concorso dei creditori dotato di ultrattività fino alla piena realizzazione dei suoi scopi, sempre entro i limiti della legge fallimentare.

 

Era quindi genericamente avvertito questo disagio pratico causato da una lacuna normativa e dall’impossibilità di riempirla con soluzioni privatistiche teoricamente incompatibili con una disciplina di connotazione strettamente pubblicistica quale era quella fallimentare ante - riforma.

 

Nell’ambito di questo scenario, nell’anno 2003, il Tribunale fallimentare di Roma, con decreto del 4 marzo 2003[2], ha fatto ricorso all’impiego del trust per consentire al ceto creditorio il recupero del credito IVA.

 

Questa innovativa soluzione, che ha suscitato clamore e grande interesse fra gli studiosi, ha aperto la strada ad una riflessione per massimi sistemi circa la possibilità di impiego effettivo, all’interno di una procedura marcatamente pubblicistica, qual è quella concorsuale, di uno strumento privatistico che in sostanza deroga convenzionalmente alla disciplina in tema di crisi d’impresa e tutela dei creditori.

 

Il nodo era rappresentato dalle norme imperative sul diritto di aggredire il patrimonio del fallito, tornato in bonis, da parte dei vecchi e dei nuovi creditori, in posizione fra loro di par condicio, con particolare riguardo all’esplicitazione tassativa, di cui all’art. 121, per poter riaprire il fallimento e soddisfare i creditori concorrenti nella precedente procedura.

 

A mio avviso la riforma della legge fallimentare ha cambiato questo scenario.

 

Essa, fra le tante novità, ha fatto suoi due principi supremi: un’accentuata privatizzazione della crisi d’impresa (il primo principio) resa attraverso (il secondo principio) un generale depotenziamento del ruolo del giudice delegato con uno speculare incremento dei poteri conferiti agli altri organi della procedura.

 

Ne è quindi derivata una maggiore responsabilizzazione della curatela, in termini di effettiva gestione della procedura, ed un penetrante coinvolgimento del comitato dei creditori nelle operazioni di liquidazione.

 

Sia chiaro però, e dico questo per tacitare fin da subito possibili eccezioni che da simile premessa potrebbero sollevarsi, che privatizzazione non è in antitesi con la natura pubblicistica delle norme fallimentari.

 

Rimane indiscusso il ruolo di tutela dell’ordine economico da parte della procedura fallimentare e le modalità stabilite per l’accertamento dei crediti e l’acquisizione dell’attivo.

 

Lo strumento privatistico del trust, per la parte relativa alle fasi di liquidazione dell’attivo e il recupero dei crediti dopo la chiusura della procedura, riguarda solo modalità tecniche-operative, in sostanza l’azione sul campo, ma non incide sui diritti dei creditori in alcun modo.

 

In particolare, proprio rammentando la decisione di Padova che prima ho letto per esteso, essa continua, e ripeto è del 2002, precisando che l’ultrattività degli organi fallimentari dopo la chiusura del fallimento, convive pacificamente con le disposizioni dell’art. 113, 3° co e 117, 2° co, ( della previgente disciplina) circa il piano di riparto; ne consegue che una volta recuperate le somme, alcun margine di discrezionalità è lasciato in punto alla distribuzione delle stessa, che avverrà secondo i criteri stabiliti dal piano di riparto.

 

Il nuovo assetto normativo portato dalla riforma del diritto fallimentare, unitamente al vento nuovo che già spirava sotto la previgente disciplina, consente oggi di superare le obiezioni sull’impiego del trust nella procedura concorsuale cui ho fatto prima riferimento per spalancare la porta a nuove soluzioni.

 

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Comincio pertanto con una delle norme più significative, l’art 106 che, collocata nella sezione Della vendita dei beni mobili, recita:

 

“ Il curatore può cedere i crediti, compresi quelli di natura fiscale o futuri, anche se oggetto di contestazione; può altresì cedere le azioni revocatorie concorsuali se i relativi giudizi sono già pendenti.

 

Per la vendita della quota di società a responsabilità limitata si applica l’art.2471 cc.

 

In alternativa alla cessione di cui al primo comma, il curatore può stipulare contratti di mandato per la riscossione dei crediti”

 

Ogni volta in cui leggo questo articolo mi viene subito da pensare che sebbene il legislatore non abbia espressamente menzionato lo strumento del trust, è indubbio che a qualcosa di simile deve aver pensato durante la sua stesura.

 

La lacuna non può comunque costituire un ostacolo per il professionista[3] atteso che il trust potrà senza dubbio rivelarsi lo strumento più efficace per perseguire il fine indicato dall’art. 106 per una ragione su tutte: il trust ripristina, o meglio assicura continuità, agli effetti segregativi sul patrimonio del fallito che, al contrario, cessano inesorabilmente con la chiusura del fallimento.

 

Tuttavia, affinché al trust si possa ricorrere, è comunque necessario che lo strumento venga ricompreso nel programma di liquidazione che ai sensi dell’art. 104 ter, il curatore è tenuto a predisporre entro i 60 gg successivi alla redazione dell’inventario.

 

Esaurito questo adempimento, la lettura della relazione accompagnatrice alla legge di riforma, può rivelarsi di conforto alla ratio che informerebbe di sé la scelta del trust.

 

Detta relazione precisa che la possibilità di cedere tutti i crediti, e quindi anche quelli oggetto di contenzioso, è nata dall’esigenza di “evitare ritardi nella chiusura della procedura concorsuale che, secondo il sistema previgente, sono spesso dovuti proprio ai lunghi tempi connessi alla definizione, con sentenza passata in giudicato, dei contenziosi fiscali e ordinari” ed ancora che sono cedibili tutte quelle azioni “ comunemente dirette a conseguire incrementi di patrimonio del debitore”.

 

La dottrina[4] si è chiesta allora se il negozio di mandato, come richiamato dal legislatore, potesse intendersi con durata che vada oltre la data di chiusura del fallimento, e parimenti se fosse possibile assimilare il trust, al mandato o comunque ritenere che l’impiego del primo non fosse impedito dalla mera indicazione del secondo.

 

La conclusione raggiunta ha dato risposta affermativa a questi due quesiti, prospettandola quale unica soluzione possibile per salvare l’utilità pratica della norma. Diversamente, infatti, ritenere il mandato quale unico strumento impiegabile, sarebbe in contrasto con l’opposto principio che vuole il curatore non più vincolato all’adozione di particolari modalità nella fase di liquidazione dell’attivo.

 

Non avrei dubbi, quindi, sulla legittimità di un’ interpretazione estensiva, o analogica della norma, che arrivi a ricomprendere il trust fra l’elencazione dei negozi da essa enunciati[5].

 

La tipologia di crediti cedibili non conosce poi limiti di sorta e, a parte quelli fiscali, sono altresì cedibili anche i crediti futuri purchè già in essere il rapporto da cui i crediti hanno titolo sicchè gli stessi possano dirsi determinati o determinabili[6].

 

In quest’ambito viene spontanea una riflessione che si rivela sostanziale rapportata al trust.

 

Il trasferimento dei crediti in capo al cessionario avviene, secondo giurisprudenza consolidata in tema[7], nell’esatto momento in cui il credito viene ad esistenza sicché, prima di tale evento, il contratto produce solo meri effetti obbligatori fra le parti mentre, dopo, l’unico legittimato a ricevere il pagamento è il cessionario.

 

Per ciò che concerne invece i crediti oggetto di contestazione, la fattispecie è stata estesa anche alle possibili domande di condanna o azioni di accertamento con la cautela, per tutte le cessioni di azioni diverse dalla azione revocatoria, di cedere anche il credito sottostante atteso che la mera cessione dell’azione è possibile, nella norma in commento, solo per le citate azioni revocatorie.

 

Cedere il credito significa poi cedere i privilegi, le garanzie reali o personali sottostanti e tutti gli accessori connessi e quindi, ai sensi dell’ult. co dell’art. 1263 cc., salvo patto contrario, la cessione comporterà anche gli interessi scaduti benché si tratti di fattispecie ontologicamente diverse dal credito in sé medesimo.

 

Occorre allora un’ulteriore riflessione che parimenti si rivelerà sostanziale rispetto al trust.

 

L’art. 1266 cc impone al curatore, salvo patto contrario, di dare garanzia circa l’esistenza del credito ceduto, ferma la responsabilità del cedente per fatto proprio.

 

Diversamente, nel caso di cessione a titolo gratuito, la garanzia è dovuta solo nei casi e nei limiti previsti dalla legge a carico del donante per evizione.

 

Autorevole dottrina ha ritenuto che nell’ambito fallimentare si debba preferire l’esclusione del patto che garantirebbe l’esistenza del credito da parte del cedente, in ragione dell’incertezza circa l’esatta portata della nozione di cui all’art. 1266 rispetto all’ambito fallimentare, volendo in sostanza evitare onerose chiamate in garanzia della curatela.

 

Mi fermo allora a questo punto per tirare le fila di quanto suddetto, evidenziando alcuni punti salienti rispetto al trust, che si devono necessariamente tener presenti per comprendere quanto di seguito esposto:

 

Ø il cedente – curatore – non risponde della solvibilità del debitore ceduto

 

Ø il solo legittimato alla riscossione è il cessionario

 

Ø prima della venuta ad esistenza del credito, il contratto di cessione produce solo effetti obbligatori

 

Alla luce di ciò si veda perché il trust

 

La cessione dei crediti al trustee avverrebbe a titolo gratuito, dal che consegue che la garanzia possa pattiziamente escludersi, salvo che l’evizione non dipenda dal dolo o da fatto personale del soggetto.

 

La cessione dei crediti in capo al trustee, che dovrà avvenire nelle forme e termini del contratto di cessione come previsto dagli artt. 1260 e ss cc., comporterà l’immediata segregazione di queste posizioni giuridiche in un patrimonio separato, rispetto a quello personale del trustee, di talchè alcuna confusione sarà possibile in futuro.

 

Da simile premessa il ceto creditorio ne trae estremo vantaggio.

 

Le fasi di recupero, o comunque di incasso del credito, che saranno onere ed obblighi del trustee, avverranno nel tempo a venire e confluiranno nelle tasche dei creditori sulla base di un piano di riparto, prestabilito in percentuali di riferimento, detratti i costi sostenuti dal trustee ed, ovviamente, il suo onorario.

 

Sono quindi palmare evidenza gli effetti che il trust produce, rispetto alla mera cessione del credito da un terzo:

 

Ø il margine di recupero del credito, non più venduto al terzo, ma cedutogli a titolo gratuito, si eleva sensibilmente;

 

Ø l’eventuale insolvibilità del debitore ceduto, si spalmerà su tutto il ceto creditorio, in termini di minor incasso di somme rispetto al previsto, lasciando indenne il curatore e la procedura da azioni di sorta;

 

Ø gli effetti obbligatori che il contratto di cessione produce, allorquando diventano reali, per venuta ad esistenza del credito, si producono in relazione a posizioni soggettive e diritti già segregati in trust con ogni conseguente impossibilità sia di illegittima distrazione di somme, sia di confusione del patrimonio laddove, nel frattempo, il terzo cessionario subisse azioni esecutive da parte dei suoi creditori personali. Alcuni principi poi segnalati dalla dottrina in tema di cessione dei crediti in ambito fallimentare, devono essere tenuti in debita considerazione anche laddove si facesse ricorso al trust. Atteso che la cessione di crediti futuri, come sopra ricordato, ha meri effetti obbligatori finchè il credito non viene ad esistenza, il cedente ha il dovere di attivarsi affinché il credito appunto venga ad esistenza per farne acquistare la titolarità al cessionario. In pratica quindi il cedente deve fare la domanda di rimborso sicchè il debitore, ed anche quindi l’amministrazione finanziaria atteso che ad essa si applicano i comuni principi del codice civile, potrebbe pagare bene, pagando al cedente tornato in bonis quale creditore apparente (art.1189 cc). Per evitare ciò, è necessario che il cessionario presenti a sua volta altra domanda di rimborso, con allegati il contratto di cessione e la dichiarazione del curatore. In tal modo, ai sensi dell’art. 1264, 1° co cc., la cessione è opponibile al debitore sin dalla notifica e il trasferimento del credito al cessionario – trustee – diviene conosciuto e conoscibile da parte del debitore;

 

Ø il problema della compensazione, che il debitore ceduto potrebbe opporre, come accade di norma per la cessione dei crediti fiscali, viene scongiurato nel trust, atteso il trasferimento del credito in capo al trustee in ragione di un traslativo funzionale alla destinazione della risorsa al ceto creditorio.

 

Due sono però gli ulteriori problemi che si rende necessario affrontare:

 

1) la scelta del trustee, del guardiano e la tipologia di trust a cui ricorrere

 

2) la dotazione iniziale di fondi al trustee del trust istituito.

 

Il trustee non deve essere, a mio avviso, il curatore; bensì un trustee professionista (una trust company) o un professionista che intenda divenire trustee del trust; in tal modo sono superate le obiezioni circa l’ultrattività degli organi fallimentari.

 

Guardiano del trust potrebbe essere il curatore ma se vi sono ostacoli circa il perdurare di tale carica dopo la chiusura del fallimento, le soluzioni praticabili sono due: o il curatore ricopre l’ufficio a titolo personale o, diversamente, il ceto creditorio nomina un guardiano di sua fiducia.

 

Ritengo poi opportuno che l’atto istitutivo di trust nomini quali beneficiari del trust, il ceto creditorio, e quale beneficiario residuale, al quale potranno andare le somme che residueranno pagati tutti i creditori, il fallito, sicchè costoro avranno tutti i diritti e poteri che il diritto dei trust riconosce ai beneficiari quali, segnatamente, quello di rendiconto da parte del trustee.

 

Il secondo problema, invece, è meramente pratico.

 

All’atto dell’istituzione del trust, vengono ceduti al trustee dei crediti, come riconosciuti nei rispettivi contratti da cui hanno titolo; il trustee, quindi, comincia la sua attività, che comporta delle spese iniziali, senza fondi liquidi.

 

I fondi, infatti, arriveranno man mano che i crediti vengono incassati.

 

Parimenti l’atto di trust potrà prevedere il potere del trustee di procedere ad anticipazioni delle somme riscosse in favore dei creditori, in proporzione ovviamente alle rispettive percentuali; diversamente potrà invece prevedersi le somme siano corrisposte in un’unica soluzione al termine del trust.

 

Nel primo caso, comunque, sarà inevitabile per il trustee assicurarsi sempre e comunque una provvista che gli consenta di affrontare le spese successive che lo attendono e, a scanso di ogni contestazione sul punto.

 

Aiuta in proposito l’art. 113 che in tema di ripartizioni parziali, prevede l’obbligo di accantonamento del 20% rispetto al totale distribuito.

 

Non si risolve però il problema iniziale: quando il trustee inizia la sua attività di recupero, ha solo contratti, non liquidi e quindi come si finanzia?

 

Il problema a mio avviso è superabile solo assegnandogli una provvista iniziale, cui saranno chiamati a far fronte i creditori, ancora una volta secondo criteri da prestabilirsi.

 

E’ ovvio che in tal modo verrà ad esistenza un debito del trust, verso i beneficiari-creditori, che andrà pagato in “prededuzione”, mutando un temine tipico della procedura concorsuale, prelevando dai primi incassi avvenuti ed a prescindere dal potere di anticipazione o meno riconosciuto al trustee.

 

Questa però è solo una mia personale ipotesi e sarò lieta di ascoltare suggerimenti diversi in proposito.

 

L’ultimo comma della norma in commento, prevede poi, quale soluzione alternativa alla cessione dei crediti, il contratto di mandato per la riscossione dei crediti che il curatore è chiamato a stipulare con il mandatario.

 

Si è quindi codificata la prassi di molti uffici giudiziari che spesso affidavano a soggetti terzi, di solito società facenti parte di gruppi bancari, il compito di trasformare in moneta fallimentare i crediti esistenti.

 

Questa norma è strettamente correlata con l’art. 104 ter l.f, 3° co, ove prevede il potere del curatore di affidare ad altri professionisti la liquidazione dell’attivo.

 

Evidenti le differenze con la cessione di credito, atteso che il mandato non ha efficacia reale ed il credito rimane in capo al mandante, mentre il mandatario diviene legittimato a riscuoterlo in nome e per conto del mandante.

 

La dottrina ha evidenziato come tale strumento abbia di fatto scarsa utilità pratica, servendo di fatto a mero sgravio rispetto ai compiti che gravano sul curatore senza peraltro incidere sensibilmente sui tempi di definizione della procedura.

 

Nuovamente i criteri generali che ho accennato prima, laddove ho rappresentato l’estrema competitività del trust, rispetto al contratto di cessione di crediti, sono integralmente da richiamarsi anche in questa sede.

 

Anche l’obbligo di rendiconto, che grava sul mandatario ai sensi dell’art. 1713 cc. non è norma sufficiente a decretare una possibile preferenza del ricorso al mandato, rispetto al trust.

 

Il rendiconto cui è tenuto un trustee non è certo paragonabile a quello che fa obbligo al mandatario; in questo caso l’obbligo del mandatario è l’altra faccia del corrispondente diritto del mandante, nel diritto dei trusts, il rendiconto è uno dei principali obblighi e doveri del trustee e si pone su di un piano avulso e superiore rispetto al diritto dei beneficiarli a riceverlo.

 

Pregnanti e complesse quindi le norme contabili e fiscali che disciplinano il rendiconto di un trustee che certo saranno solo di estrema utilità per i creditori.

 

Vorrei allora chiude le fila a questa prima parte del mio intervento, circa il rapporto fra trust ed articolo 106 della l.f, per segnalare che se da un canto la forza del trust è racchiusa in due ordini precisi che si manifestano in tutta la loro importanza in ambito fallimentare: il trasferimento dei beni in capo al trustee, che ne diviene proprietario, e la segregazione che viene ad imprimersi su detti beni rispetto al patrimonio personale del trustee, destinati all’esclusivo soddisfacimento dei diritti del ceto creditorio, d’altro canto ricorrere l truste consente anche di superare un ostacolo su tutti: addivenire ad una solerte chiusura della procedura, nonostante la presenza di crediti ancora non escutibili.

 

La presenza infatti del trustee, quale soggetto terzo e quindi non organo del concorso, la nomina dei ceto creditorio ai beneficiari del trust, dando loro ogni potere tipico di tale posizione soggettiva, la previa predisposizione di un piano di riparto secondo i criteri dell’art. 117 o anche dell’art. 113, per procedere a ripartizioni parziali, il tutto sotto il controllo di un guardiano, non può conferire a detta soluzione la massima competitività rispetto a qualsiasi altra ipotesi civilisticamente praticabile.

 

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Vorrei poi spendere alcune parole circa gli artt. 104 e 104 bis della lf.

 

Le ipotesi possibili di esercizio provvisorio dell’impresa del fallito, con decisione del tribunale in composizione collegiale al momento della pronuncia dichiarativa dello stato di insolvenza e da parte del g.d. su proposta del curatore, successivamente alla dichiarazioni di fallimento, non interessano l’ambito della relazione oggi assegnatami.

 

Rivolgo invece la mia attenzione sulla terza ed ultima ipotesi che concerne l’esercizio provvisorio dell’impresa del fallito, al quale il curatore può decidere di ricorrere per la prima volta in sede di predisposizione del programma di liquidazione disposto ai sensi dell’art. 104 ter l.f.

 

In questo contesto si innesta poi il successivo art. 104 bis l.f. che consente di procedere all’affitto dell’azienda o di rami produttivi di essa anche prima del programma di liquidazione.

 

Ciò che di fatto ha sempre reso di scarso utilizzo queste norme è sempre stata la naturale ritrosia del curatore ad assumere il rischio della gestione dell’impresa attesa la sua natura di organo predisposto ad una gestione statico-liquidatoria dell’impresa e non in grado di assumere un ruolo prettamente dinamico.

 

La ratio che informava di sé dette norme, anche secondo la stesura ante –riforma, è sempre stata, secondo autorevole dottrina e consolidata giurisprudenza di legittimità, quella non tanto di perseguire obiettivi di risanamento dell’impresa, ma più modestamente di effettuarne una gestione conservativa, finalizzata a conservarne o aumentarne il valore, in vista di una sua liquidazione – e cioè vendita – a terzi.

 

Questo criterio ha trovato la sua massima espressione nella legge di riforma, secondo la quale l’esercizio provvisorio o l’affitto dell’azienda sono comunque finalizzati alla liquidazione ottimizzata dell’impresa.

 

Se così stanno le cose, allora due cose vorrei dire in proposito:

 

Ø affidare l’esercizio provvisorio dell’impresa ad un trustee, soggetto terzo rispetto all’imprenditore che ha concorso a determinare il dissesto della stessa, sarà certo un criterio di scelta che potrà trovare maggior consenso nel ceto creditorio; forse in questo contesto il problema più delicato sarà individuare un trustee che si renda disponibile in tal senso ma nell’ottica della liquidazione dell’impresa, la scelta potrà rivelarsi meno difficile del previsto

 

Ø l’affitto dell’azienda non risolve il problema dell’eventuale confusione fra i beni personali dell’affittuario ed i beni facenti parte dell’azienda affittata, anche in questo ambito il ricorso al trust sarebbe risolutivo per assicurare adeguata protezione ai diritti dei creditori. E’ ovvio che in simile contesto sarebbe necessario studiare il caso specifico con attenzione, atteso che il trust ha per definizione effetti traslativi mentre l’affitto di azienda solo meramente obbligatori ma indubbiamente la soluzione potrà trovarsi

 

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In tema poi di programma di liquidazione di cui all’art. 104 ter l.f., vorrei soffermarmi su di un ultimo aspetto.

 

Recita l’ultimo comma di detta norma: il curatore previa autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all’attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni se l’attività di liquidazione appaia manifestatamene non conveniente.In questo caso il curatore ene dà comunicazione ai creditori i quali in deroga a quanto revisto dall’art. 51, possono iniziare azioni esecutive o cautelari sui beni rimessi nella disponibilità del debitore.

 

In altri termini, in presenza di simile accadimento, si riapre la corsa personale dei creditori uti singuli al soddisfacimento del loro credito mediante azioni esecutive individuali.

 

In proposito ha segnalato autorevole dottrina come la norma non specifichi se il g.d. su impulso del curatore, debba procedere alla cancellazioni necessarie (esempio cancellazione dell’annotazione della sentenza dichiarativa di fallimento) che si rende indispensabile per rimettere il bene nella materiale disponibilità dei singoli creditori.

 

La soluzione offerta dal trust è radicalmente nuova: il bene viene trasferito dal curatore ad un trustee, a beneficio di tutti i creditori concorsuali.

 

Se da un canto quindi cessa la segregazione legale per effetto della cancellazione dell’annotata sentenza dichiarativa di fallimento, contestualmente sorge una segregazione volontaria effetto del trust che imprime sul bene de quo il detto vincolo di destinazione, ovviamente annotato o trascritto nei competenti registri.

 

Ciò comporterebbe, con buona pace di tutti i creditori, il venir meno dell’ansia di dovere procedere subito, certo della soddisfazione che su tale bene potrà derivarne.

 

In tal modo la par condicio è assicurata e con essa si eviteranno anche le eventuali riduzioni, o comunque liti, che potranno derivare, in ragione dell’integrale soddisfacimento ottenuto da un solo creditore, rispetto agli altri, che veda ridotto il suo credito per il quale inizialmente era stato ammesso al passivo.

 

La scelta di opzione per questa soluzione è rimessa prima di tutto al curatore che ovviamente dovrà prescegliere la strada del trust, o quella ordinaria di cui all’ultimo comma della norma in commento, in ragione della specificità del fallimento e del bene in questione rispetto alla posizione dei singoli creditori facenti parte della procedura.

 

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Da ultimo, ricordo l’istituto dell’ esdebitazione che proprio grazie al trust potrà di fatto assicurare ai creditori che determinati beni non sfuggiranno dalle loro pretese.

 

Se difatti la ratio dell’esdebitazione è quella di evitare che il fallito, gravato da debiti non soddisfatti dalla procedura stessa, ricorra a mezzi fraudolenti per occultare il suo futuro patrimonio, (premiandone per converso il buon comportamento tenuto nel corso della procedura) d’altro canto proprio il trust consentirà di perseguire gli obiettivi voluti dal legislatore: la liberazione del fallito “onesto” dai debiti residui e la certezza che l’attivo, ancora esistente, sarà impiegato al solo fine di soddisfare i creditori concorsuali non saldati integralmente.

 

 



[1] Sulle problematiche connesse alla riscossione dell’attivo fallimentare dopo la chiusura del fallimento si rinvia a U. Apice, Trust strumento di esemplificazione della procedura concorsuale, in Diritto e Pratica del Fallimento, 2006,3

 

[2] In Fallimento, 2004, 101 con nota di G.Fauceglia, “La funzione del Trust nelle procedure concorsuali”

 

[3] Altre volte il legislatore ha pensato al trust senza avere di fatto il coraggio di nominarlo. Penso alla riforma societaria quando sono stati introdotti i patrimoni separati che di fatto sono trust, anche se imperfetti, e sul punto rinvio P. Manes, I patrimoni dedicati ad uno specifico affare, in La protezione dei Patrimoni, AA.VV. a cura di M. Montefameglio, Rimini, 2006, alla D. Lgs 24 febbraio 1998 n. 245, cd. Testo Unico sull’Intermediazione Finanziaria, il cui art. 22 è l’attuale norma di riferimento in materia di separazione ed infine la L. 30 aprile 1999 n. 30 in tema di separazione dei patrimoni cartolarizzati in punto alla quale rinvio a M. Sacchi, La segregazione patrimoniale del trust con particolare riguardo alle operazioni di cartolarizzazione, in T&AF, 2005, 548.

 

[4] U. Apice citato, e nello stesso senso M. Ferro

 

[5] Dello stesso avviso pare U. Apice, cit.

 

[6] M. Ferro, La legge fallimentare, Padova, 2007, 806 e ss. che richiama anche la C.App di Milano 2.2.96

 

[7] Cass. 6422/03; 17162/02; 8333/01