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La caparra penitenziale non genera plusvalenza

Caparra penitenziale
Caparra penitenziale

Indice:

1. Premessa

2. Caparra penitenziale e tassazione

3. Corte di Cassazione, Sezione Tributaria Civile, ordinanza 23 ottobre 2019, n. 27129

 

1. Premessa

Nell’ipotesi di preliminare di vendita di un terreno agricolo non conclusosi con la stipula del definitivo, occorre vedere se la somma trattenuta dal promittente venditore quale caparra penitenziale, a seguito di recesso del promittente acquirente, generi o meno plusvalenza.

A tal fine, è necessario analizzare sia l’istituto della caparra penitenziale, così come disciplinato dal codice civile, sia le norme del TUIR (Testo unico delle imposte sui redditi), sia l’orientamento della Corte di Cassazione che sull’argomento ha avuto modo di pronunciarsi più volte, da ultimo con l’ordinanza n. 27129 del 23 ottobre 2019.

 

2. Caparra penitenziale e tassazione

La caparra penitenziale è disciplinata dall’articolo 1386 del codice civile, il quale espressamente prevede:

Se nel contratto è stipulato il diritto di recesso per una o per entrambe le parti, la caparra ha la sola funzione di corrispettivo del recesso.

In questo caso, il recedente perde la caparra data o deve restituire il doppio di quella che ha ricevuta.”

Non occorre una particolare forma per prevedere la caparra penitenziale ma è, comunque, necessario che la stessa sia espressamente pattuita, dovendosi ritenere in mancanza di ciò che la caparra abbia natura confirmatoria e quindi sanzionatoria dell’inadempimento dell’altra parte.

La differenza tra caparra penitenziale e caparra confirmatoria consiste essenzialmente nel fatto che, mentre la prima costituisce il corrispettivo predeterminato del diritto di recesso di una delle parti, la seconda ha funzione di autotutela e di preventiva liquidazione del danno in caso di inadempimento della controparte, senza la necessità per la parte adempiente di dover proporre l’azione risarcitoria innanzi all’autorità giudiziaria e non ponendo limiti al danno risarcibile.

Da quanto previsto dalla legge, ne discende pertanto che in caso di caparra penitenziale, la parte adempiente, non ha facoltà di richiedere né il maggior danno, né l’esecuzione del contratto.

Nel momento in cui viene azionata la caparra penitenziale, da un punto di vista fiscale, ci si chiede se le somme previste contrattualmente a tale titolo e incassate dalla parte adempiente generino una plusvalenza tassabile.

Orbene, al riguardo, occorre fare riferimento a quanto previsto dall’articolo 6, comma 2, del D.P.R. n. 917/1986 che espressamente recita: “I proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti. Gli interessi moratori e gli interessi per dilazione di pagamento costituiscono redditi della stessa categoria di quelli da cui derivano i crediti su cui tali interessi sono maturati.”.

 

3. Corte di Cassazione, Sezione Tributaria Civile, ordinanza 23 ottobre 2019, n. 27129

Con ordinanza n. 27129 del 23 ottobre 2019, la Suprema Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi in merito alla caparra penitenziale e all’assoggettamento o meno a tassazione della stessa quale plusvalenza ai fini IRPEF.

La vicenda ha ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento da parte di un contribuente al quale veniva contestata, in qualità di promittente venditore, una plusvalenza non dichiarata a seguito di un preliminare di vendita di due terreni, aventi destinazione agricola, senza tuttavia che si addivenisse alla stipula dell’atto definitivo di trasferimento, avendo il promittente acquirente (una società) esercitato il diritto di recesso, che aveva legittimato il contribuente ad incassare la somma già versata a titolo di caparra penitenziale.

Sia i giudici di primo grado che i giudici di secondo grado rigettavano le doglianze del contribuente, cosicché lo stesso provvedeva ad impugnare il giudicato di secondo grado innanzi alla Corte di Cassazione, contestando la violazione e falsa applicazione dell’articolo 67 lett. a) e b) del D.P.R. n. 917/1986 (TUIR), in relazione all’articolo 360, comma primo, n. 3 Codice procedura civile nonché la violazione e falsa applicazione dell’articolo 6, comma 2, del D.P.R. n. 917/1986, in relazione all’articolo 360, comma primo, n. 3 Codice procedura civile.

Orbene, i giudici di legittimità hanno accolto in toto il ricorso del contribuente, ritenendo fondati entrambi i motivi, così come sollevati nel ricorso.

In particolare, per quanto attiene al primo motivo, la Corte di Cassazione ha posto innanzitutto in evidenza come, nel caso di specie, non vi fosse stata alcuna vendita dei terreni, non essendo stato stipulato l’atto definitivo di vendita, e inoltre come i giudici di merito avessero errato nell’ipotizzare, in modo del tutto arbitrario, l’esistenza di una lottizzazione, allo stato degli atti non documentata.

Considerato che, nella fattispecie, si trattava di cessione di terreni di natura agricola, in nessun modo poteva applicarsi l’articolo 67, comma 1, lett. b), il quale, come noto, fa riferimento alla cessione di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria.

In relazione, invece, al secondo motivo di impugnazione, la Suprema Corte, dopo aver osservato che in relazione al primo motivo di ricorso, era esclusa in radice la possibilità di attribuire all'importo trattenuto dal promittente venditore, come caparra penitenziale per effetto dell'esercizio del diritto di recesso della società promittente acquirente, natura di "provento conseguito in sostituzione di reddito" (così come previsto dall’articolo 6, comma 2, del D.P.R. n. 917/1986, richiamato al precedente paragrafo), nella specie plusvalenza, quale reddito diverso, assoggettabile a tassazione, ha avuto modo di pronunciarsi nel seguente modo:

“Va in ogni caso chiarito che la soggezione a tassazione dell'importo comunque incassato dal promittente venditore non può essere affermata attribuendo alla caparra penitenziale una funzione risarcitoria che le è estranea, non potendosi al riguardo convenire con quanto invece esposto da Cass. sez. 5, 31 maggio 2016, n. 11307.

Non essendo in fatto contestato che nella fattispecie in esame l'incasso da parte del promittente venditore dell'importo di Euro 84.535,00, considerato dall'Ufficio come plusvalenza tassabile, si configuri come corrispettivo del diritto di recesso attribuito alla promittente acquirente e da quest'ultima esercitato, la chiara differenza sul piano testuale tra caparra penitenziale, disciplinata dall'articolo 1386 c.c. e clausola penale, di cui all'articolo 1382 c.c., anche in relazione alla caparra confirmatoria di cui all'articolo 1385 c.c., nonché' sul piano sistematico (cfr., per tutte, Cass. sez. 3, 16 maggio 2006, n. 11356), impedisce di considerare la caparra incamerata come risarcimento della perdita dei proventi che, per loro natura, avrebbero generato redditi tassabili in ragione del conseguimento di una plusvalenza (come invece ritenuto dalla citata Cass. n. 11307/16).”.

Alla luce di siffatta statuizione, la Corte di Cassazione ha, pertanto, finalmente chiarito che la caparra penitenziale, non essendo un provento conseguito in sostituzione di reddito e non avendo natura risarcitoria, al pari della caparra confirmatoria, non può generare redditi tassabili.