La Corte di Giustizia Europea si pronuncia sulla registrazione come marchio di vocaboli descrittivi stranieri
Una recente sentenza della Corte di Giustizia Europea, in tema di marchi, ha richiamato l’attenzione sul problema della violazione delle norme comunitarie da parte di registrazioni, in uno stato membro dell’Unione Europea, di marchi nazionali consistenti in vocaboli stranieri che nella lingua di un altro stato membro sono descrittivi rispetto ai prodotti per i quali detti marchi sono utilizzati.
[The European Cort of Justice rule the filing as trademark of descriptive foreign words - the European Court of Justice has recently focused the attention on the problem whether it is contrary to Community rules for national laws of EU Member States to allow the registration of foreign words which, in the language of another Member State, are descriptive of the products covered by the registration].
2. L’esame della sentenza nel procedimento C-421/04
Con sentenza datata 9 marzo 2006 la Corte di Giustizia Europea ha stabilito il principio che, ai sensi della Direttiva sui marchi (Direttiva del Consiglio del 21 dicembre 1988, n. 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa), “non osta alla registrazione in uno Stato membro, come marchio nazionale, di un vocabolo mutuato dalla lingua di un altro Stato membro nella quale è privo di carattere distintivo o è descrittivo dei prodotti o dei servizi per i quali si chiede la registrazione, a meno che gli ambienti interessati nello Stato membro nel quale si richiede la registrazione siano in grado di individuare il significato di detto vocabolo”.
Per inquadrare al meglio la problematica affrontata dalla sentenza, si evidenzia che un marchio è descrittivo quando lo stesso, in qualche modo, descrive il prodotto, la sua composizione o le sue caratteristiche (ad esempio: il colore, l’odore, le dimensioni o la funzione del prodotto). In altri termini, i marchi descrittivi sono quei marchi che “dicono qualcosa dei prodotti” per i quali vengono usati. Ad esempio, stante il loro carattere meramente descrittivo, sono stati giudicati inidonei a costituire valido marchio le espressioni "Vision Center" poiché descrive alcuni aspetti del prodotto o del servizio al quale si accompagna (servizi ottici) e le espressioni in lingua italiana “officina botanica", "lavalana" e "monouso". I marchi descrittivi non sono, quindi, sufficientemente distintivi ma ricevono tutela dalla legge solo se utilizzati per un certo periodo di tempo: quando, in altre parole, si possa dimostrare che hanno perso la loro primaria funzione descrittiva ed il pubblico dei consumatori sia ormai in grado di associare quel nome ad un particolare produttore, invece che ad un semplice tipo di prodotto.
La sentenza in questione trae spunto dalla controversia sorta, sul finire degli anni novanta, tra una società tedesca che aveva richiesto la registrazione comunitaria di un segno comprendente le parole “Matratzen Mark Concord” e una società spagnola titolare del marchio spagnolo anteriore “Matratzen” (“materassi” in lingua tedesca). Entrambi detti marchi erano stati registrati nella classe merceologica dei materassi e della biancheria da letto.
La società spagnola aveva, quindi, presentato opposizione contro la domanda di marchio comunitario. L’opposizione era stata accolta, e la società tedesca aveva presentato ricorso avanti l’Ufficio per l’Armonizzazione nel Mercato Interno (UAMI), al Tribunale di Primo Grado e alla Corte di Giustizia Europea (CGE). Il ricorso è stato respinto in tutte le predette istanze.
Contestualmente allo svolgimento del procedimento di opposizione, svoltosi dinanzi agli organi dell’UAMI ed ai giudici comunitari, la società tedesca aveva intrapreso in Spagna un’azione giudiziale ordinaria per ottenere l’annullamento del marchio spagnolo “Matratzen” fondando la propria azione sul presupposto che l’espressione “matratzen” (materassi in lingua tedesca) era generica e poteva indurre in errore i consumatori sulla natura, la qualità, le caratteristiche e la provenienza geografica dei prodotti contrassegnati da detto marchio.
La società tedesca aveva appellato la sentenza di primo grado che respingeva la propria domanda di annullamento del marchio spagnolo ricorrendo dinanzi al Tribunale Provinciale di Barcellona il quale a sua volta aveva sospeso il procedimento sottoponendo alla Corte di Giustizia Europea la decisione relativa ad una questione ritenuta da detto Tribunale pregiudiziale; ossia se la registrazione in uno stato membro, come marchio nazionale, di un vocabolo mutuato dalla lingua di un altro stato membro nel quale esso è privo di carattere distintivo, o è descrittivo dei prodotti o dei servizi per i quali si chiede la registrazione, costituisca violazione degli articoli 28 e 30 del Trattato che costituisce la Comunità Europea.
In altri termini il tribunale spagnolo ha chiesto alla Corte di Giustizia Europea se le nozioni di “mercato unico” e di “libera circolazione delle merci”, di cui agli articoli 28 e 30 del Trattato ostino alla registrazione in uno Stato membro, come marchio nazionale, di un vocabolo straniero che in un altro Stato membro è privo di carattere distintivo o è descrittivo dei prodotti o dei servizi per i quali si chiede la registrazione.
Si ricorda brevemente che ai sensi dell’articolo 28 del Trattato “sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione, nonché, qualsiasi misura di effetto equivalente” e che l’articolo 30 stabilisce, invece, che “Le disposizioni degli articoli 28 e 29 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito, giustificati da motivi (…) di tutela della proprietà industriale e commerciale. Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri”.
Con la sentenza del 9 marzo 2006 nella causa C-421/04, la Corte di Giustizia Europea ha, innanzitutto, precisato che la valutazione della questione pregiudiziale in esame (se il diritto comunitario osti alla registrazione di un marchio nazionale) debba essere condotta prevalentemente sulla base della Direttiva sui Marchi (prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE) piuttosto che sulla base degli articoli 28 e 30 del Trattato.
In limine, occorre ricordare che, nell’ambito della procedura di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte di Giustizia Europea, spetta a quest’ultima fornire al giudice a quo una soluzione utile che gli consenta di dirimere la controversia ad esso sottoposta. In tale prospettiva, la Corte può, quindi, prendere in considerazione norme di diritto comunitario alle quali il giudice nazionale non ha fatto riferimento nel formulare la questione (si vedano in particolare, sentenze 18 maggio 2000, causa C-230/98, e 20 maggio 2003, causa C-469/00).
Ciò posto, si precisa che la Direttiva citata dalla Corte di Giustizia Europea riguarda il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa e prevede, al suo settimo ‘considerando’, che “la realizzazione degli obiettivi perseguiti presuppone che l’acquisizione e la conservazione del diritto sul marchio di impresa registrato siano in linea di massima subordinate, in tutti gli Stati membri, alle stesse condizioni” e che “impedimenti alla registrazione o i motivi di nullità inerenti al marchio d’impresa stesso (…) devono essere enumerati esaurientemente”.
L’articolo 3 della Direttiva enuncia, pertanto, gli impedimenti alla registrazione di un marchio o i motivi di nullità di un marchio registrato. Il suo n. 1, lettere b) e c), dispone in particolare: “Sono esclusi dalla registrazione, o, se registrati, possono essere dichiarati nulli:(…) b) i marchi privi di carattere distintivo; c) i marchi composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire per designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica, ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio”.
Ciò posto, la Corte di Giustizia Europea ha osservato nelle motivazioni della sentenza in esame che l’articolo 3 della Direttiva non contiene alcun impedimento alla registrazione riguardante specificamente i marchi costituiti da un vocabolo mutuato dalla lingua di uno stato membro diverso dallo stato di registrazione nella quale esso è privo di carattere distintivo, o è descrittivo dei prodotti o servizi per i quali si chiede la registrazione.
La Corte ritiene, infatti, che un siffatto marchio non rientra necessariamente nell’ambito degli impedimenti alla registrazione relativi alla mancanza di carattere distintivo o al carattere descrittivo del marchio, di cui, rispettivamente, ai punti b) e c) dell’articolo 3, n. 1, della Direttiva.
Infatti, al fine di stabilire se un marchio nazionale sia privo di carattere distintivo o sia descrittivo dei prodotti o servizi per i quali si chiede la registrazione, si deve prendere in considerazione la sua percezione negli ambienti interessati, ossia, nel commercio e/o presso il consumatore medio di detti prodotti o servizi, normalmente informato, attento e avveduto, nel territorio per il quale si chiede la registrazione (sentenze 4 maggio 1999, cause riunite C-108/97 e C-109/97, 12 febbraio 2004, causa C-363/99, e causa C-218/01).
La risposta della Corte di Giustiziai Europea alla questione pregiudiziale posta è dunque che l’articolo 3, n. 1, lettere b) e c), della Direttiva non osta alla registrazione in uno stato membro, come marchio nazionale, di un vocabolo mutuato dalla lingua di un altro stato membro nella quale è privo di carattere distintivo, o è descrittivo dei prodotti o dei servizi per i quali si chiede la registrazione, a meno che gli ambienti interessati nello stato nel quale si richiede la registrazione siano in grado di individuare il significato di detto vocabolo.
Tale interpretazione della Direttiva è conforme, secondo la corte di Giustizia, anche a quanto prescritto dal Trattato, ed in particolare, dagli articoli 28 30.
Infatti, secondo una giurisprudenza costante, nell’ambito d’applicazione del principio della libera circolazione delle merci, il Trattato non incide sull’esistenza dei diritti riconosciuti dalla legislazione di uno Stato membro in materia di proprietà intellettuale, ma limita solamente, secondo le circostanze, l’esercizio di detti diritti (sentenze 22 giugno 1976, causa C-119/75 e 22 gennaio 1981, causa C-58/80).
E’ possibile, secondo la Corte di Giustizia che, a causa delle differenze linguistiche, culturali, sociali ed economiche tra gli Stati membri, un marchio che è privo di carattere distintivo o è descrittivo dei prodotti o dei servizi interessati in uno Stato membro non lo sia in un altro Stato membro (per analogia sentenza 26 novembre 1996, causa C-313/94).
In applicazione di tale giurisprudenza, la Corte riporta, quindi, nelle motivazioni della sentenza in esame che il principio della libera circolazione delle merci non vieta ad uno Stato membro di registrare, come marchio nazionale, un segno che nella lingua di un altro Stato membro è descrittivo dei prodotti o servizi considerati.
3. Conclusioni
Con la sentenza in esame la Corte di Giustizia consacra, quindi, il principio che l’articolo 3, n. 1, lettere b) e c), della Direttiva sui Marchi non osta alla registrazione in uno Stato membro, come marchio nazionale, di un vocabolo mutuato dalla lingua di un altro Stato membro nella quale è privo di carattere distintivo o è descrittivo dei prodotti o dei servizi per i quali si chiede la registrazione, a meno che gli ambienti interessati nello Stato membro nel quale si chiede la registrazione siano in grado di individuare il significato di detto vocabolo.
Rimane, tuttavia, aperta, ed in parte irrisolta, la questione relativa a come la predetta condizione possa essere valutata in concreto in casi futuri dato che le considerazioni della Corte di Giustizia sul punto sono piuttosto generiche; soluzione evidentemente rimessa all’elaborazione giurisprudenziale di ciascun paese membro dell’Unione Europea.
1. Premessa
Una recente sentenza della Corte di Giustizia Europea, in tema di marchi, ha richiamato l’attenzione sul problema della violazione delle norme comunitarie da parte di registrazioni, in uno stato membro dell’Unione Europea, di marchi nazionali consistenti in vocaboli stranieri che nella lingua di un altro stato membro sono descrittivi rispetto ai prodotti per i quali detti marchi sono utilizzati.
[The European Cort of Justice rule the filing as trademark of descriptive foreign words - the European Court of Justice has recently focused the attention on the problem whether it is contrary to Community rules for national laws of EU Member States to allow the registration of foreign words which, in the language of another Member State, are descriptive of the products covered by the registration].
2. L’esame della sentenza nel procedimento C-421/04
Con sentenza datata 9 marzo 2006 la Corte di Giustizia Europea ha stabilito il principio che, ai sensi della Direttiva sui marchi (Direttiva del Consiglio del 21 dicembre 1988, n. 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa), “non osta alla registrazione in uno Stato membro, come marchio nazionale, di un vocabolo mutuato dalla lingua di un altro Stato membro nella quale è privo di carattere distintivo o è descrittivo dei prodotti o dei servizi per i quali si chiede la registrazione, a meno che gli ambienti interessati nello Stato membro nel quale si richiede la registrazione siano in grado di individuare il significato di detto vocabolo”.
Per inquadrare al meglio la problematica affrontata dalla sentenza, si evidenzia che un marchio è descrittivo quando lo stesso, in qualche modo, descrive il prodotto, la sua composizione o le sue caratteristiche (ad esempio: il colore, l’odore, le dimensioni o la funzione del prodotto). In altri termini, i marchi descrittivi sono quei marchi che “dicono qualcosa dei prodotti” per i quali vengono usati. Ad esempio, stante il loro carattere meramente descrittivo, sono stati giudicati inidonei a costituire valido marchio le espressioni "Vision Center" poiché descrive alcuni aspetti del prodotto o del servizio al quale si accompagna (servizi ottici) e le espressioni in lingua italiana “officina botanica", "lavalana" e "monouso". I marchi descrittivi non sono, quindi, sufficientemente distintivi ma ricevono tutela dalla legge solo se utilizzati per un certo periodo di tempo: quando, in altre parole, si possa dimostrare che hanno perso la loro primaria funzione descrittiva ed il pubblico dei consumatori sia ormai in grado di associare quel nome ad un particolare produttore, invece che ad un semplice tipo di prodotto.
La sentenza in questione trae spunto dalla controversia sorta, sul finire degli anni novanta, tra una società tedesca che aveva richiesto la registrazione comunitaria di un segno comprendente le parole “Matratzen Mark Concord” e una società spagnola titolare del marchio spagnolo anteriore “Matratzen” (“materassi” in lingua tedesca). Entrambi detti marchi erano stati registrati nella classe merceologica dei materassi e della biancheria da letto.
La società spagnola aveva, quindi, presentato opposizione contro la domanda di marchio comunitario. L’opposizione era stata accolta, e la società tedesca aveva presentato ricorso avanti l’Ufficio per l’Armonizzazione nel Mercato Interno (UAMI), al Tribunale di Primo Grado e alla Corte di Giustizia Europea (CGE). Il ricorso è stato respinto in tutte le predette istanze.
Contestualmente allo svolgimento del procedimento di opposizione, svoltosi dinanzi agli organi dell’UAMI ed ai giudici comunitari, la società tedesca aveva intrapreso in Spagna un’azione giudiziale ordinaria per ottenere l’annullamento del marchio spagnolo “Matratzen” fondando la propria azione sul presupposto che l’espressione “matratzen” (materassi in lingua tedesca) era generica e poteva indurre in errore i consumatori sulla natura, la qualità, le caratteristiche e la provenienza geografica dei prodotti contrassegnati da detto marchio.
La società tedesca aveva appellato la sentenza di primo grado che respingeva la propria domanda di annullamento del marchio spagnolo ricorrendo dinanzi al Tribunale Provinciale di Barcellona il quale a sua volta aveva sospeso il procedimento sottoponendo alla Corte di Giustizia Europea la decisione relativa ad una questione ritenuta da detto Tribunale pregiudiziale; ossia se la registrazione in uno stato membro, come marchio nazionale, di un vocabolo mutuato dalla lingua di un altro stato membro nel quale esso è privo di carattere distintivo, o è descrittivo dei prodotti o dei servizi per i quali si chiede la registrazione, costituisca violazione degli articoli 28 e 30 del Trattato che costituisce la Comunità Europea.
In altri termini il tribunale spagnolo ha chiesto alla Corte di Giustizia Europea se le nozioni di “mercato unico” e di “libera circolazione delle merci”, di cui agli articoli 28 e 30 del Trattato ostino alla registrazione in uno Stato membro, come marchio nazionale, di un vocabolo straniero che in un altro Stato membro è privo di carattere distintivo o è descrittivo dei prodotti o dei servizi per i quali si chiede la registrazione.
Si ricorda brevemente che ai sensi dell’articolo 28 del Trattato “sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni quantitative all’importazione, nonché, qualsiasi misura di effetto equivalente” e che l’articolo 30 stabilisce, invece, che “Le disposizioni degli articoli 28 e 29 lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all’importazione, all’esportazione e al transito, giustificati da motivi (…) di tutela della proprietà industriale e commerciale. Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri”.
Con la sentenza del 9 marzo 2006 nella causa C-421/04, la Corte di Giustizia Europea ha, innanzitutto, precisato che la valutazione della questione pregiudiziale in esame (se il diritto comunitario osti alla registrazione di un marchio nazionale) debba essere condotta prevalentemente sulla base della Direttiva sui Marchi (prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE) piuttosto che sulla base degli articoli 28 e 30 del Trattato.
In limine, occorre ricordare che, nell’ambito della procedura di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte di Giustizia Europea, spetta a quest’ultima fornire al giudice a quo una soluzione utile che gli consenta di dirimere la controversia ad esso sottoposta. In tale prospettiva, la Corte può, quindi, prendere in considerazione norme di diritto comunitario alle quali il giudice nazionale non ha fatto riferimento nel formulare la questione (si vedano in particolare, sentenze 18 maggio 2000, causa C-230/98, e 20 maggio 2003, causa C-469/00).
Ciò posto, si precisa che la Direttiva citata dalla Corte di Giustizia Europea riguarda il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa e prevede, al suo settimo ‘considerando’, che “la realizzazione degli obiettivi perseguiti presuppone che l’acquisizione e la conservazione del diritto sul marchio di impresa registrato siano in linea di massima subordinate, in tutti gli Stati membri, alle stesse condizioni” e che “impedimenti alla registrazione o i motivi di nullità inerenti al marchio d’impresa stesso (…) devono essere enumerati esaurientemente”.
L’articolo 3 della Direttiva enuncia, pertanto, gli impedimenti alla registrazione di un marchio o i motivi di nullità di un marchio registrato. Il suo n. 1, lettere b) e c), dispone in particolare: “Sono esclusi dalla registrazione, o, se registrati, possono essere dichiarati nulli:(…) b) i marchi privi di carattere distintivo; c) i marchi composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire per designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica, ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio”.
Ciò posto, la Corte di Giustizia Europea ha osservato nelle motivazioni della sentenza in esame che l’articolo 3 della Direttiva non contiene alcun impedimento alla registrazione riguardante specificamente i marchi costituiti da un vocabolo mutuato dalla lingua di uno stato membro diverso dallo stato di registrazione nella quale esso è privo di carattere distintivo, o è descrittivo dei prodotti o servizi per i quali si chiede la registrazione.
La Corte ritiene, infatti, che un siffatto marchio non rientra necessariamente nell’ambito degli impedimenti alla registrazione relativi alla mancanza di carattere distintivo o al carattere descrittivo del marchio, di cui, rispettivamente, ai punti b) e c) dell’articolo 3, n. 1, della Direttiva.
Infatti, al fine di stabilire se un marchio nazionale sia privo di carattere distintivo o sia descrittivo dei prodotti o servizi per i quali si chiede la registrazione, si deve prendere in considerazione la sua percezione negli ambienti interessati, ossia, nel commercio e/o presso il consumatore medio di detti prodotti o servizi, normalmente informato, attento e avveduto, nel territorio per il quale si chiede la registrazione (sentenze 4 maggio 1999, cause riunite C-108/97 e C-109/97, 12 febbraio 2004, causa C-363/99, e causa C-218/01).
La risposta della Corte di Giustiziai Europea alla questione pregiudiziale posta è dunque che l’articolo 3, n. 1, lettere b) e c), della Direttiva non osta alla registrazione in uno stato membro, come marchio nazionale, di un vocabolo mutuato dalla lingua di un altro stato membro nella quale è privo di carattere distintivo, o è descrittivo dei prodotti o dei servizi per i quali si chiede la registrazione, a meno che gli ambienti interessati nello stato nel quale si richiede la registrazione siano in grado di individuare il significato di detto vocabolo.
Tale interpretazione della Direttiva è conforme, secondo la corte di Giustizia, anche a quanto prescritto dal Trattato, ed in particolare, dagli articoli 28 30.
Infatti, secondo una giurisprudenza costante, nell’ambito d’applicazione del principio della libera circolazione delle merci, il Trattato non incide sull’esistenza dei diritti riconosciuti dalla legislazione di uno Stato membro in materia di proprietà intellettuale, ma limita solamente, secondo le circostanze, l’esercizio di detti diritti (sentenze 22 giugno 1976, causa C-119/75 e 22 gennaio 1981, causa C-58/80).
E’ possibile, secondo la Corte di Giustizia che, a causa delle differenze linguistiche, culturali, sociali ed economiche tra gli Stati membri, un marchio che è privo di carattere distintivo o è descrittivo dei prodotti o dei servizi interessati in uno Stato membro non lo sia in un altro Stato membro (per analogia sentenza 26 novembre 1996, causa C-313/94).
In applicazione di tale giurisprudenza, la Corte riporta, quindi, nelle motivazioni della sentenza in esame che il principio della libera circolazione delle merci non vieta ad uno Stato membro di registrare, come marchio nazionale, un segno che nella lingua di un altro Stato membro è descrittivo dei prodotti o servizi considerati.
3. Conclusioni
Con la sentenza in esame la Corte di Giustizia consacra, quindi, il principio che l’articolo 3, n. 1, lettere b) e c), della Direttiva sui Marchi non osta alla registrazione in uno Stato membro, come marchio nazionale, di un vocabolo mutuato dalla lingua di un altro Stato membro nella quale è privo di carattere distintivo o è descrittivo dei prodotti o dei servizi per i quali si chiede la registrazione, a meno che gli ambienti interessati nello Stato membro nel quale si chiede la registrazione siano in grado di individuare il significato di detto vocabolo.
Rimane, tuttavia, aperta, ed in parte irrisolta, la questione relativa a come la predetta condizione possa essere valutata in concreto in casi futuri dato che le considerazioni della Corte di Giustizia sul punto sono piuttosto generiche; soluzione evidentemente rimessa all’elaborazione giurisprudenziale di ciascun paese membro dell’Unione Europea.