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IVA: Reverse Charge

Prova della cessione aziendale spetta all’ufficio tributario
Portovenere
Ph. Alessandro Saggio / Portovenere

La Commissione Tributaria Regionale del Lazio - Sezione staccata di Latina, con la sentenza n. 2045/2020, conferma la pronuncia di primo grado della CTP Latina sentenza 50/02/2018, favorevole al contribuente.

La questione nasce dalla notifica di un avviso di liquidazione d’imposta al contribuente: l’Agenzia delle Entrate riteneva soggetto ad imposta di registro un atto di compravendita relativo ad un compendio immobiliare ed effettuato tra due società.

Per tale operazione, quindi, l’acquirente aveva portato in detrazione la relativa Iva in forza del meccanismo di reverse charge (già in precedenza, però, l’Ufficio stesso aveva inviato alla società cessionaria un avviso di accertamento relativo al recupero dell’imposta predetta che, tuttavia, veniva successivamente annullato in autotutela attesa la correttezza dell’operazione).

La società ricorrente, in primo grado, contestava specificamente il difetto di motivazione dell’atto impugnato, la contraddittorietà con il precedente avviso di accertamento Iva (poi annullato, come detto, in autotutela) con la conseguente violazione del principio di alternatività Iva/registro e l’errata qualificazione della cessione di un singolo bene come se fosse una tipica cessione, appunto, di azienda.

La CTP di Latina, a chiusura del giudizio di prima attenzione, ribadiva il principio espresso dalla Suprema Corte con la sentenza n. 12649/2017; quest’ultima, graniticamente d’altronde, affermava a sua volta che “spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, indicando elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione”.

Tale orientamento è stato sposato ben prima, in termini giuridici, dalla Corte di Giustizia Europea con una sentenza del 06.12.2012 la quale, statuendo sul punto, chiariva precisamente che “se - tenuto conto di evasioni o irregolarità commesse dall’emittente della fattura, o comunque a monte dell’operazione dedotta a fondamento del diritto alla detrazione - tale operazione è considerata non effettivamente realizzata, l’Amministrazione finanziaria deve dimostrare, alla luce di elementi oggettivi e alla stregua dei principi sull’onere della prova vigenti nello Stato membro, senza peraltro esigere dal destinatario della fattura verifiche alle quali non è tenuto, che tale destinatario sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta operazione si inseriva nel quadro di un’evasione Iva”.

Per il Collegio di seconde cure, cioè la CTR Lazio, a conferma integrale della sentenza di primo grado, l’atto impugnato presentava palesemente lacune motivazionali attesa la mancanza di qualsivoglia raccordo con il precedente atto di annullamento (relativo all’avviso accertamento Iva).

Difatti, l’Agenzia avrebbe dovuto dar conto del perché, malgrado il riconoscimento dell’assoggettamento a IVA, il negozio andasse soggetto anche a imposta di registro.

Parimenti, il Collegio di gravame evidenziava che la motivazione dell’atto non rendeva conto, in modo esauriente e compiuto, della ragione per cui il contratto dovesse essere qualificato come cessione di azienda, anziché compravendita immobiliare; a tal proposito, riteneva elementi insufficienti l’accollo di un debito bancario garantito da ipoteca sull’immobile nonché la dedotta presenza di beni strumentali nello stesso (peraltro smentita dal contribuente con la produzione delle fatture di vendita di tali beni), altresì, non ritenendo valida l’argomentazione dell’Ufficio circa l’attitudine produttiva del compendio immobiliare, in quanto destinazione meramente potenziale e non attuale.

Tali presunzioni (ex articolo 54 DPR 633/72) non avevano, stando al tenore della sentenza in commento, carattere di gravità, precisione e concordanza tanto che la CTR Lazio, definendo l’appello con la sentenza 2045/2020, inquadra l’atto dell’Agenzia delle Entrate quale erroneo: in pratica, la riconduzione della vendita sotto la categoria della cessione di azienda, senza addurre al riguardo concreti e univoci indicatori, è illegittima.

Ciò perché due sono gli elementi essenziali che devono sussistere affinché sia ravvisata la fattispecie tipica di cessione di azienda: la continuazione della attività e la cessione di un complesso di beni idoneo e funzionale all’esercizio dell’attività di impresa.

Orbene, da un punto di vista euro-unitario, la decisione in analisi sembra indirizzata a tutelare quanto la Convezione Europea dei diritti dell’Uomo (Cedu) tutela con l’enunciazione di cui all’articolo 1 prot. add.le di Parigi del 1952 e cioè “Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni”.

Quanto appena richiamato dai termini euro-unitari sta a significare che la portata di tale pronunzia non è limitata al contesto giudiziario di causa, ma ad uno più ampio; in primis perché la Costituzione italiana, stando agli artt. 10 e 117 Cost., considera i trattati internazionali ed i vincoli europei di natura conformativa per l’ordinamento interno.

Pertanto, nella fattispecie, il Collegio tributario decidente, fatto proprio anche l’indirizzo nomofilattico della Cassazione del 2017, non ha trascurato sicuramente di considerare la portata giuridico-sostanziale del principio di uguaglianza delle parti nel processo; il tutto stadiato nel mix costituzional-comunitario dettato dall’articolo 111 Cost. sul giusto processo e dall’articolo 6 della Cedu sull’equo processo.

Garanzie, quest’ultime, che rispetto all’annosa questione dell’onere della prova tributaria trovano sostegno ulteriore anche in una disposizione, questa volta diversa dai testi summenzionati, della Carta Fondamentale dei diritti dell’Unione Europea: l’articolo 41 che disciplina il Diritto ad una buona amministrazione.

Principio solido, pilastro irrinunciabile ed enunciazione imprescindibile per come viva ed attuale più che mai.

Quest’ultima disposizione europea, tenuto conto solo dei commi 1 e 2, specificamente, così recita: “1. Ogni individuo ha diritto a che le questioni che lo riguardano siano trattate in modo imparziale, equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni e dagli organi dell’Unione. 2. Tale diritto comprende in particolare… omissis… l’obbligo per l’amministrazione di motivare le proprie decisioni”.

Il tenore della decisione in commento, pertanto, fonda logica giuridica rispettando quanto innanzi: la motivazione dell’Ufficio impositore non era legittima.

L’annullamento giudiziale dell’atto impugnato, in conclusione, era necessario e doveroso: l’imparzialità e la terzietà a cui la Pubblica Amministrazione deve ispirarsi sono, d’altronde, consolidati, quali principi massimi dell’ordinamento, all’articolo 97 della Costituzione italiana.