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La conciliazione camerale e l’arbitrato societario

Il Decreto Legislativo 5/2003 “Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge n. 366/2001”, rubricato in “Nuove forme di procedura”, ha introdotto nel nostro ordinamento nuove disposizioni in materia di arbitrato e di conciliazione.

Per le forme di conciliazione, l’intento del Legislatore è quello di disciplinare l’accesso ai sistemi di ADR, organizzati da enti pubblici o privati, e di porli in posizione concorrenziale ma paritetica gli uni con gli altri, sotto il controllo del Ministero di Grazia e Giustizia, presso il quale devono essere compiuti determinati adempimenti che abilitano allo svolgimento del servizio di cui in oggetto.

La conciliazione rientra tra gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, sia rispetto al giudice sia rispetto all’arbitro. E’ uno strumento abbastanza nuovo per il nostro ordinamento, poiché nella sua essenza è estremamente diverso da quella figura delineata dal Legislatore del codice di procedura civile del 1942.

La conciliazione può essere divisa in tre fattispecie differenti: quella che precede un procedimento contenzioso arbitrale o giudiziario; quella endoprocessuale, che avviene nel contesto di un procedimento arbitrale o giudiziario; e quella extra procedimentale, che avviene totalmente al di fuori di qualsiasi procedimento arbitrale o giudiziario.

Nei paesi in cui vige il sistema di Common Law la conciliazione viene apprezzata come strumento di componimento delle controversie, potenzialmente idoneo all’utilizzo in diversi campi di applicazione.

In Italia la conciliazione è stata utilizzata come elemento deflativo del contenzioso in essere o in stato potenziale. Tuttavia, al pari dell’arbitrato, la conciliazione non deve essere considerata come la “seconda scelta” del Legislatore per risolvere i mali della giustizia ordinaria.

Quando questa è praticata con competenza e professionalità, allora diventa strumento di risoluzione delle controversie di straordinaria importanza ed efficacia, visto che consente di addivenire ad esiti compositivi meno tradizionali e tendenzialmente più soddisfacenti e remunerativi per le parti. Nella conciliazione infatti non c’è parte che vince e quella che soccombe, ma piuttosto solo due, o più parti che hanno raggiunto un accordo totalmente soddisfacente.

La norma chiave che ha aperto la strada alla diffusione della conciliazione come metodo alternativo di risoluzione delle controversie è la Legge 580/93 che ha attribuito fondamentali competenze in materia conciliativa alle Camere di Commercio che, in forma singola o associata tra loro, possono promuovere la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e consumatori ed utenti. Ma anche la Legge 192/98 sulla subfornitura nelle attività produttive, la Legge 281/98 rubricata in disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, hanno imposto di fatto alle camere la creazione di commissioni conciliative ad hoc.

Non si può delineare un quadro completo delle iniziative legislative volte all’analisi dell’utilizzo dello strumento conciliativo quale mezzo utile per la risoluzione delle controversie, poiché in realtà sono svariati i contesti che caratterizzano l’adozione di tale strumento extragiudiziale, e in questa sede non sarebbe opportuno individuare ora l’uno ora l’altro ambito di applicazione o questa o quella proposta di legge.

Ciò che potrebbe portare le parti a scegliere di risolvere le controversie in materia societaria attraverso l’istituto della conciliazione sono molteplici ma, in particolare, l’opzione per la conciliazione amministrata da organismi, enti pubblici o soggetti privati, trova la sua origine nella necessità di un sistema rapido ed efficace e che, al contempo, permette la continuazione del rapporto tra le parti dopo la risoluzione del conflitto.

La soluzione consigliata è quella di ricorrere alla conciliazione amministrata che permette, in molti casi, di ovviare a problemi di interpretazione e/o di conoscenza degli strumenti giuridici degli operatori, ricorrendo a strutture all’uopo dedicate.

Come si diceva infatti esistono, a livello nazionale, all’interno di tutte le Camere di Commercio sportelli o camere di conciliazione, con uno o più regolamenti, dotate di uffici e strutture amministrative ad hoc, nonché conciliatori già formati, per fornire a tutti coloro che vi si rivolgono utili strumenti atti alla risoluzione delle controversie. Inoltre, per facilitare l’accesso alla conciliazione molte Camere hanno predisposto formulari utili alla conciliazione, utili in fase di predisposizione degli atti. Il loro lavoro insomma si sostanzia sulla falsariga delle cancellerie dei tribunali.

Il Decreto in oggetto disciplina, in primo luogo, proprio gli organismi deputati a gestire le domande di conciliazione e le relative procedure, in modo che questi, organizzati sia in forma di enti pubblici, sia sotto forma di enti privati, possano richiedere l’iscrizione in un registro, predisposto ad hoc presso il Ministero di Grazia e Giustizia, qualora rispondano a criteri di serietà ed efficienza, nonché di adeguatezza tecnico-giuridica.

Il ricorso alla conciliazione consente dunque alle parti di ottenere dei vantaggi dal punto di vista fiscale, visto che tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti del procedimento sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa o tassa o diritto di qualsiasi specie e natura. Il verbale di conciliazione poi va esente dall’imposta di registro entro un determinato limite di valore, da calcolarsi sulla base del verbale di conciliazione e non della domanda o delle domande formulate dalle parti.

Tale previsione è stata posta in essere proprio per evitare che la conciliazione venga utilizzata a fini elusivi, per evitare cioè che attraverso l’attivazione di controversie simulate si possa arrivare a realizzare in sede conciliativa un assetto di interessi uguale a quello che si potrebbe avere attraverso atti o contratti soggetti ad imposta di registro proporzionale.

In ogni caso, anche senza ricorrere ad una controversia simulata tra le parti, queste avrebbero comunque interesse a risolvere tale controversia attraverso conciliazione, anziché mediante una transazione che, ove prevedesse in capo ad una delle parti il pagamento di una somma di denaro, andrebbe comunque soggetta al pagamento di una imposta nella misura del 3%.

Tuttavia il Legislatore, nell’intento di evitare possibili patologie nell’utilizzo dello strumento conciliativo in sede societaria, pare essersi dimenticato che, in un altro provvedimento normativo, che ha introdotto il contributo unificato, ha previsto l’esenzione dell’imposta di registro dei verbali di conciliazione giudiziale di valore non superiore ai 100 milioni vecchio conio, come previsto dall’art.9 della L. 488/1999.

Il cuore della conciliazione stragiudiziale sta nell’art. 40 che disciplina in modo approfondito il procedimento.

La predisposizione dei regolamenti che devono comunque sempre salvaguardare la completa riservatezza della procedura e l’imparzialità della nomina dei conciliatori. Tali principi devono essere considerati alla stregua di dogmi religiosi, vuoi per la credibilità dello strumento giuridico, vuoi per la credibilità dell’ente che gestisce la procedura conciliativa.

La figura del conciliatore è assolutamente fondamentale per la buona riuscita della procedura, ed il suo ruolo direi che è assai più complesso di quello di un giudice, o di un arbitro. In ogni caso infatti questo dovrà garantire la sua imparzialità, neutralità ed indipendenza rispetto alle parti in lite. In base agli attuali regolamenti di conciliazione, tali requisiti deontologici, oltre naturalmente quello della capacità tecnico-giuridica, dovrebbero essere assicurati o da un controllo dell’ente sul comportamento globale del soggetto designato alla composizione, ovvero tramite la sottoscrizione da parte del conciliatore di una apposita dichiarazione denominata “dichiarazione di indipendenza”.

Per quanto attiene invece alla nomina dei conciliatori, ex art. 40 comma 1, viene tutto l’iter demandato ai regolamenti. Solitamente, la nomina avviene ad opera di Commissioni create ad hoc, in base ai regolamenti interni della struttura cui si presenta la domanda.

A tutt’oggi è possibile che un ente abbia più Commissioni ove, oltre alla conciliazione obbligatoria ex lege 192/98, abbia un regolamento o gestisca conciliazioni facoltative ex lege 580/93, ovvero conciliazioni tra imprese e consumatori ex lege 281/98.

Per quanto poi riguarda nello specifico la Legge sulla subfornitura, ed il suo tentativo obbligatorio di conciliazione, si deve evidenziare che, ove questo fallisca, le parti hanno la possibilità di rimettere la controversia in arbitrato, eventualmente amministrato, presso la camera arbitrale della stessa Camera di Commercio dove si è svolta la procedura conciliativa. In tale eventualità, l’istituzione potrà ricoprire un ruolo molto importante nella designazione dell’organo giudicante, cioè gli arbitri.

Le modalità di questi poi potrebbero stabilirsi in un tempo precedente, attraverso un accordo conciliativo arbitrale, siglato dalle parti nel contratto di subfornitura o in un atto separato.

Per quanto riguarda la procedura di conciliazione, il Decreto indica due diverse possibilità.

La prima è costituita dall’introduzione, all’interno dei contratti e degli statuti, di una clausola che preveda appunto il ricorso alla conciliazione in caso di lite.

Ciò è un interessante punto di novità, soprattutto in ambito societario, dove, fino ad oggi, gli statuti molto raramente fanno riferimento alla conciliazione come mezzo per la risoluzione delle controversie, privilegiando invece il ricorso all’arbitrato. Tuttavia, occorre sottolineare che la conciliazione e l’arbitrato non sono tra loro strumenti incompatibili, anzi l’arbitrato non è che la logica conseguenza del mancato raggiungimento di un accordo cercato in sede conciliativa.

Nella prassi, in ogni caso, sarebbe opportuno prevedere a livello statuale due clausole; una conciliativa ed una arbitrale, tra loro rigorosamente separate.

Infatti, la predisposizione di una singola ed unica clausola, seppur ammissibile in via astratta e non ostativa in termini giuridici, potrebbe però rischiare di esporre la società a problemi pratici ed applicativi di non poco conto.

Ad esempio, non sarebbe consentito ai conciliatori di svolgere anche funzioni arbitrali, in caso di fallimento del tentativo di conciliazione, senza violare i più elementari canoni deontologici e regolamentari!

Un’altra possibilità concessa alle parti per accedere alla conciliazione è data dall’incontro della volontà comune di utilizzare tale strumento per la composizione del conflitto.

In un prossimo futuro i regolamenti daranno alla parte interessata alla conciliazione la possibilità di presentare la propria domanda di conciliazione ed un ente amministratore il quale procederà ad invitare la parte convenuta a presenziare alla procedura conciliativa.

In ordine a ciò, per quanto previsto dall’art. 40 comma 6, qualora tale clausola di conciliazione venga inserita all’interno di un contratto o odi uno statuto di una società, in mancanza dell’esperimento del tentativo di conciliazione, la parte convenuta potrà sollevare eccezione nel proprio scritto difensivo.

Il giudice, in tal caso, dovrà sospendere il procedimento pendente e contestualmente fissare un termine perentorio per la presentazione dell’istanza di conciliazione avanti ad un organismo di conciliazione.

In caso di mancato deposito di tale istanza, la parte interessata avrà la possibilità di riassumere il procedimento innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria. Qualora poi il tentativo di conciliazione non riesca, il verbale di conciliazione dovrà essere allegato all’istanza di riassunzione. Comunque, in ogni caso, la causa di sospensione del procedimento ordinario si intende cessata ai sensi

dell’art. 297, comma 1 c.p.c..

L’art. 40 non fornisce alcuna disciplina di raccordo tra le disposizioni in materia di conciliazione e quelle in materia di arbitrato. Sembrerebbe logico comunque presupporre che le norme comunque esaminate trovassero applicazione anche nell’ambito di un procedimento arbitrale.

Da ultimo, per quanto attiene agli effetti processuali, in base alla previsione normativa di cui all’art.40, comma 4, l’istanza di conciliazione proposta innanzi agli organi competenti porta agli stessi effetti della domanda giudiziale e della domanda esperita per via arbitrale, ai fini della interruzione della prescrizione.

Tuttavia, qualora la conciliazione dovesse avere esito negativo, la domanda in sede arbitrale o in sede ordinaria dovrà essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal deposito del verbale di mancata conciliazione.

Per quanto attiene poi alla durata del procedimento, nel silenzio del decreto, si può ipotizzare che questa possa prolungarsi fra i trenta e i sessanta giorni, attualmente infatti una conciliazione deve concludersi nell’arco di una riunione, al massimo due, ovvero in quel diverso termine previsto esplicitamente dalla legge per le conciliazioni speciali, cioè 30 giorni come previsto dalla legge per la subfornitura e 60 giorni come previsto dalla legge sui consumatori.

La conciliazione, in caso di chiusura positiva, termina con il verbale sottoscritto dalle parti e dal conciliatore.

Tale verbale è suscettibile di ottenere efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, mediante il procedimento di omologazione con decreto da parte del Presidente del tribunale del circondario ove ha sede l’ente che ha amministrato la conciliazione.

Nell’ipotesi in cui il tentativo produca esito negativo, poiché le parti non raggiungono l’accordo il procedimento si conclude con la proposta rispetto alla quale ciascuna delle parti indica la propria definitiva posizione, ovvero le condizioni alle quali sarebbe disposta a conciliare.

Il conciliatore dà atto in apposito verbale di tale situazione, della fallita conciliazione, delle rispettive posizioni finali e sottoscritto il verbale consegna copia alle parti, altresì, in apposito separato verbale, il conciliatore darà atto della mancata adesione di una parte all’esperimento del tentativo di conciliazione.

Tale verbale di mancata conciliazione è particolarmente importante perché il giudicante potrà valutare nel giudizio promosso innanzi a lui ai fini della decisione sulle spese processuali, anche a titolo di responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c.. Ciò sta a significare che il giudice ben potrebbe escludere in tutto o in parte la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice e/o condannarla al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente, qualora ritenga che abbia rifiutato in maniera ingiustificata la proposta conciliativa.

L’attuale impostazione di tipo sanzionatorio però mal si attaglia con l’originario modello di conciliazione di stampo anglosassone, e rischia, alla lunga, di disincentivare il ricorso alla conciliazione. Uno dei punti di forza infatti della conciliazione sta proprio nella sua totale indipendenza da un eventuale ricorso all’autorità giudiziaria, sulla discrezione e sulla riservatezza, sulla certezza che delle attività svolte nell’ambito del procedimento di conciliazione nessuna possa essere portata in sede giudiziaria.

Passando all’arbitrato poi, i vantaggi della risoluzione arbitrale delle controversie sono noti, tuttavia uno dei punti deboli dell’arbitrato si verifica quando una pluralità di parti sia interessata alla decisione della controversia. Qui l’arbitrato è sicuramente un istituto svantaggiato rispetto alla ordinaria giurisdizione; in primo luogo perché il potere decisorio degli arbitri deriva dalla volontà degli interessati, e quindi bisogna che tutte le parti siano vincolate dal patto compromissorio; in secondo luogo perché nella formazione del collegio arbitrale, o più in generale, nella nomina degli arbitri, occorre che tutte le parti si trovino in una situazione di parità, in modo che il collegio arbitrale non sia espressione di una di queste.

Dando per scontato la prima ipotesi, in mancanza della quale sarebbe del tutto inutile il nostro ragionamento, poniamo invece l’attenzione sulla seconda ipotesi di lavoro.

Risulta evidente che ogni problema sarebbe risolto se il patto commissorio prevedesse la nomina di un arbitro unico: in tal caso, essendo necessario il consenso di tutti gli interessati, il numero di questi non rileva, poiché tutti concorrono in ugual misura all’individuazione dell’arbitro.

Nello stesso modo, nessuna difficoltà si pone quando nell’arbitrato sono presenti più parti, ove l’arbitro o il collegio arbitrale sia precostituito, oppure quando la scelta di questo sia rimessa totalmente nelle mani di un terzo. In tale caso semmai il problema è diverso; assicurare che il collegio precostituito, o il terzo cui viene demandato il compito di nomina, sia effettivamente equidistante dagli interessi in conflitto. Ma questa, a ben guardare, è un esigenza viva in qualsiasi tipo di arbitrato!

Nel caso di arbitrato precostituito non sempre è possibile individuare a priori i soggetti che saranno investiti della futura controversia, o anche perché la scelta degli arbitri ad opera degli interessati costituisce un importante elemento dell’istituto dell’arbitrato. La rinuncia delle parti all’individuazione del soggetto arbitrante può essere certo vista come un male minore, ma certe volte la possibilità di determinare la composizione del collegio arbitrale può essere conservata pur in presenza di un arbitrato che interessi più soggetti.

In tale ottica si devono esaminare sempre in maniera approfondita le condizioni in virtù delle quali la scelta degli arbitri possa essere conservata in capo alle parti anche se siamo in presenza di una controversia multilaterale, in modo che l’opzione in sede di stipula del patto compromissorio, per una delle soluzione sopra individuate, costituisca una consapevole scelta fra le più alternative, e non una necessità che gli interessati hanno dovuto, in qualche modo, digerire e che devono accettare se vogliono assicurarsi la possibilità di decidere la controversia in sede arbitrale.

Di conseguenza, le due alternative che si pongono, in sede di patto commissorio, per la determinazione delle modalità di nomina degli arbitri, sono il conferimento all’attore del potere di nomina dell’arbitro, ed al convenuto del potere di nomina dell’altro arbitro. Il terzo sarà scelto di comune accordo tra le parti o dagli stessi arbitri prescelti (la c.d. clausola binaria), ovvero il conferimento a ciascun interessato del potere di nomina di un arbitro.

Come risulta evidente quindi la nuova normativa crea una species arbitrale che, non sostituendosi al modello codicistico, crea importanti innovazioni, anche di natura processuale, che la avvicinano alla giustizia ordinaria.

Tra le novità più significative si segnala l’ampliamento dei soggetti nei confronti dei quali produrrà efficacia la pronuncia arbitrale, l’ammissibilità dell’intervento volontario anche di terzi estranei alla clausola arbitrale e dell’intervento coatto degli altri soci, l’estensione dei poteri in capo agli arbitri e delle materie su cui questi saranno chiamati a pronunciarsi.

Il Legislatore, con il Decreto in questione, ha creato, secondo alcuni interpreti, un particolare tipo di arbitrato che alcuni hanno definito “fantasma di giurisdizione speciale”.

Ci si è chiesti allora se, a fianco di questa legislazione speciale, si possano configurare anche ipotesi di arbitrato societario regolato dal solo diritto comune.

L’art. 12 della legge delega ha autorizzato a legiferare in materia di clausola compromissoria statutaria e da questo input il legislatore si è mosso.

Tuttavia, questi non ha toccato la possibilità di prevedere un arbitrato societario fondato su un accordo diverso da una clausola compromissoria statutaria. Di conseguenza, la nuova normativa si applica alle clausole compromissorie statutarie, mentre per le clausole compromissorie contenute nei patti parasociali, in negozi di trasferimento di partecipazioni societarie, nonché per i compromessi a lite insorta, si applica la normativa prevista dal diritto comune.

L’intento del Legislatore è stato quello di tutelare al massimo il gruppo sociale, rafforzando e legittimando lo strumento di tutela del gruppo, la clausola compromissoria statuale appunto, attribuendo a questo tipo di arbitrato la stessa efficacia di quello del giudizio statuale, sia pure con parziale limitazione dell’autonomia del singolo.

Così il Legislatore ha riconosciuto la possibilità per gli arbitri di concedere misure cautelari, limitatamente alla sospensione delle delibere assembleari, ha previsto la possibilità di intervento volontario di terzi, l’intervento coatto dei soci, ha consentito agli arbitri la possibilità di affrontare questioni in materie non compromettibili, ha esteso agli arbitri la competenza a decidere su materie riservate fin d’ora al giudice statale, quali ad esempio, le controversie avanti ad oggetto la validità delle delibere assembleari, ovvero la responsabilità di sindaci, amministratori e liquidatori.

Si può quindi considerare che la nuova disciplina tende a diminuire l’autonomia del singolo a vantaggio del gruppo sociale, con il conseguente impoverimento di differenze con la giustizia ordinaria.

L’affievolimento delle differenze rispetto alla giustizia statuale e la prevalente tutela del gruppo, rispetto alla tutela del singolo, sono confermate dall’altra parte dall’ampliamento dei soggetti nei confronti dei quali il procedimento arbitrale ed il relativo giudizio possono aver efficacia, nonché dall’estensione delle materie di competenza degli arbitri.

Con riguardo a tale aspetto, la clausola compromissoria statutaria è vincolante per i soci e le società, inclusi coloro in riguardo ai quali la qualità è oggetto di controversia, ex artt. 34 e 35.

Con riguardo ai soci infatti gli esperti si sono posti un dubbio: tale disposizione deve comprendere anche i soci subentranti ed i soci occulti e se, con la locuzione oggetto di controversia, si debba intendere qualsiasi tipo di controversia ovvero solo quella collegata a norme statutarie?

Per quanto attiene al primo quesito, pare potersi comprendere sia il socio succeduto che il socio aggiunto. Entrambi infatti dovranno sottostare alle regole che la compagine sociale si è data.

Con riguardo al secondo quesito, pare essere conforme allo spirito legislativo l’interpretazione secondo la quale le controversie oggetto del giudizio arbitrale sono solo quelle collegate a norme statutarie. Nel caso in cui queste trovino origine in un patto parasociale o in un contratto di cessione di quote societarie, dovranno essere regolate da apposita clausola compromissoria, non potendosi richiamare quella statutaria che limita i suoi effetti ai soli appartenenti al gruppo.

Parti del giudizio arbitrale potranno essere poi gli amministratori, i liquidatori, i sindaci, in quanto la clausola compromissoria statutaria, che potrà comprendere anche tali tipi di controversie, sarà vincolante nei confronti di tali organi societari.

Una cosa è chiara: l’accettazione dell’incarico potrebbe rappresentare una implicita sottomissione alla legge del gruppo. In tal senso si ritiene che, qualora vi fosse una modifica statutaria che introducesse una clausola compromissoria, gli organi sociali che avevano accettato la carica in base al precedente statuto, potrebbero rinunciare all’incarico a suo tempo conferito.

Nel silenzio della legge, è possibile estendere la previsione di cui all’art. 34, 4 comma, anche ai consigli di gestione, ai consigli di sorveglianza, ai revisori, ovvero alle società di revisione, nominati ex artt. 2477 e 2409 bis c.c., per le s.r.l. e per le s.p.a.?

Proseguendo l’analisi si deve precisare che il Legislatore non distingue tra i diversi tipi di società, quindi si fa riferimento in tutte le analisi alle società commerciali tout court, con la sola esclusione delle società che fanno ricorso al capitale di rischio, ciò per espressa previsione dell’art. 34, comma 1.

Tuttavia l’esperienza dimostra che l’arbitrato è un mezzo ormai utilizzato anche quando il capitale è ampiamente diffuso. Non sarebbe concretamente ipotizzabile un rischio che i singoli soci siano convenuti in arbitrato dalla società e da altri soci posto che, nelle quotate, le azioni devono essere interamente liberate e che gli statuti delle società ammesse in mercati regolamentati non possano contenere clausole di prelazione e/o di gradimento.

La rapidità di tale procedimento, rispetto al percorso attraverso giustizia ordinaria, avrebbe potuto essere un vantaggio anche per le società che fanno ricorso al capitale di rischio, visto che tale rapidità ben si sposa con le esigenze correlate all’andamento dei titoli e, più in generale, con il mercato specifico cui tali società fanno riferimento.

In che limite il lodo potrà essere vincolante per la società?

Autorevole dottrina ritiene che il lodo possa esplicare la sua efficacia nei confronti della società nella misura in cui questa potrebbe subire un atto di disposizione negoziale delle parti.

In tale ottica si vuole estendere l’efficacia del lodo non solo nei confronti della società, ma anche nei confronti dei soci che non hanno partecipato al lodo, sostenendo che comunque a questi ultimi viene offerta la possibilità di intervenire, di essere chiamati e di proporre opposizione di terzo.

Un ultimo argomento che vorrei analizzare è l’ampliamento delle materie nell’arbitrato societario, come disciplinato dagli artt. 34, 35, 36.

L’art. 34 anzitutto afferma che le clausole compromissorie dovranno avere per oggetto diritti disponibili, relativamente all’oggetto sociale.

Tale affermazione introduce due problemi: a) cosa si intende per diritti relativi al rapporto sociale, e b) la natura dei diritti disponibili.

Sub a) si è sostenuto che si possono definire in arbitrato sia le controversie relative all’oggetto sociale, sia quelle che hanno ad oggetto un diritto che nasce o è comunque connesso a tale rapporto.

Sub b) il Legislatore solo apparentemente non ha utilizzato la delega , nella parte in cui attribuiva al Governo la possibilità di prevedere le clausole compromissorie statutarie, anche in relazione a questioni che non possono formare oggetto di transazione, alcuni interpretano poi che comunque l’arbitrato sia sempre connesso alla disponibilità dei diritti, ancorché possa conoscere incidenter tantum questioni non compromettibili, ma anche poi decidere su questioni inerenti alla validità delle delibere assembleari, in relazioni alle quali si è riconosciuto agli arbitri anche il potere di sospendere la delibera impugnata. Il lodo deve essere secondo diritto, la pronuncia sarà comunque impugnabile ex art. 829 e seg. c.p.c..

Il riferimento operato dal Legislatore ai diritti disponibili e alle questioni non compromettibili, ha generato un dibattimento in merito all’oggetto dell’arbitrato societario.

Prima della riforma la distinzione tra diritti disponibili e diritti indisponibili era basata sulla differenza tra diritti che sono protetti dall’ordinamento giuridico con norme dispositive e diritti salvaguardati da norme imperative a tutela dell’interesse non del singolo, ma della collettività.

Da questo ragionamento ne discesero pronunce che non ritenevano, ad esempio, arbitrabile la controversia attinente la contrarietà del bilancio alla effettiva situazione patrimoniale, o quella relativa alla nullità delle delibere assembleari, o allo scioglimento della società.

Il richiamo così operato dal Legislatore sia a i diritti disponibili sia alla questioni non compromettibili in arbitrato non sembra aver risolto i dubbi esistenti ante riforma, come dimostrano i contrasti interpretativi sorti in dottrina successivamente all’introduzione dell’arbitrato societario.

Infatti, parte della dottrina ha ravvisato nel concetto di transigibilità il criterio per delineare le materie oggetto dell’arbitrato, anziché quello della disponibilità/derogabilità, ancora sostenuto da parte della dottrina.

In conclusione, il Legislatore pare orientato verso una strada assolutamente giusta; ampliare cioè l’oggetto dell’arbitrato per cercare di snellire i compiti dei tribunali e di giurisdizionalizzare l’istituto dell’arbitrato in un ottica che garantisca per il gruppo sociale unitamente inteso. Si richiama la recente ordinanza della Corte Costituzionale che ha confermato la legittimazione dei collegi arbitrali a sollevare questioni di legittimità costituzionale di una legge o di un dato avente forza di legge, sostanzialmente parificando gli arbitri alla giurisdizione ordinaria.

L’applicazione di norme processuali comunque difficilmente potrà adattarsi alla libertà delle forme, propria del procedimento arbitrale, ed in riferimento sia ai diritti disponibili sia alle questioni non compromettibili in arbitrato, ciò potrebbero scaturire pronunce in contrasto tra loro, perché fondate su concetti incerti dell’indisponibilità e della inderogabilità dei diritti con il conseguente rischio di non realizzare, in concreto, le finalità che il Legislatore intendeva conseguire con tale riforma.

Il Decreto Legislativo 5/2003 “Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell’articolo 12 della legge n. 366/2001”, rubricato in “Nuove forme di procedura”, ha introdotto nel nostro ordinamento nuove disposizioni in materia di arbitrato e di conciliazione.

Per le forme di conciliazione, l’intento del Legislatore è quello di disciplinare l’accesso ai sistemi di ADR, organizzati da enti pubblici o privati, e di porli in posizione concorrenziale ma paritetica gli uni con gli altri, sotto il controllo del Ministero di Grazia e Giustizia, presso il quale devono essere compiuti determinati adempimenti che abilitano allo svolgimento del servizio di cui in oggetto.

La conciliazione rientra tra gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, sia rispetto al giudice sia rispetto all’arbitro. E’ uno strumento abbastanza nuovo per il nostro ordinamento, poiché nella sua essenza è estremamente diverso da quella figura delineata dal Legislatore del codice di procedura civile del 1942.

La conciliazione può essere divisa in tre fattispecie differenti: quella che precede un procedimento contenzioso arbitrale o giudiziario; quella endoprocessuale, che avviene nel contesto di un procedimento arbitrale o giudiziario; e quella extra procedimentale, che avviene totalmente al di fuori di qualsiasi procedimento arbitrale o giudiziario.

Nei paesi in cui vige il sistema di Common Law la conciliazione viene apprezzata come strumento di componimento delle controversie, potenzialmente idoneo all’utilizzo in diversi campi di applicazione.

In Italia la conciliazione è stata utilizzata come elemento deflativo del contenzioso in essere o in stato potenziale. Tuttavia, al pari dell’arbitrato, la conciliazione non deve essere considerata come la “seconda scelta” del Legislatore per risolvere i mali della giustizia ordinaria.

Quando questa è praticata con competenza e professionalità, allora diventa strumento di risoluzione delle controversie di straordinaria importanza ed efficacia, visto che consente di addivenire ad esiti compositivi meno tradizionali e tendenzialmente più soddisfacenti e remunerativi per le parti. Nella conciliazione infatti non c’è parte che vince e quella che soccombe, ma piuttosto solo due, o più parti che hanno raggiunto un accordo totalmente soddisfacente.

La norma chiave che ha aperto la strada alla diffusione della conciliazione come metodo alternativo di risoluzione delle controversie è la Legge 580/93 che ha attribuito fondamentali competenze in materia conciliativa alle Camere di Commercio che, in forma singola o associata tra loro, possono promuovere la costituzione di commissioni arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e consumatori ed utenti. Ma anche la Legge 192/98 sulla subfornitura nelle attività produttive, la Legge 281/98 rubricata in disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, hanno imposto di fatto alle camere la creazione di commissioni conciliative ad hoc.

Non si può delineare un quadro completo delle iniziative legislative volte all’analisi dell’utilizzo dello strumento conciliativo quale mezzo utile per la risoluzione delle controversie, poiché in realtà sono svariati i contesti che caratterizzano l’adozione di tale strumento extragiudiziale, e in questa sede non sarebbe opportuno individuare ora l’uno ora l’altro ambito di applicazione o questa o quella proposta di legge.

Ciò che potrebbe portare le parti a scegliere di risolvere le controversie in materia societaria attraverso l’istituto della conciliazione sono molteplici ma, in particolare, l’opzione per la conciliazione amministrata da organismi, enti pubblici o soggetti privati, trova la sua origine nella necessità di un sistema rapido ed efficace e che, al contempo, permette la continuazione del rapporto tra le parti dopo la risoluzione del conflitto.

La soluzione consigliata è quella di ricorrere alla conciliazione amministrata che permette, in molti casi, di ovviare a problemi di interpretazione e/o di conoscenza degli strumenti giuridici degli operatori, ricorrendo a strutture all’uopo dedicate.

Come si diceva infatti esistono, a livello nazionale, all’interno di tutte le Camere di Commercio sportelli o camere di conciliazione, con uno o più regolamenti, dotate di uffici e strutture amministrative ad hoc, nonché conciliatori già formati, per fornire a tutti coloro che vi si rivolgono utili strumenti atti alla risoluzione delle controversie. Inoltre, per facilitare l’accesso alla conciliazione molte Camere hanno predisposto formulari utili alla conciliazione, utili in fase di predisposizione degli atti. Il loro lavoro insomma si sostanzia sulla falsariga delle cancellerie dei tribunali.

Il Decreto in oggetto disciplina, in primo luogo, proprio gli organismi deputati a gestire le domande di conciliazione e le relative procedure, in modo che questi, organizzati sia in forma di enti pubblici, sia sotto forma di enti privati, possano richiedere l’iscrizione in un registro, predisposto ad hoc presso il Ministero di Grazia e Giustizia, qualora rispondano a criteri di serietà ed efficienza, nonché di adeguatezza tecnico-giuridica.

Il ricorso alla conciliazione consente dunque alle parti di ottenere dei vantaggi dal punto di vista fiscale, visto che tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti del procedimento sono esenti dall’imposta di bollo e da ogni spesa o tassa o diritto di qualsiasi specie e natura. Il verbale di conciliazione poi va esente dall’imposta di registro entro un determinato limite di valore, da calcolarsi sulla base del verbale di conciliazione e non della domanda o delle domande formulate dalle parti.

Tale previsione è stata posta in essere proprio per evitare che la conciliazione venga utilizzata a fini elusivi, per evitare cioè che attraverso l’attivazione di controversie simulate si possa arrivare a realizzare in sede conciliativa un assetto di interessi uguale a quello che si potrebbe avere attraverso atti o contratti soggetti ad imposta di registro proporzionale.

In ogni caso, anche senza ricorrere ad una controversia simulata tra le parti, queste avrebbero comunque interesse a risolvere tale controversia attraverso conciliazione, anziché mediante una transazione che, ove prevedesse in capo ad una delle parti il pagamento di una somma di denaro, andrebbe comunque soggetta al pagamento di una imposta nella misura del 3%.

Tuttavia il Legislatore, nell’intento di evitare possibili patologie nell’utilizzo dello strumento conciliativo in sede societaria, pare essersi dimenticato che, in un altro provvedimento normativo, che ha introdotto il contributo unificato, ha previsto l’esenzione dell’imposta di registro dei verbali di conciliazione giudiziale di valore non superiore ai 100 milioni vecchio conio, come previsto dall’art.9 della L. 488/1999.

Il cuore della conciliazione stragiudiziale sta nell’art. 40 che disciplina in modo approfondito il procedimento.

La predisposizione dei regolamenti che devono comunque sempre salvaguardare la completa riservatezza della procedura e l’imparzialità della nomina dei conciliatori. Tali principi devono essere considerati alla stregua di dogmi religiosi, vuoi per la credibilità dello strumento giuridico, vuoi per la credibilità dell’ente che gestisce la procedura conciliativa.

La figura del conciliatore è assolutamente fondamentale per la buona riuscita della procedura, ed il suo ruolo direi che è assai più complesso di quello di un giudice, o di un arbitro. In ogni caso infatti questo dovrà garantire la sua imparzialità, neutralità ed indipendenza rispetto alle parti in lite. In base agli attuali regolamenti di conciliazione, tali requisiti deontologici, oltre naturalmente quello della capacità tecnico-giuridica, dovrebbero essere assicurati o da un controllo dell’ente sul comportamento globale del soggetto designato alla composizione, ovvero tramite la sottoscrizione da parte del conciliatore di una apposita dichiarazione denominata “dichiarazione di indipendenza”.

Per quanto attiene invece alla nomina dei conciliatori, ex art. 40 comma 1, viene tutto l’iter demandato ai regolamenti. Solitamente, la nomina avviene ad opera di Commissioni create ad hoc, in base ai regolamenti interni della struttura cui si presenta la domanda.

A tutt’oggi è possibile che un ente abbia più Commissioni ove, oltre alla conciliazione obbligatoria ex lege 192/98, abbia un regolamento o gestisca conciliazioni facoltative ex lege 580/93, ovvero conciliazioni tra imprese e consumatori ex lege 281/98.

Per quanto poi riguarda nello specifico la Legge sulla subfornitura, ed il suo tentativo obbligatorio di conciliazione, si deve evidenziare che, ove questo fallisca, le parti hanno la possibilità di rimettere la controversia in arbitrato, eventualmente amministrato, presso la camera arbitrale della stessa Camera di Commercio dove si è svolta la procedura conciliativa. In tale eventualità, l’istituzione potrà ricoprire un ruolo molto importante nella designazione dell’organo giudicante, cioè gli arbitri.

Le modalità di questi poi potrebbero stabilirsi in un tempo precedente, attraverso un accordo conciliativo arbitrale, siglato dalle parti nel contratto di subfornitura o in un atto separato.

Per quanto riguarda la procedura di conciliazione, il Decreto indica due diverse possibilità.

La prima è costituita dall’introduzione, all’interno dei contratti e degli statuti, di una clausola che preveda appunto il ricorso alla conciliazione in caso di lite.

Ciò è un interessante punto di novità, soprattutto in ambito societario, dove, fino ad oggi, gli statuti molto raramente fanno riferimento alla conciliazione come mezzo per la risoluzione delle controversie, privilegiando invece il ricorso all’arbitrato. Tuttavia, occorre sottolineare che la conciliazione e l’arbitrato non sono tra loro strumenti incompatibili, anzi l’arbitrato non è che la logica conseguenza del mancato raggiungimento di un accordo cercato in sede conciliativa.

Nella prassi, in ogni caso, sarebbe opportuno prevedere a livello statuale due clausole; una conciliativa ed una arbitrale, tra loro rigorosamente separate.

Infatti, la predisposizione di una singola ed unica clausola, seppur ammissibile in via astratta e non ostativa in termini giuridici, potrebbe però rischiare di esporre la società a problemi pratici ed applicativi di non poco conto.

Ad esempio, non sarebbe consentito ai conciliatori di svolgere anche funzioni arbitrali, in caso di fallimento del tentativo di conciliazione, senza violare i più elementari canoni deontologici e regolamentari!

Un’altra possibilità concessa alle parti per accedere alla conciliazione è data dall’incontro della volontà comune di utilizzare tale strumento per la composizione del conflitto.

In un prossimo futuro i regolamenti daranno alla parte interessata alla conciliazione la possibilità di presentare la propria domanda di conciliazione ed un ente amministratore il quale procederà ad invitare la parte convenuta a presenziare alla procedura conciliativa.

In ordine a ciò, per quanto previsto dall’art. 40 comma 6, qualora tale clausola di conciliazione venga inserita all’interno di un contratto o odi uno statuto di una società, in mancanza dell’esperimento del tentativo di conciliazione, la parte convenuta potrà sollevare eccezione nel proprio scritto difensivo.

Il giudice, in tal caso, dovrà sospendere il procedimento pendente e contestualmente fissare un termine perentorio per la presentazione dell’istanza di conciliazione avanti ad un organismo di conciliazione.

In caso di mancato deposito di tale istanza, la parte interessata avrà la possibilità di riassumere il procedimento innanzi all’autorità giudiziaria ordinaria. Qualora poi il tentativo di conciliazione non riesca, il verbale di conciliazione dovrà essere allegato all’istanza di riassunzione. Comunque, in ogni caso, la causa di sospensione del procedimento ordinario si intende cessata ai sensi

dell’art. 297, comma 1 c.p.c..

L’art. 40 non fornisce alcuna disciplina di raccordo tra le disposizioni in materia di conciliazione e quelle in materia di arbitrato. Sembrerebbe logico comunque presupporre che le norme comunque esaminate trovassero applicazione anche nell’ambito di un procedimento arbitrale.

Da ultimo, per quanto attiene agli effetti processuali, in base alla previsione normativa di cui all’art.40, comma 4, l’istanza di conciliazione proposta innanzi agli organi competenti porta agli stessi effetti della domanda giudiziale e della domanda esperita per via arbitrale, ai fini della interruzione della prescrizione.

Tuttavia, qualora la conciliazione dovesse avere esito negativo, la domanda in sede arbitrale o in sede ordinaria dovrà essere proposta entro il medesimo termine di decadenza decorrente dal deposito del verbale di mancata conciliazione.

Per quanto attiene poi alla durata del procedimento, nel silenzio del decreto, si può ipotizzare che questa possa prolungarsi fra i trenta e i sessanta giorni, attualmente infatti una conciliazione deve concludersi nell’arco di una riunione, al massimo due, ovvero in quel diverso termine previsto esplicitamente dalla legge per le conciliazioni speciali, cioè 30 giorni come previsto dalla legge per la subfornitura e 60 giorni come previsto dalla legge sui consumatori.

La conciliazione, in caso di chiusura positiva, termina con il verbale sottoscritto dalle parti e dal conciliatore.

Tale verbale è suscettibile di ottenere efficacia di titolo esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, mediante il procedimento di omologazione con decreto da parte del Presidente del tribunale del circondario ove ha sede l’ente che ha amministrato la conciliazione.

Nell’ipotesi in cui il tentativo produca esito negativo, poiché le parti non raggiungono l’accordo il procedimento si conclude con la proposta rispetto alla quale ciascuna delle parti indica la propria definitiva posizione, ovvero le condizioni alle quali sarebbe disposta a conciliare.

Il conciliatore dà atto in apposito verbale di tale situazione, della fallita conciliazione, delle rispettive posizioni finali e sottoscritto il verbale consegna copia alle parti, altresì, in apposito separato verbale, il conciliatore darà atto della mancata adesione di una parte all’esperimento del tentativo di conciliazione.

Tale verbale di mancata conciliazione è particolarmente importante perché il giudicante potrà valutare nel giudizio promosso innanzi a lui ai fini della decisione sulle spese processuali, anche a titolo di responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96 c.p.c.. Ciò sta a significare che il giudice ben potrebbe escludere in tutto o in parte la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice e/o condannarla al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente, qualora ritenga che abbia rifiutato in maniera ingiustificata la proposta conciliativa.

L’attuale impostazione di tipo sanzionatorio però mal si attaglia con l’originario modello di conciliazione di stampo anglosassone, e rischia, alla lunga, di disincentivare il ricorso alla conciliazione. Uno dei punti di forza infatti della conciliazione sta proprio nella sua totale indipendenza da un eventuale ricorso all’autorità giudiziaria, sulla discrezione e sulla riservatezza, sulla certezza che delle attività svolte nell’ambito del procedimento di conciliazione nessuna possa essere portata in sede giudiziaria.

Passando all’arbitrato poi, i vantaggi della risoluzione arbitrale delle controversie sono noti, tuttavia uno dei punti deboli dell’arbitrato si verifica quando una pluralità di parti sia interessata alla decisione della controversia. Qui l’arbitrato è sicuramente un istituto svantaggiato rispetto alla ordinaria giurisdizione; in primo luogo perché il potere decisorio degli arbitri deriva dalla volontà degli interessati, e quindi bisogna che tutte le parti siano vincolate dal patto compromissorio; in secondo luogo perché nella formazione del collegio arbitrale, o più in generale, nella nomina degli arbitri, occorre che tutte le parti si trovino in una situazione di parità, in modo che il collegio arbitrale non sia espressione di una di queste.

Dando per scontato la prima ipotesi, in mancanza della quale sarebbe del tutto inutile il nostro ragionamento, poniamo invece l’attenzione sulla seconda ipotesi di lavoro.

Risulta evidente che ogni problema sarebbe risolto se il patto commissorio prevedesse la nomina di un arbitro unico: in tal caso, essendo necessario il consenso di tutti gli interessati, il numero di questi non rileva, poiché tutti concorrono in ugual misura all’individuazione dell’arbitro.

Nello stesso modo, nessuna difficoltà si pone quando nell’arbitrato sono presenti più parti, ove l’arbitro o il collegio arbitrale sia precostituito, oppure quando la scelta di questo sia rimessa totalmente nelle mani di un terzo. In tale caso semmai il problema è diverso; assicurare che il collegio precostituito, o il terzo cui viene demandato il compito di nomina, sia effettivamente equidistante dagli interessi in conflitto. Ma questa, a ben guardare, è un esigenza viva in qualsiasi tipo di arbitrato!

Nel caso di arbitrato precostituito non sempre è possibile individuare a priori i soggetti che saranno investiti della futura controversia, o anche perché la scelta degli arbitri ad opera degli interessati costituisce un importante elemento dell’istituto dell’arbitrato. La rinuncia delle parti all’individuazione del soggetto arbitrante può essere certo vista come un male minore, ma certe volte la possibilità di determinare la composizione del collegio arbitrale può essere conservata pur in presenza di un arbitrato che interessi più soggetti.

In tale ottica si devono esaminare sempre in maniera approfondita le condizioni in virtù delle quali la scelta degli arbitri possa essere conservata in capo alle parti anche se siamo in presenza di una controversia multilaterale, in modo che l’opzione in sede di stipula del patto compromissorio, per una delle soluzione sopra individuate, costituisca una consapevole scelta fra le più alternative, e non una necessità che gli interessati hanno dovuto, in qualche modo, digerire e che devono accettare se vogliono assicurarsi la possibilità di decidere la controversia in sede arbitrale.

Di conseguenza, le due alternative che si pongono, in sede di patto commissorio, per la determinazione delle modalità di nomina degli arbitri, sono il conferimento all’attore del potere di nomina dell’arbitro, ed al convenuto del potere di nomina dell’altro arbitro. Il terzo sarà scelto di comune accordo tra le parti o dagli stessi arbitri prescelti (la c.d. clausola binaria), ovvero il conferimento a ciascun interessato del potere di nomina di un arbitro.

Come risulta evidente quindi la nuova normativa crea una species arbitrale che, non sostituendosi al modello codicistico, crea importanti innovazioni, anche di natura processuale, che la avvicinano alla giustizia ordinaria.

Tra le novità più significative si segnala l’ampliamento dei soggetti nei confronti dei quali produrrà efficacia la pronuncia arbitrale, l’ammissibilità dell’intervento volontario anche di terzi estranei alla clausola arbitrale e dell’intervento coatto degli altri soci, l’estensione dei poteri in capo agli arbitri e delle materie su cui questi saranno chiamati a pronunciarsi.

Il Legislatore, con il Decreto in questione, ha creato, secondo alcuni interpreti, un particolare tipo di arbitrato che alcuni hanno definito “fantasma di giurisdizione speciale”.

Ci si è chiesti allora se, a fianco di questa legislazione speciale, si possano configurare anche ipotesi di arbitrato societario regolato dal solo diritto comune.

L’art. 12 della legge delega ha autorizzato a legiferare in materia di clausola compromissoria statutaria e da questo input il legislatore si è mosso.

Tuttavia, questi non ha toccato la possibilità di prevedere un arbitrato societario fondato su un accordo diverso da una clausola compromissoria statutaria. Di conseguenza, la nuova normativa si applica alle clausole compromissorie statutarie, mentre per le clausole compromissorie contenute nei patti parasociali, in negozi di trasferimento di partecipazioni societarie, nonché per i compromessi a lite insorta, si applica la normativa prevista dal diritto comune.

L’intento del Legislatore è stato quello di tutelare al massimo il gruppo sociale, rafforzando e legittimando lo strumento di tutela del gruppo, la clausola compromissoria statuale appunto, attribuendo a questo tipo di arbitrato la stessa efficacia di quello del giudizio statuale, sia pure con parziale limitazione dell’autonomia del singolo.

Così il Legislatore ha riconosciuto la possibilità per gli arbitri di concedere misure cautelari, limitatamente alla sospensione delle delibere assembleari, ha previsto la possibilità di intervento volontario di terzi, l’intervento coatto dei soci, ha consentito agli arbitri la possibilità di affrontare questioni in materie non compromettibili, ha esteso agli arbitri la competenza a decidere su materie riservate fin d’ora al giudice statale, quali ad esempio, le controversie avanti ad oggetto la validità delle delibere assembleari, ovvero la responsabilità di sindaci, amministratori e liquidatori.

Si può quindi considerare che la nuova disciplina tende a diminuire l’autonomia del singolo a vantaggio del gruppo sociale, con il conseguente impoverimento di differenze con la giustizia ordinaria.

L’affievolimento delle differenze rispetto alla giustizia statuale e la prevalente tutela del gruppo, rispetto alla tutela del singolo, sono confermate dall’altra parte dall’ampliamento dei soggetti nei confronti dei quali il procedimento arbitrale ed il relativo giudizio possono aver efficacia, nonché dall’estensione delle materie di competenza degli arbitri.

Con riguardo a tale aspetto, la clausola compromissoria statutaria è vincolante per i soci e le società, inclusi coloro in riguardo ai quali la qualità è oggetto di controversia, ex artt. 34 e 35.

Con riguardo ai soci infatti gli esperti si sono posti un dubbio: tale disposizione deve comprendere anche i soci subentranti ed i soci occulti e se, con la locuzione oggetto di controversia, si debba intendere qualsiasi tipo di controversia ovvero solo quella collegata a norme statutarie?

Per quanto attiene al primo quesito, pare potersi comprendere sia il socio succeduto che il socio aggiunto. Entrambi infatti dovranno sottostare alle regole che la compagine sociale si è data.

Con riguardo al secondo quesito, pare essere conforme allo spirito legislativo l’interpretazione secondo la quale le controversie oggetto del giudizio arbitrale sono solo quelle collegate a norme statutarie. Nel caso in cui queste trovino origine in un patto parasociale o in un contratto di cessione di quote societarie, dovranno essere regolate da apposita clausola compromissoria, non potendosi richiamare quella statutaria che limita i suoi effetti ai soli appartenenti al gruppo.

Parti del giudizio arbitrale potranno essere poi gli amministratori, i liquidatori, i sindaci, in quanto la clausola compromissoria statutaria, che potrà comprendere anche tali tipi di controversie, sarà vincolante nei confronti di tali organi societari.

Una cosa è chiara: l’accettazione dell’incarico potrebbe rappresentare una implicita sottomissione alla legge del gruppo. In tal senso si ritiene che, qualora vi fosse una modifica statutaria che introducesse una clausola compromissoria, gli organi sociali che avevano accettato la carica in base al precedente statuto, potrebbero rinunciare all’incarico a suo tempo conferito.

Nel silenzio della legge, è possibile estendere la previsione di cui all’art. 34, 4 comma, anche ai consigli di gestione, ai consigli di sorveglianza, ai revisori, ovvero alle società di revisione, nominati ex artt. 2477 e 2409 bis c.c., per le s.r.l. e per le s.p.a.?

Proseguendo l’analisi si deve precisare che il Legislatore non distingue tra i diversi tipi di società, quindi si fa riferimento in tutte le analisi alle società commerciali tout court, con la sola esclusione delle società che fanno ricorso al capitale di rischio, ciò per espressa previsione dell’art. 34, comma 1.

Tuttavia l’esperienza dimostra che l’arbitrato è un mezzo ormai utilizzato anche quando il capitale è ampiamente diffuso. Non sarebbe concretamente ipotizzabile un rischio che i singoli soci siano convenuti in arbitrato dalla società e da altri soci posto che, nelle quotate, le azioni devono essere interamente liberate e che gli statuti delle società ammesse in mercati regolamentati non possano contenere clausole di prelazione e/o di gradimento.

La rapidità di tale procedimento, rispetto al percorso attraverso giustizia ordinaria, avrebbe potuto essere un vantaggio anche per le società che fanno ricorso al capitale di rischio, visto che tale rapidità ben si sposa con le esigenze correlate all’andamento dei titoli e, più in generale, con il mercato specifico cui tali società fanno riferimento.

In che limite il lodo potrà essere vincolante per la società?

Autorevole dottrina ritiene che il lodo possa esplicare la sua efficacia nei confronti della società nella misura in cui questa potrebbe subire un atto di disposizione negoziale delle parti.

In tale ottica si vuole estendere l’efficacia del lodo non solo nei confronti della società, ma anche nei confronti dei soci che non hanno partecipato al lodo, sostenendo che comunque a questi ultimi viene offerta la possibilità di intervenire, di essere chiamati e di proporre opposizione di terzo.

Un ultimo argomento che vorrei analizzare è l’ampliamento delle materie nell’arbitrato societario, come disciplinato dagli artt. 34, 35, 36.

L’art. 34 anzitutto afferma che le clausole compromissorie dovranno avere per oggetto diritti disponibili, relativamente all’oggetto sociale.

Tale affermazione introduce due problemi: a) cosa si intende per diritti relativi al rapporto sociale, e b) la natura dei diritti disponibili.

Sub a) si è sostenuto che si possono definire in arbitrato sia le controversie relative all’oggetto sociale, sia quelle che hanno ad oggetto un diritto che nasce o è comunque connesso a tale rapporto.

Sub b) il Legislatore solo apparentemente non ha utilizzato la delega , nella parte in cui attribuiva al Governo la possibilità di prevedere le clausole compromissorie statutarie, anche in relazione a questioni che non possono formare oggetto di transazione, alcuni interpretano poi che comunque l’arbitrato sia sempre connesso alla disponibilità dei diritti, ancorché possa conoscere incidenter tantum questioni non compromettibili, ma anche poi decidere su questioni inerenti alla validità delle delibere assembleari, in relazioni alle quali si è riconosciuto agli arbitri anche il potere di sospendere la delibera impugnata. Il lodo deve essere secondo diritto, la pronuncia sarà comunque impugnabile ex art. 829 e seg. c.p.c..

Il riferimento operato dal Legislatore ai diritti disponibili e alle questioni non compromettibili, ha generato un dibattimento in merito all’oggetto dell’arbitrato societario.

Prima della riforma la distinzione tra diritti disponibili e diritti indisponibili era basata sulla differenza tra diritti che sono protetti dall’ordinamento giuridico con norme dispositive e diritti salvaguardati da norme imperative a tutela dell’interesse non del singolo, ma della collettività.

Da questo ragionamento ne discesero pronunce che non ritenevano, ad esempio, arbitrabile la controversia attinente la contrarietà del bilancio alla effettiva situazione patrimoniale, o quella relativa alla nullità delle delibere assembleari, o allo scioglimento della società.

Il richiamo così operato dal Legislatore sia a i diritti disponibili sia alla questioni non compromettibili in arbitrato non sembra aver risolto i dubbi esistenti ante riforma, come dimostrano i contrasti interpretativi sorti in dottrina successivamente all’introduzione dell’arbitrato societario.

Infatti, parte della dottrina ha ravvisato nel concetto di transigibilità il criterio per delineare le materie oggetto dell’arbitrato, anziché quello della disponibilità/derogabilità, ancora sostenuto da parte della dottrina.

In conclusione, il Legislatore pare orientato verso una strada assolutamente giusta; ampliare cioè l’oggetto dell’arbitrato per cercare di snellire i compiti dei tribunali e di giurisdizionalizzare l’istituto dell’arbitrato in un ottica che garantisca per il gruppo sociale unitamente inteso. Si richiama la recente ordinanza della Corte Costituzionale che ha confermato la legittimazione dei collegi arbitrali a sollevare questioni di legittimità costituzionale di una legge o di un dato avente forza di legge, sostanzialmente parificando gli arbitri alla giurisdizione ordinaria.

L’applicazione di norme processuali comunque difficilmente potrà adattarsi alla libertà delle forme, propria del procedimento arbitrale, ed in riferimento sia ai diritti disponibili sia alle questioni non compromettibili in arbitrato, ciò potrebbero scaturire pronunce in contrasto tra loro, perché fondate su concetti incerti dell’indisponibilità e della inderogabilità dei diritti con il conseguente rischio di non realizzare, in concreto, le finalità che il Legislatore intendeva conseguire con tale riforma.