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Cumulo di cariche sociali e normativa antitrust

Il cumulo di cariche sociali può determinare situazioni oggettivamente negative anche in relazione alla regolamentazione dei mercati ed alle relative normative di riferimento: italiana, Legge Antitrust 287/89, e comunitaria, Regolamento 4064/89.

Come è noto infatti la normativa antitrust è costituita da un complesso di norme dirette ad impedire un assetto monopolistico ed oligopolistico del mercato, imponendo ai soggetti economici di agire in una situazione di concorrenza, vietando comportamenti lesivi del libero mercato, degli altri operatori economici e dei consumatori.

E’ quindi evidente che il cumulo di cariche sociali può essere in contrasto con la normativa antitrust, sia perché il fatto che due società abbiano più amministratori in comune può generare un comportamento collusivo tra le stesse, e favorire il raggiungimento di intese restrittive della concorrenza, o instaurare un cartello a sbarramento di altri operatori economici, ovvero generare pratiche concordate. Inoltre la presenza degli stessi amministratori ai vertici di due o più società può nascondere, in realtà, un controllo di fatto di una società nei confronti dell’altra.

Analizzando più nello specifico la normativa comunitaria in materia di controllo delle concentrazioni, l’art. 3 del regolamento comunitario afferma che si realizza una concentrazione nelle seguenti ipotesi: a) fusione tra due o più imprese tra loro indipendenti, b) acquisizione diretta ed indiretta del controllo di un’impresa o di un ramo di essa, c) creazione di un’impresa comune che esercita stabilmente tutte le funzioni di un’entità economica autonoma.

La stessa definizione viene ripresa dalla normativa antitrust italiana laddove si afferma che l’operazione di concentrazione si realizza a) quando due o più imprese procedono a fusione, b) quando due o più soggetti in posizione di controllo di almeno un’impresa ovvero una o più imprese acquiscono direttamente o indirettamente, sia mediante acquisto di azioni o di elementi del patrimonio, sia mediante contratto o altro strumento giuridico, il controllo dell’insieme o di parti di una o più imprese.

L’operazione di concentrazione sussiste in tutte le ipotesi in cui si ottiene una riduzione del numero degli operatori indipendenti attivi in un dato settore di mercato. Ogni operazione di tale natura poi, riducendo il numero degli operatori sul mercato, incide negativamente sul mercato stesso, e quindi è vista in modo sfavorevole per quanto attiene alla disciplina antitrust. Tuttavia bisogna tener presente che tante volte le operazioni di fusioni possono rivestire una valenza positiva, perché conducono ad una razionalizzazione degli assetti industriali, in base alle dottrine macro-economiche che consentono, comunque, ai consumatori di ottenere dei benefici economici da tali operazioni.

Il regolamento CEE specificamente esclude, per quanto riguardano le operazioni di concentrazione, l’applicabilità di ogni altro regolamento varato in attuazione degli artt. 85 e 86 del Trattato. Attribuisce una competenza esclusiva della CEE per le concentrazioni di interesse esclusivamente nazionale. Sul piano procedurale poi il Regolamento prevede un obbligo preventivo di notifica alla commissione di ogni operazione di concentrazione che deciderà se dare il consenso o meno all’operazione.

La Commissione, in caso di parere favorevole alla concentrazione, può imporre determinate condizioni, come obblighi strutturali, che possono riguardare la cessione di rami delle imprese coinvolte nell’operazione.

Per contro la decisione sfavorevole può imporre la rimozione degli effetti già verificatisi.

La legge italiana adotta la stessa definizione di concentrazione adottata dal diritto comunitario.

Come hanno sottolineato alcuni studiosi del settore, solo apparentemente la normativa italiana sembra differire da quella europea, per il fatto che nel sistema CEE,

le concentrazioni sono tutte vietate, salvo quelle autorizzate dalla commissione, per la normativa italiana viceversa, le concentrazioni sono realizzabili a meno che non siano vietate dalla relativa Autorità.

Di fatto però tale differenza sembra essere più una differenza tecnica di redazione di norme che una differenza di contenuto della stessa.

In relazione infatti alla normativa italiana, l’art. 7 per l’attività di controllo testualmente recita: "Ai fini del presente titolo si ha controllo nei casi contemplati dall’art. 2359 c.c. ed inoltre in presenza di diritti, contratti od altri rapporti giuridici, che conferiscano, da soli o congiuntamente, e tenuto conto delle circostanze di fatto e di diritto, la possibilità di esercitare un’influenza determinante anche sulle attività di impresa anche attraverso: diritti, contratti o altri rapporti giuridici che conferiscono un’influenza dominante sulle deliberazioni e sugli organi di un’impresa." Relativamente poi alla comunicazione della commissione sul concetto di concentrazione si afferma: " di norma si ha giuridicamente acquisizione del controllo esclusivo quando un’impresa acquisisce la maggioranza del capitale sociale e dei diritti di voto di una società. Il controllo esclusivo può essere acquisito anche attraverso una partecipazione di minoranza qualificata. Può infatti essere stabilito in base ad elementi di natura giuridica e fattuale".

La situazione di cui sopra si può verificare quando la partecipazione di minoranza comporti l’attribuzione di diritti specifici, tra cui il potere di designare più della metà dei componenti del collegio sindacale o del consiglio di amministrazione. Si ricorda che questa situazione può essere sufficiente, in determinate condizioni, a garantire il controllo dell’impresa.

Anche se non si rientra nel caso di cumulo di cariche sociali è comunque molto probabile che se un’impresa ha il diritto di nominare i componenti del consiglio di amministrazione in seno ad un’altra impresa, allora è probabilmente più propensa ad eleggere amministratori propri, al fine di assicurarsi un diretto e continuo monitoraggio dell’impresa sulla quale esercita il controllo.

Il controllo sussiste quando uno o più soggetti, nell’ambito di una impresa, possono influire sulle decisioni che riguardano la nomina di amministratori e/o dirigenti dipendenti dal consiglio di amministrazione.

L’azionista di minoranza che non dispone, almeno formalmente, della maggioranza delle azioni in assemblea ordinaria, può di fatto disporre del controllo dell’assemblea, del consiglio o di altro organo. Si cita l’esempio di un’azionista con il 20% delle azioni, che esercita comunque un controllo esclusivo della società, dato che l’azionista di maggioranza detentrice dell’80% aveva ceduto straordinari poteri di controllo, incluso il potere di veto su tutte le determinazioni dell’assemblea dei soci e del consiglio di amministrazione.

Di fondamentale importanza quindi, oltre al contenuto dei patti parasociali, le norme specifiche contenute nell’atto costitutivo o nello statuto che derogano o completano la disciplina legale del voto espresso in assemblea e delle modalità sulla base delle quali gli amministratori si dovranno comportare in base ai poteri a loro conferiti.

Una particolare disciplina dello statuto e dell’atto costitutivo della società che deroga alle norme dispositive, come per esempio un patto parasociale, conferisce un controllo ai sensi dell’art. 7 legge Antitrust, nel caso in cui da questa situazione ne discenda che uno o più soggetti, che non detengano la maggioranza di fatto o di diritto nell’assemblea dei soci possano comunque: a) disporre della facoltà di nomina della maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione; b) nominare un amministratore che disponga, di fatto o di diritto, il potere di gestire un settore dell’impresa (tale competenza esclusiva deve però attenere ad un settore la cui gestione consenta di condizionare in modo rilevante il comportamento concorrenziale dell’azienda stessa); c) nominare uno o più amministratori i quali compongano un consiglio che per alcune decisioni di carattere gestionali dell’azienda deliberi con maggioranze debitamente qualificate, e che richiedano espressamente il consenso di quest’ultimi. Se tale consenso è necessario solo per alcune decisioni, occorrerà però accertare se di fatto ogni consigliere di amministrazione è in grado di condizionare il comportamento e le scelte economico strategiche dell’impresa e del mercato in cui questa opera; d) disporre della facoltà di nominare anche un solo amministratore titolare di un potere di veto che riguarda la gestione della società o, quantomeno, le scelte amministrative-economiche di maggior rilievo e spessore della stessa.

La possibilità, di per sé, di esercitare tale diritto di veto, non è sufficiente, da sola, ad influenzare in modo diretto la gestione ordinaria della società.

A tal proposito si ricorda che l’Authority della Concorrenza e del Mercato, nell’ambito di una complessa operazione societaria ha ritenuto che l’operazione complessivamente intesa in cui, ad una s.p.a., azionista di minoranza di un’altra s.p.a., veniva conferito il potere di nominare nella società partecipata la metà meno uno dei componenti il consiglio di amministrazione (tra cui il presidente) e che, per le decisioni di maggior rilievo, si doveva deliberare con parere favorevole dei 4/5 dei componenti, ebbene l’Autorità ha ritenuto che l’operazione complessivamente intesa avrebbe conferito al socio di minoranza un potere di influire sulla gestione della società, che si sarebbe affiancato a potere di controllo dell’azionista di maggioranza. Tale operazione è stata definita come una concentrazione ai sensi dell’art. 5 comma I, lettera B della L. 287/90.

La dottrina, in larga parte, sostiene che il cumulo di cariche sia il segnale di un controllo di fatto tra le società interessate e, a questo punto, si applica l’art. 3 del regolamento CEE e gli artt. 5 e 7 della L. 287/90 sul controllo delle concentrazioni.

Più nel particolare si afferma che nel caso di unioni personali, cioè coincidenza totale o parziale degli amministratori delle due società concorrenti (commistione di amministratori) si può creare uniformità di indirizzo e la possibilità da parte della società controllante di agire direttamente sulla gestione della controllata. Tanto più che, in generale, la composizione degli organi amministrativi costituisce oggetto di indagine nell’ambito di controllo sulle concentrazioni, la coincidenza degli amministratori può costituire un’ipotesi di controllo di fatto. In assenza di una casistica precisa, si possono analizzare alcune ipotesi applicative suggerite dall’esperienza nord americana.

In quel contesto infatti, la nomina dei rappresentanti comuni negli organi rappresentativi di due o più imprese si pone in conflitto con le regole solo al verificarsi di due condizioni: tale interdipendenza può significare un controllo rilevante nella valutazione della possibilità concorrenziale della concentrazione, ovvero che l’integrazione tra le imprese coinvolte sia sufficiente a creare una situazione di potere atta a far scattare il divieto.

In casa nostra, l’analisi delle molteplici situazioni ci porta a considerare che, giuste le situazioni di cui sopra, esistono casi, come la coincidenza delle cariche amministrative in capo alla medesima persona, che possono determinarsi ipotesi di controllo senza estrinsecarsi in rapporti contrattuali precisi. Tale fenomeno, a dir la verità meno tangibile da un punto di vista meramente giuridico, è in realtà, estremamente importante per capire se, da tale comportamento, possa o meno discendere un dominio economico.

Per analizzare quanto il cumulo di cariche sociali possa essere strettamente correlato all’ipotesi di concentrazioni o di intese comunque concordate, a scapito del libero mercato, vorrei ricordare la decisione della Commissione Europea circa la autorizzazione concessa per la fusione Generali - Ina Assicurazioni.

Nel gennaio 2000 la Commissione ha approvato l’acquisizione del gruppo assicurativo INA da parte di Assicurazioni Generali s.p.a.. L’operazione è avvenuta tramite il lancio di una contestuale OPA e OPS volontaria, ai sensi degli artt. 102 e 106 della Legge Draghi, con oggetto il 100% di azioni ordinarie INA. Offerta terminata con esito positivo.

Dal punto di vista della normativa antitrust, l’operazione presupponeva alcuni rimedi volti ad evitare il sorgere di problemi legati alla mancata concorrenza, e ad evitare l’apertura di una istruttoria in sede comunitaria.

Alcuni avevano lo scopo di ridurre la posizione di predominio del nuovo gruppo nel mercato assicurativo italiano a livelli maggiormente accettabili, anche dai concorrenti. Altri tipi di rimedi volevano ridurre la possibilità che, attraverso il cumulo di cariche sociali, in altre società assicuratrici, potesse essere favorito il mantenimento di condizioni favorevoli ad un coordinamento del comportamento commerciale tra imprese che, almeno in linea di principio, sono concorrenti.

L’eventuale posizione di coordinamento era ancora più pericolosa, in un ottica antitrust, in un settore merceologico quale quello assicurativo, ampiamente regolamentato. In tale contesto lo spazio per condotte concorrenziali è limitato, e dove, al contrario si ampliano possibilità ed incentivi volti a porre in essere condotte collusive.

La Commissione, nel caso Generali - INA, non si è solo limitata ad imporre la cessione di partecipazioni di maggioranza, ma ha anche stabilito che non possono essere designati membri del comitato esecutivo delle società assicurative appartenete al nuovo gruppo soggetti che ricoprono al contempo cariche sociali in imprese assicurative concorrenti.

La Commissione infatti aveva rilevato che numerosi membri del consiglio di amministrazione di generali e di INA ricoprivano cariche negli organi sociali di altre imprese assicuratrici o loro controllanti.

Sono invece scarse le decisioni sul cumulo di cariche sociali prese in considerazione dall’antitrust italiana. La più significativa è senz’altro la decisione Credito Italiano / Unicredito.

In sede di avvio d’istruttoria la Banca d’Italia aveva segnalato la presenza, negli organi sociali delle imprese oggetto di concentrazione, di esponenti che ricoprivano cariche in banche concorrenti. Un esponente infatti del comitato esecutivo del Credito Emiliano nel consiglio di amministrazione del Credito Italiano e della controllata Rolo Banca.

A conclusione dell’istruttoria tuttavia, Banca d’Italia ha ritenuto che, data la presenza non significativa del credito Emiliano nel mercato bancario, presieduto dal Gruppo Unicredito, la fattispecie prospettata non rilevasse ai fini della valutazione dell’impatto concorrenziale ai fini del buon esito dell’operazione di concentrazione.

Per la decisione de qua ha vinto il fatto che il Credito Emiliano era fortemente radicato nel territorio, ma poco presente in un’ottica nazionale. Laddove invece il cumulo dovesse presentarsi in banche presenti su tutto il territorio nazionale, il problema dovrebbe essere rivisto alla luce dei possibili effetti in termini di riduzione della concorrenza potenziale.

La vicenda dimostra che la volontà dell’autorità antitrust italiana è quella di applicare la normativa antitrust in relazione ai legami personali preesistenti, solo quando questi minaccino il gioco della concorrenza.

Il cumulo di cariche sociali è uno strumento che favorisce anche il raggiungimento tacito di intese restrittive della concorrenza e di pratiche concordate. Le intese restrittive della concorrenza sono disciplinate, a livello comunitario, dall’art. 81 del regolamento CEE 4064/89, che testualmente afferma: "Sono incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazione di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto quello di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune."

Le intese restrittive, a livello nazionale, sono disciplinate dall’art. 2 della L. 287/90 che recita: "sono considerate intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari."

Il divieto delle intese riguarda tre fattispecie tipiche: a) accordi tra imprese, b) pratiche concordate, c) associazioni tra imprese ed organismi similari. Laddove per intesa si intende qualsiasi tipo di accordo, prescindere della presenza o meno del vincolo giuridico, quindi sia i contratti, ma anche i gentlemen’s agreement, le lettere d’intenti.

Sono codificate dalla legge cinque ipotesi: a) intese che fissano direttamente o indirettamente i prezzi o altre condizioni contrattuali; b) intese volte ad impedire o al limitare la produzione e, in generale, qualsiasi attività tecnico imprenditoriale di sviluppo e/o progetto; c) intese volte a suddividere il mercato o le fonti di approvvigionamento; d) intese che mirino a fissare condizioni diverse per medesime prestazioni; e) intese che condizionino la conclusione dei contratti ad attività che nulla hanno a che veder con l’oggetto contrattuale.

Per quanto attiene alla nostra analisi, bisogna ora analizzare la nozione di pratica concordata.

Con tale termine il Legislatore fa riferimento a tutte le ipotesi in cui due o più imprese fissino sugli stessi parametri i propri comportamenti economici, come se fossero stati concordati stessi atteggiamenti economici, o fossero stati imposti tali comportamenti convergenti da accordi di categoria o da delibere simili, naturalmente in assenza di qualsiasi atto giuridico che giustifichi tali comportamenti.

Il cumulo di cariche sociali è indice quindi dell’esistenza di una pratica concordata tra imprese quando due società, concorrenti tra loro, convengono che ciascuna accoglierà, nei propri organismi direttivi, un rappresentante dell’altra, e che non esiste alcun altro legame da comportare la costituzione di un sistema orizzontale fra due imprese. Tale situazione comporta l’applicabilità dell’art. 85.1 del Regolamento.

Intesa in questo modo, la pratica concordata, a differenza dell’intesa, assume la portata di una nozione generale, comprensiva di tutte le ipotesi ove, pur mancando una formalizzazione negoziale del consenso, si è comunque in presenza di una concertazione relativa alla condotta sul mercato di due o più aziende. Il cumulo di cariche sociali è uno degli elementi che possono indurre a ritenere la sussistenza di un accordo di cui non si ha prova certa.

Concludendo questa analisi, laddove si è in presenza di un cumulo di cariche sociali la dottrina e la giurisprudenza concordano nel ritenere tale cumulo un aspetto negativo per il mercato ed essenzialmente illecito. Illecito perché viola la norma del divieto di concorrenza delle società nel libero mercato, di cui all’art. 2390 c.c., nella parte in cui la norma vieta all’amministratore di esercitare una attività concorrente per conto terzi, dall’altro perché favorisce la nascita di ipotesi, neanche tanto remote nella realtà dei fatti, di conflitto di interessi, e quindi di violazione dell’art. 2391 c.c., qualora l’interesse dell’amministratore, sia esso amministratore unico ovvero amministratore delegato, sia in contrasto con quello della società che rappresenta.

Il cumulo di cariche sociali può determinare situazioni oggettivamente negative anche in relazione alla regolamentazione dei mercati ed alle relative normative di riferimento: italiana, Legge Antitrust 287/89, e comunitaria, Regolamento 4064/89.

Come è noto infatti la normativa antitrust è costituita da un complesso di norme dirette ad impedire un assetto monopolistico ed oligopolistico del mercato, imponendo ai soggetti economici di agire in una situazione di concorrenza, vietando comportamenti lesivi del libero mercato, degli altri operatori economici e dei consumatori.

E’ quindi evidente che il cumulo di cariche sociali può essere in contrasto con la normativa antitrust, sia perché il fatto che due società abbiano più amministratori in comune può generare un comportamento collusivo tra le stesse, e favorire il raggiungimento di intese restrittive della concorrenza, o instaurare un cartello a sbarramento di altri operatori economici, ovvero generare pratiche concordate. Inoltre la presenza degli stessi amministratori ai vertici di due o più società può nascondere, in realtà, un controllo di fatto di una società nei confronti dell’altra.

Analizzando più nello specifico la normativa comunitaria in materia di controllo delle concentrazioni, l’art. 3 del regolamento comunitario afferma che si realizza una concentrazione nelle seguenti ipotesi: a) fusione tra due o più imprese tra loro indipendenti, b) acquisizione diretta ed indiretta del controllo di un’impresa o di un ramo di essa, c) creazione di un’impresa comune che esercita stabilmente tutte le funzioni di un’entità economica autonoma.

La stessa definizione viene ripresa dalla normativa antitrust italiana laddove si afferma che l’operazione di concentrazione si realizza a) quando due o più imprese procedono a fusione, b) quando due o più soggetti in posizione di controllo di almeno un’impresa ovvero una o più imprese acquiscono direttamente o indirettamente, sia mediante acquisto di azioni o di elementi del patrimonio, sia mediante contratto o altro strumento giuridico, il controllo dell’insieme o di parti di una o più imprese.

L’operazione di concentrazione sussiste in tutte le ipotesi in cui si ottiene una riduzione del numero degli operatori indipendenti attivi in un dato settore di mercato. Ogni operazione di tale natura poi, riducendo il numero degli operatori sul mercato, incide negativamente sul mercato stesso, e quindi è vista in modo sfavorevole per quanto attiene alla disciplina antitrust. Tuttavia bisogna tener presente che tante volte le operazioni di fusioni possono rivestire una valenza positiva, perché conducono ad una razionalizzazione degli assetti industriali, in base alle dottrine macro-economiche che consentono, comunque, ai consumatori di ottenere dei benefici economici da tali operazioni.

Il regolamento CEE specificamente esclude, per quanto riguardano le operazioni di concentrazione, l’applicabilità di ogni altro regolamento varato in attuazione degli artt. 85 e 86 del Trattato. Attribuisce una competenza esclusiva della CEE per le concentrazioni di interesse esclusivamente nazionale. Sul piano procedurale poi il Regolamento prevede un obbligo preventivo di notifica alla commissione di ogni operazione di concentrazione che deciderà se dare il consenso o meno all’operazione.

La Commissione, in caso di parere favorevole alla concentrazione, può imporre determinate condizioni, come obblighi strutturali, che possono riguardare la cessione di rami delle imprese coinvolte nell’operazione.

Per contro la decisione sfavorevole può imporre la rimozione degli effetti già verificatisi.

La legge italiana adotta la stessa definizione di concentrazione adottata dal diritto comunitario.

Come hanno sottolineato alcuni studiosi del settore, solo apparentemente la normativa italiana sembra differire da quella europea, per il fatto che nel sistema CEE,

le concentrazioni sono tutte vietate, salvo quelle autorizzate dalla commissione, per la normativa italiana viceversa, le concentrazioni sono realizzabili a meno che non siano vietate dalla relativa Autorità.

Di fatto però tale differenza sembra essere più una differenza tecnica di redazione di norme che una differenza di contenuto della stessa.

In relazione infatti alla normativa italiana, l’art. 7 per l’attività di controllo testualmente recita: "Ai fini del presente titolo si ha controllo nei casi contemplati dall’art. 2359 c.c. ed inoltre in presenza di diritti, contratti od altri rapporti giuridici, che conferiscano, da soli o congiuntamente, e tenuto conto delle circostanze di fatto e di diritto, la possibilità di esercitare un’influenza determinante anche sulle attività di impresa anche attraverso: diritti, contratti o altri rapporti giuridici che conferiscono un’influenza dominante sulle deliberazioni e sugli organi di un’impresa." Relativamente poi alla comunicazione della commissione sul concetto di concentrazione si afferma: " di norma si ha giuridicamente acquisizione del controllo esclusivo quando un’impresa acquisisce la maggioranza del capitale sociale e dei diritti di voto di una società. Il controllo esclusivo può essere acquisito anche attraverso una partecipazione di minoranza qualificata. Può infatti essere stabilito in base ad elementi di natura giuridica e fattuale".

La situazione di cui sopra si può verificare quando la partecipazione di minoranza comporti l’attribuzione di diritti specifici, tra cui il potere di designare più della metà dei componenti del collegio sindacale o del consiglio di amministrazione. Si ricorda che questa situazione può essere sufficiente, in determinate condizioni, a garantire il controllo dell’impresa.

Anche se non si rientra nel caso di cumulo di cariche sociali è comunque molto probabile che se un’impresa ha il diritto di nominare i componenti del consiglio di amministrazione in seno ad un’altra impresa, allora è probabilmente più propensa ad eleggere amministratori propri, al fine di assicurarsi un diretto e continuo monitoraggio dell’impresa sulla quale esercita il controllo.

Il controllo sussiste quando uno o più soggetti, nell’ambito di una impresa, possono influire sulle decisioni che riguardano la nomina di amministratori e/o dirigenti dipendenti dal consiglio di amministrazione.

L’azionista di minoranza che non dispone, almeno formalmente, della maggioranza delle azioni in assemblea ordinaria, può di fatto disporre del controllo dell’assemblea, del consiglio o di altro organo. Si cita l’esempio di un’azionista con il 20% delle azioni, che esercita comunque un controllo esclusivo della società, dato che l’azionista di maggioranza detentrice dell’80% aveva ceduto straordinari poteri di controllo, incluso il potere di veto su tutte le determinazioni dell’assemblea dei soci e del consiglio di amministrazione.

Di fondamentale importanza quindi, oltre al contenuto dei patti parasociali, le norme specifiche contenute nell’atto costitutivo o nello statuto che derogano o completano la disciplina legale del voto espresso in assemblea e delle modalità sulla base delle quali gli amministratori si dovranno comportare in base ai poteri a loro conferiti.

Una particolare disciplina dello statuto e dell’atto costitutivo della società che deroga alle norme dispositive, come per esempio un patto parasociale, conferisce un controllo ai sensi dell’art. 7 legge Antitrust, nel caso in cui da questa situazione ne discenda che uno o più soggetti, che non detengano la maggioranza di fatto o di diritto nell’assemblea dei soci possano comunque: a) disporre della facoltà di nomina della maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione; b) nominare un amministratore che disponga, di fatto o di diritto, il potere di gestire un settore dell’impresa (tale competenza esclusiva deve però attenere ad un settore la cui gestione consenta di condizionare in modo rilevante il comportamento concorrenziale dell’azienda stessa); c) nominare uno o più amministratori i quali compongano un consiglio che per alcune decisioni di carattere gestionali dell’azienda deliberi con maggioranze debitamente qualificate, e che richiedano espressamente il consenso di quest’ultimi. Se tale consenso è necessario solo per alcune decisioni, occorrerà però accertare se di fatto ogni consigliere di amministrazione è in grado di condizionare il comportamento e le scelte economico strategiche dell’impresa e del mercato in cui questa opera; d) disporre della facoltà di nominare anche un solo amministratore titolare di un potere di veto che riguarda la gestione della società o, quantomeno, le scelte amministrative-economiche di maggior rilievo e spessore della stessa.

La possibilità, di per sé, di esercitare tale diritto di veto, non è sufficiente, da sola, ad influenzare in modo diretto la gestione ordinaria della società.

A tal proposito si ricorda che l’Authority della Concorrenza e del Mercato, nell’ambito di una complessa operazione societaria ha ritenuto che l’operazione complessivamente intesa in cui, ad una s.p.a., azionista di minoranza di un’altra s.p.a., veniva conferito il potere di nominare nella società partecipata la metà meno uno dei componenti il consiglio di amministrazione (tra cui il presidente) e che, per le decisioni di maggior rilievo, si doveva deliberare con parere favorevole dei 4/5 dei componenti, ebbene l’Autorità ha ritenuto che l’operazione complessivamente intesa avrebbe conferito al socio di minoranza un potere di influire sulla gestione della società, che si sarebbe affiancato a potere di controllo dell’azionista di maggioranza. Tale operazione è stata definita come una concentrazione ai sensi dell’art. 5 comma I, lettera B della L. 287/90.

La dottrina, in larga parte, sostiene che il cumulo di cariche sia il segnale di un controllo di fatto tra le società interessate e, a questo punto, si applica l’art. 3 del regolamento CEE e gli artt. 5 e 7 della L. 287/90 sul controllo delle concentrazioni.

Più nel particolare si afferma che nel caso di unioni personali, cioè coincidenza totale o parziale degli amministratori delle due società concorrenti (commistione di amministratori) si può creare uniformità di indirizzo e la possibilità da parte della società controllante di agire direttamente sulla gestione della controllata. Tanto più che, in generale, la composizione degli organi amministrativi costituisce oggetto di indagine nell’ambito di controllo sulle concentrazioni, la coincidenza degli amministratori può costituire un’ipotesi di controllo di fatto. In assenza di una casistica precisa, si possono analizzare alcune ipotesi applicative suggerite dall’esperienza nord americana.

In quel contesto infatti, la nomina dei rappresentanti comuni negli organi rappresentativi di due o più imprese si pone in conflitto con le regole solo al verificarsi di due condizioni: tale interdipendenza può significare un controllo rilevante nella valutazione della possibilità concorrenziale della concentrazione, ovvero che l’integrazione tra le imprese coinvolte sia sufficiente a creare una situazione di potere atta a far scattare il divieto.

In casa nostra, l’analisi delle molteplici situazioni ci porta a considerare che, giuste le situazioni di cui sopra, esistono casi, come la coincidenza delle cariche amministrative in capo alla medesima persona, che possono determinarsi ipotesi di controllo senza estrinsecarsi in rapporti contrattuali precisi. Tale fenomeno, a dir la verità meno tangibile da un punto di vista meramente giuridico, è in realtà, estremamente importante per capire se, da tale comportamento, possa o meno discendere un dominio economico.

Per analizzare quanto il cumulo di cariche sociali possa essere strettamente correlato all’ipotesi di concentrazioni o di intese comunque concordate, a scapito del libero mercato, vorrei ricordare la decisione della Commissione Europea circa la autorizzazione concessa per la fusione Generali - Ina Assicurazioni.

Nel gennaio 2000 la Commissione ha approvato l’acquisizione del gruppo assicurativo INA da parte di Assicurazioni Generali s.p.a.. L’operazione è avvenuta tramite il lancio di una contestuale OPA e OPS volontaria, ai sensi degli artt. 102 e 106 della Legge Draghi, con oggetto il 100% di azioni ordinarie INA. Offerta terminata con esito positivo.

Dal punto di vista della normativa antitrust, l’operazione presupponeva alcuni rimedi volti ad evitare il sorgere di problemi legati alla mancata concorrenza, e ad evitare l’apertura di una istruttoria in sede comunitaria.

Alcuni avevano lo scopo di ridurre la posizione di predominio del nuovo gruppo nel mercato assicurativo italiano a livelli maggiormente accettabili, anche dai concorrenti. Altri tipi di rimedi volevano ridurre la possibilità che, attraverso il cumulo di cariche sociali, in altre società assicuratrici, potesse essere favorito il mantenimento di condizioni favorevoli ad un coordinamento del comportamento commerciale tra imprese che, almeno in linea di principio, sono concorrenti.

L’eventuale posizione di coordinamento era ancora più pericolosa, in un ottica antitrust, in un settore merceologico quale quello assicurativo, ampiamente regolamentato. In tale contesto lo spazio per condotte concorrenziali è limitato, e dove, al contrario si ampliano possibilità ed incentivi volti a porre in essere condotte collusive.

La Commissione, nel caso Generali - INA, non si è solo limitata ad imporre la cessione di partecipazioni di maggioranza, ma ha anche stabilito che non possono essere designati membri del comitato esecutivo delle società assicurative appartenete al nuovo gruppo soggetti che ricoprono al contempo cariche sociali in imprese assicurative concorrenti.

La Commissione infatti aveva rilevato che numerosi membri del consiglio di amministrazione di generali e di INA ricoprivano cariche negli organi sociali di altre imprese assicuratrici o loro controllanti.

Sono invece scarse le decisioni sul cumulo di cariche sociali prese in considerazione dall’antitrust italiana. La più significativa è senz’altro la decisione Credito Italiano / Unicredito.

In sede di avvio d’istruttoria la Banca d’Italia aveva segnalato la presenza, negli organi sociali delle imprese oggetto di concentrazione, di esponenti che ricoprivano cariche in banche concorrenti. Un esponente infatti del comitato esecutivo del Credito Emiliano nel consiglio di amministrazione del Credito Italiano e della controllata Rolo Banca.

A conclusione dell’istruttoria tuttavia, Banca d’Italia ha ritenuto che, data la presenza non significativa del credito Emiliano nel mercato bancario, presieduto dal Gruppo Unicredito, la fattispecie prospettata non rilevasse ai fini della valutazione dell’impatto concorrenziale ai fini del buon esito dell’operazione di concentrazione.

Per la decisione de qua ha vinto il fatto che il Credito Emiliano era fortemente radicato nel territorio, ma poco presente in un’ottica nazionale. Laddove invece il cumulo dovesse presentarsi in banche presenti su tutto il territorio nazionale, il problema dovrebbe essere rivisto alla luce dei possibili effetti in termini di riduzione della concorrenza potenziale.

La vicenda dimostra che la volontà dell’autorità antitrust italiana è quella di applicare la normativa antitrust in relazione ai legami personali preesistenti, solo quando questi minaccino il gioco della concorrenza.

Il cumulo di cariche sociali è uno strumento che favorisce anche il raggiungimento tacito di intese restrittive della concorrenza e di pratiche concordate. Le intese restrittive della concorrenza sono disciplinate, a livello comunitario, dall’art. 81 del regolamento CEE 4064/89, che testualmente afferma: "Sono incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazione di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto quello di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato comune."

Le intese restrittive, a livello nazionale, sono disciplinate dall’art. 2 della L. 287/90 che recita: "sono considerate intese gli accordi e/o le pratiche concordati tra imprese nonché le deliberazioni, anche se adottate ai sensi di disposizioni statutarie o regolamentari, di consorzi, associazioni di imprese ed altri organismi similari."

Il divieto delle intese riguarda tre fattispecie tipiche: a) accordi tra imprese, b) pratiche concordate, c) associazioni tra imprese ed organismi similari. Laddove per intesa si intende qualsiasi tipo di accordo, prescindere della presenza o meno del vincolo giuridico, quindi sia i contratti, ma anche i gentlemen’s agreement, le lettere d’intenti.

Sono codificate dalla legge cinque ipotesi: a) intese che fissano direttamente o indirettamente i prezzi o altre condizioni contrattuali; b) intese volte ad impedire o al limitare la produzione e, in generale, qualsiasi attività tecnico imprenditoriale di sviluppo e/o progetto; c) intese volte a suddividere il mercato o le fonti di approvvigionamento; d) intese che mirino a fissare condizioni diverse per medesime prestazioni; e) intese che condizionino la conclusione dei contratti ad attività che nulla hanno a che veder con l’oggetto contrattuale.

Per quanto attiene alla nostra analisi, bisogna ora analizzare la nozione di pratica concordata.

Con tale termine il Legislatore fa riferimento a tutte le ipotesi in cui due o più imprese fissino sugli stessi parametri i propri comportamenti economici, come se fossero stati concordati stessi atteggiamenti economici, o fossero stati imposti tali comportamenti convergenti da accordi di categoria o da delibere simili, naturalmente in assenza di qualsiasi atto giuridico che giustifichi tali comportamenti.

Il cumulo di cariche sociali è indice quindi dell’esistenza di una pratica concordata tra imprese quando due società, concorrenti tra loro, convengono che ciascuna accoglierà, nei propri organismi direttivi, un rappresentante dell’altra, e che non esiste alcun altro legame da comportare la costituzione di un sistema orizzontale fra due imprese. Tale situazione comporta l’applicabilità dell’art. 85.1 del Regolamento.

Intesa in questo modo, la pratica concordata, a differenza dell’intesa, assume la portata di una nozione generale, comprensiva di tutte le ipotesi ove, pur mancando una formalizzazione negoziale del consenso, si è comunque in presenza di una concertazione relativa alla condotta sul mercato di due o più aziende. Il cumulo di cariche sociali è uno degli elementi che possono indurre a ritenere la sussistenza di un accordo di cui non si ha prova certa.

Concludendo questa analisi, laddove si è in presenza di un cumulo di cariche sociali la dottrina e la giurisprudenza concordano nel ritenere tale cumulo un aspetto negativo per il mercato ed essenzialmente illecito. Illecito perché viola la norma del divieto di concorrenza delle società nel libero mercato, di cui all’art. 2390 c.c., nella parte in cui la norma vieta all’amministratore di esercitare una attività concorrente per conto terzi, dall’altro perché favorisce la nascita di ipotesi, neanche tanto remote nella realtà dei fatti, di conflitto di interessi, e quindi di violazione dell’art. 2391 c.c., qualora l’interesse dell’amministratore, sia esso amministratore unico ovvero amministratore delegato, sia in contrasto con quello della società che rappresenta.