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La funzione costituzionale svolta dall’avvocato

“Omnes legum servi sumus uti liberi esse possimus” Cicerone.

I. L’età dei diritti ed il rule of law.

1. L’approvazione del D.L. 223/2006 (il c.d. decreto Bersani, convertito in L. 248, del 4.08.2006), che ha costretto l’avvocatura italiana ad un’eclatante protesta pubblica al punto da sfociare nella prolungata astensione dalle attività di udienza (pur nella consapevolezza della drammatica situazione in cui versa la giustizia processuale italiana), forse ha avuto il merito di avere riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica la peculiarità della funzione sociale (rectius: costituzionale o social-costituzionale) svolta dall’avvocatura ed, anzi, dall’avvocato.

Una funzione che è insostituibile anche, e soprattutto, nell’età dei diritti, come N. Bobbio ha denominato la storia costituzionale moderna (rectius: quella contemporanea), caratterizzata com’è dal rovesciamento dell’atavico rapporto verticistico-organicistico tra Stato e cittadini, in forza del quale si è passati dalla priorità dei doveri dei sudditi alla priorità dei diritti del cittadino.

Ma quando parliamo di diritti dell’uomo (oggetto di tutta una serie di Dichiarazioni, di cui la più “completa” è oggi la Carta dei diritti fondamentali, approvata a Nizza il 7.12.2000), parliamo pur sempre di: “diritti storici, cioè nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre” [N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990, p. XIII]. Ciò significa che i diritti sono una conquista ‘precaria’, che pertanto necessitano di una difesa costante al cui svolgimento concorrono vari organismi, non solo costituzionali bensì anche istituzionali e sociali, nonché soggetti professionali. Tra questi ultimi si distingue l’avvocatura, che in quanto libera professione risulta la prima ad essere stata regolamentata in Italia, con la L. 1938, dell’8 giugno 1874.

Va subito precisato che l’espressione ‘avvocatura’ ha una valenza polisensa, poiché indica sia la libera professione dell’avvocato, così come la funzione da questi svolta, sia l’organizzazione degli avvocati in ordini e associazioni. Non di meno, nel presente saggio si farà un uso differenziato dei due termini, preferendo utilizzare quello di avvocato per indicare tanto il singolo professionista, quanto la funzione da questi svolta nell’attuale assetto costituzionale; ed impiegando, perciò, quello di avvocatura con riferimento alla complessa organizzazione, per istituzioni ed associazioni, degli avvocati italiani. Si precisa, altresì (per i lettori estranei al mondo forense), che mentre il Consiglio Nazionale Forense (C.N.F.) è l’organo istituzionale di vertice dell’avvocatura italiana; l’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana (O.U.A) è l’organizzazione di rappresentanza politica dell’avvocatura, nella quale confluiscono tutte le istituzioni ed associazioni forensi. Ed è stata proprio la Giunta dell’O.U.A., su concorde parere del C.N.F., di tutti gli Ordini forensi e su mandato ricevuto dall’Assemblea generale degli Ordini Forensi, che ha deliberato l’astensione dalle udienze (civili, penali, amministrative e tributarie) dell’intera avvocatura italiana ai sensi, e per gli effetti, dell’art. 2, e 2bis, della L. 146/90. Astensione che riprenderà, dal 18 al 22 settembre, in concomitanza con lo svolgimento del Congresso Nazionale Forense, in programma a Roma dal 21 al 24 settembre.

In tal modo gli avvocati, consapevoli della loro funzione insostituibile, hanno deciso di contestare il decreto Bersani a tutela della loro indipendenza, dal momento che le tariffe giudiziali sono poste a garanzia della loro funzione sociale di tutori del diritto di difesa, nella consapevolezza di svolgere una funzione essenziale nell’amministrazione della giustizia e, dunque, nell’attuazione dell’ordinamento costituzionale dei diritti, nella conoscenza delle leggi che lo contraddistinguono, nella difesa del cittadino improntata sui principi di legalità e del favor libertatis, che non a caso presiedono il c.d. giusto processo, proprio perché nessun diritto è conquistato “una volta per sempre”.

C’è, infatti, il rischio che, per dirla con le parole del Prof. G. Alpa, attuale Presidente del C.N.F., più che ad un processo di liberalizzazione le libere professioni siano, a cominciare dalla professione forense, “assoggettate ad un processo di mercificazione” e che “la nostra professione esca dimidiata da interventi che rischiano di evaporarne la specificità e di mortificarne i valori fondanti”.

L’avvocatura italiana, tramite il suo organo di vertice, è talmente consapevole degli appena cennati rischi, quanto della funzione costituzionale svolta dalla classe forense, da avere introdotto, tra le recenti modifiche apportate al Codice Deontologico Forense (C.D.F.), ed approvate dal C.N.F. nella seduta del 27 gennaio 2006, un nuovo secondo canone nell’art. 7 (che disciplina il “dovere di fedeltà” dell’avvocato) che così recita: “L’avvocato deve esercitare la sua attività anche nel rispetto dei doveri che la sua funzione gli impone verso la collettività per la salvaguardia dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato e di ogni altro potere”.

Si tratta di una norma (tecnicamente denominata “canone complementare”) che specifica ulteriormente quella che possiamo definire, latu senso, la funzione costituzionale dell’avvocato, oggetto del presente studio, peraltro già messa in evidenza dal dettato normativo del Preambolo del C.D.F. (vedi infra), e che impone all’avvocato, nell’esercizio della sua professione, il rispetto del c.d. principio della doppia fedeltà al cliente e all’ordinamento costituzionale, in quanto principio che impronta di se la posizione sociale dell’avvocato.

La prima parte del suddetto articolo recita, infatti, che: “È dovere dell’avvocato svolgere con fedeltà la propria attività professionale. I. Costituisce infrazione disciplinare il comportamento dell’avvocato che compia consapevolmente atti contrari all’interesse del proprio assistito”.

E’ il caso di dire nulla quaestio, nel senso che la prima parte dell’art. 7 non pone problemi di interpretazione. Il dovere di fedeltà, infatti, coincide nell’obbligo imposto all’avvocato di non recare pregiudizio alla parte assistita, né con dolo né con colpa, a vantaggio della controparte giudiziaria. Fedeltà alla parte assistita, dunque, ma al contempo (in base anche al dettato normativo dell’anzidetto nuovo secondo canone complementare) gli viene richiesta anche la fedeltà all’ordinamento costituzionale inteso nella sua dimensione normativa procedente-afferente dal c.d. Stato-comunità, poiché il primo ‘cliente’ dell’avvocato è il costituzionalismo. Ne segue che poiché quella dell’avvocato è una vita informata, innanzitutto, all’etica professionale, l’avvocato dovrebbe evitare di diventare un uomo ‘egoista’, sensibile solo alle ragioni dei clienti che gli hanno concesso direttamente la procura ad lites, ed in particolare ai clienti che sono più solvibili economicamente, per rendersi potenzialmente disponibile alla difesa di ogni soggetto di diritto che si trovi nelle condizioni di dovere resistere ad un’offesa, provenisse anche dalle stesse “istituzioni democratiche” (cosa purtroppo affatto rara).

La professione forense, infatti, in quanto professione liberale, è del tutto svincolata da diretti rapporti di subalternità allo Stato-istituzione, in quanto l’avvocato è un libero professionista chiamato a tutelare l’esigenze della collettività sociale, attraverso la tutela dei diritti della persona-individuo, in un contesto di certezza del diritto che egli stesso deve contribuire a promuovere e difendere. Per tali ragioni ha prestato sì giuramento di svolgere i suoi doveri professionali per i fini della giustizia e gli interessi superiori della nazione, ma con quest’ultima espressione si deve intendere non già lo Stato-istituzione bensì la collettività sociale organizzata secondo i principi del costituzionalismo liberale al cui servizio sono poste le istituzioni medesime e non viceversa.

2. Bisogna, tuttavia, riconoscere che la coscienza deontologica dell’avvocato ‘medio’ fa tuttora fatica a misurarsi con il C.D.F. che, peraltro, è una recente conquista dell’avvocatura italiana, frutto di quel potere di autonormazione riconosciutogli dall’ordinamento giuridico. D’altra parte la storia del nostro paese dimostra che è nel corpo dell’avvocatura che il costituzionalismo ha fatto più fatica a penetrare, perché non può essere un caso che solo nel 1997 sia stato approvato il C.D.F..

Tant’è che è convinzione radicata, non solo tra la gente comune bensì anche tra una parte (si spera minoritaria) degli stessi avvocati, che l’attività forense sia, in ultima analisi, una libera professione intellettuale ancorché disciplinata (da un punto di vista non solo deontologico) anche da un suo specifico ordinamento giuridico, ossia dall’ordinamento forense. Una convinzione che è ora ‘colpita’ nuovamente, per così dire, dall’introduzione del suddetto nuovo canone complementare, all’art. 7, che rinvia al dettato normativo del Preambolo del C.D.F..

Non si tratta di parole afferenti alla mera retorica! Il Danovi definisce la professione intellettuale: “un’attività organizzata personalmente nel rispetto dei fini sociali ad essa collegati, e disciplinata con l’iscrizione all’albo, nell’autonomia degli organi professionali” [Remo Danovi, Corso di Ordinamento forense e Deontologia, Giuffré, Molano, 2003, p. 7]. Ma per definire la professione dell’avvocato, che è senz’altro una professione intellettuale, specifica che la medesima si configura come l’attività intellettuale: “diretta alla conoscenza delle leggi, all’attuazione dell’ordinamento, alla difesa della libertà, per anche l’inviolabilità della difesa, la regolarità del giudizio e del contraddittorio” [Idem, p. 279].

La professione forense, dunque, pur essendo una professione liberale, ha caratteristiche del tutto peculiari, e ciò lo si capisce già solo dal contenuto del giuramento prestato per ottenere l’iscrizione all’albo professionale. Il giuramento è prestato, infatti, ai sensi dell’art. 12 della L.P.F., in una pubblica udienza del tribunale con la recitazione della seguente formula di rito: “giuro di adempiere i miei doveri professionali con lealtà, onore e diligenza, per i fini della giustizia e gli interessi superiori della nazione”. Non risulta che vi sia un’altra professione liberale fondata sulla prestazione di un simile impegno solenne, e dunque si tratta di una professione con caratteristiche del tutto peculiari benché non di natura istituzionali.

Vale la pena di sottolineare, a tal’ultimo proposito, che non è per niente la stessa cosa dire funzione costituzionale e funzione istituzionale, ancorché tali funzioni siano tra loro complementari così come dialetticamente complementari sono, l’uno rispetto all’altro, lo Stato-comunità e lo Stato-istituzione. Per funzione costituzionale si deve, in nuce, intendere quell’attività volta a far sì da rendere sempre meno distanti, tra di loro, la costituzione ‘formale’ dalla costituzione ‘materiale’ (C. Mortati), al fine di fare corrispondere all’espressione sub lege libertas una realtà di natura effettuale (e non una mera affermazione retorica).

3. All’avvocato, pertanto, è assegnata la funzione di tutelare l’effettivo rispetto dei diritti della persona, e dei suoi interessi legittimi, anche nei confronti dello Stato-istituzione in modo che siano rispettati tutti i diritti consacrati nella Carta costituzionale.

Conseguentemente l’avvocato, in quanto libero professionista, è al diretto servizio della Costituzione e delle libertà fondamentali. L’avvocato non è un uomo delle istituzioni ma un servitore del rule of law, del governo delle leggi, espressione della collettività sociale (c.d. Stato-comunità) poiché: “L’avvocato vive nella società in cui opera e la sua condotta deve concorrere a determinarla. La sua funzione è essenziale e la sua funzione insostituibile; e la sua funzione non cambia nel tempo, nella difesa delle leggi, delle libertà, delle persone” [Idem, p. 337]. Per tale ragione la legge, intesa come dura lex sed lex, viene quotidianamente interpretata dall’avvocato in funzione della tutela dei diritti, ed in questo senso la sua opera è essenziale alla stessa magistratura (senz’altro espressione, invece, dello Stato-istituzione), la cui attività giurisprudenziale sarebbe impensabile senza quella svolta dall’avvocato, e dalla sua attività di difesa, che necessariamente costringe la magistratura ad un incessante opera ermeneutica.

Il Codice Rocco, ex art. 359, stabilisce che l’attività forense rientra in quella categoria professionale definita nei termini di “servizio di pubblica necessità”. Per svolgere, infatti, la professione forense è necessario: laurearsi in giurisprudenza, ottenere la susseguente autorizzazione da parte dello Stato (la c.d. abilitazione) e, dipoi, prestare il detto giuramento ed iscriversi all’Albo dell’Ordine forense costituito presso il circondario di tribunale nel cui territorio ha fissato il proprio domicilio professionale.

Sennonché il legislatore ha ritenuto, deliberando l’entrata in vigore della L. 146/90, che l’avvocato svolga addirittura un “servizio pubblico essenziale”, ossia una funzione a tal punto indispensabile da risultare inconferente sostenere che anche l’avvocato può esercitare il diritto di sciopero. L’avvocato, al contrario, può solo ‘astenersi’ dallo svolgimento di attività di udienza, qualora sia stata proclamata l’astensione dagli organi forensi, in conformità dell’art. 39 del C.D.F. e nel rispetto della normativa disposta ai sensi della L. 146/90, poiché tale diritto non ricade sotto la prestazione dell’art. 40 della Costituzione.

Sulla questione inerente alla corretta interpretazione dell’art. 1, di detta legge, è intervenuta la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 171/96, nella quale si osserva che: “l’obiettivo della legge n. 146 è la garanzia dei servizi pubblici essenziali, costruita com’è in funzione della tutela dei beni fondamentali della persona: l’articolo 1, comma 1, è in tal senso emblematico, ma la restante parte della legge - nel mirare esclusivamente alla protezione dall’abuso del diritto di sciopero - non appresta una razionale e coerente disciplina che includa tutte le altre manifestazioni collettive capaci di comprimere detti valori primari”. La Corte prosegue poi constatando che: “la salvaguardia degli spazi di libertà riservati ai singoli, e ai gruppi, che ispira la prima parte della Carta costituzionale non esclude che vi siano altri valori costituzionali meritevoli di tutela, come s’intravede nell’impianto della legge n. 146, dove vengono in rilievo diritti fondamentali - quello di azione e quello di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione - che sono attribuiti ai soggetti destinatari, a vario titolo, della funzione giurisdizionale. Ora, avendo l’esperienza rivelato le carenze della legge n. 146, si impone una più ampia regolamentazione anche in riferimento all’astensione collettiva dal lavoro non qualificabile, per l’assenza dei suoi tratti tipici, come esercizio del diritto di sciopero; e si richiedono, quanto meno, un congruo preavviso e un ragionevole limite temporale di durata, peraltro già previsti da codici di autoregolamentazione recentemente adottati da vari organismi professionali che, tuttavia, non hanno efficacia generale”.

Sulla base di queste considerazioni, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, commi 1 e 5 della L. n. 146/90 “nella parte in cui non prevede, nel caso dell’astensione collettiva dall’attività giudiziaria degli avvocati e dei procuratori legali, l’obbligo di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione e non prevede altresì gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure consequenziali nell’ipotesi di inosservanza”.

II. La natura normativa del C.D.F. e il dovere di fedeltà costituzionale.

4. Ciò precisato, va ora detto che l’entrata in vigore del C.D.F. (approvato dal C.N.F. nella seduta del 17 aprile 1997) ha colmato una sorta di vuoto normativo (recte: deontologico, ed in tal senso si pensi all’importanza dell’art. 39, in riferimento a quanto appena sopra precisato), poiché lo studio delle sue norme consentono di comprendere più appieno la peculiarità della professione forense appena illustrata, a patto che lo si prenda in considerazione nel suo insieme, ossia quale momento equilibratore essenziale per il miglioramento complessivo dell’attività professionale.

Ne deriva che la prima necessaria precisazione da fare riguarda la natura delle norme deontologiche, che sono state considerate, da molti e forse tuttora, espressione di principi morali, affidate all’esperienza e alla coscienza di ciascuno (quasi si trattasse di una giustizia interna e soggettiva, non riconducibile ad un sistema positivo ed organico).

Ebbene: un simile ragionamento risulta essere tanto corretto quanto riduttivo, poiché la comune coscienza etica (Danovi), cui il Codice punta a consolidare, trova il suo terreno di radicazione all’interno dell’ordinamento giuridico italiano e non in una visione morale, per quanto alta, volta a promuovere la coscienza etica dei singoli avvocati, in un contesto di idem sentire de repubblica.

Sulla questione si è definitivamente pronunciata la Corte di Cassazione, a SS. UU., con la sentenza n. 8225 del 6.06.2002, la quale ha stabilito che: “le norme del codice deontologico approvato dal Consiglio Nazionale Forense il 4 aprile 1997 si qualificano norme giuridiche vincolanti nell’ambito dell’ordinamento di categoria, che trovano fondamento nei principi dettati dalla legge professionale forense di cui al R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578, ed in particolare nell’art. 12, comma 1°, che impone agli avvocati di <adempiere al loro ministero con dignità e con decoro, come si conviene all’altezza della funzione che sono chiamati ad esercitare nell’amministrazione della giustizia>, e nell’art. 38 comma 1°, ai sensi del quale sono sottoposti a procedimento disciplinare gli avvocati <che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione forense o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale>”.

Non va, perciò, confuso il contenuto degli articoli (che può essere etico, come avviene per molte delle disposizioni civili o penali) con la loro natura normativa, che è determinata dal loro inserimento all’interno dell’ordinamento giuridico professionale e dalla loro “efficacia coattiva”. Tant’è che la violazione delle norme deontologiche comporta sanzioni giuridiche, espressamente previste dall’ordinamento che sono irrogate, se dovute, a conclusione di un procedimento giurisdizionale (che prevede un primo grado ed un grado di appello), con l’eventuale controllo finale delle sezioni unite della Cassazione in sede di legittimità.

Non vi sarebbe invero questo procedimento giurisdizionale, se si fosse rimasti nell’ambito puro e semplice dell’applicazione di una norma morale.

5. Veniamo ora al testo del Preambolo, con il quale si apre il C.D.F., il cui testo espone il contenuto della funzione costituzionale, che è chiamato a svolgere l’avvocato, con le seguenti parole: "L’avvocato esercita la propria attività in piena libertà, autonomia ed indipendenza, per tutelare i diritti e gli interessi della persona, assicurando la conoscenza delle leggi e contribuendo in tal modo all’attuazione dell’Ordinamento per fini della giustizia. Nell’esercizio della sua funzione, l’avvocato vigila sulla conformità delle leggi al principio della Costituzione, nel rispetto della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e dell’Ordinamento comunitario; garantisce il diritto alla libertà e sicurezza e l’inviolabilità della difesa; assicura la responsabilità del giudizio e del contraddittorio. Le norme deontologiche sono essenziali per la realizzazione e la tutela di questi valori".

Tutto si potrà dire, ivi incluso che il testo dice troppo e con troppa retorica (per quanto appropriata), fuorché che il suo contenuto ponga dei problemi di natura interpretativa. Caso mai va rilevato che i sessanta articoli del C.D.F. (salvo l’art. 7), rispetto al testo del Preambolo, esprimono un complesso normativo solo indirettamente riconducibile al suo ‘denso’ contenuto: mancano, per così dire, degli articoli di raccordo tra il Preambolo e l’articolato deontologico.

Il Preambolo, come del resto acutamente rilevato dal prof. Danovi, indica: “i valori cui si ispira l’attività forense (è la mission o il credo, secondo la terminologia usata in altri paesi)” e rappresenta, perciò, il fundamentum inconcussum nel quale si radica il principio della “doppia fedeltà” suaccennata, cui è tenuto l’avvocato: ossia verso la parte assistita e verso l’ordinamento giuridico costituzionale.

E’ inutile, tuttavia, nascondersi il fatto che tali parole, prima facie, appaiono tanto “elevate” quanto “retoriche”, e che il comune sentire dell’uomo della strada stenta a rilevare una simile funzione nell’esercizio dell’attività forense. Ed è poi molto probabile che tale consapevolezza non si ritrovi nel modo di essere di molti avvocati, e ciò perché de facto prevale un’interpretazione “egoista” della libera professione forense. La prassi dimostra che è diffusa l’errata opinione che tende a vedere nella professione forense una mera professione liberale e, dunque, un’attività essenzialmente disciplinata dalle regole stabilite dal codice civile, artt. 2229-2238 e dipoi dagli artt. 1703-1730. Ovvio che alcun avvocato ignora di essere passibile di un ulteriore duplice profilo di responsabilità, tanto penale quanto disciplinare. Non di meno persiste una concezione ‘privatistica’ della professione, che fa perno essenzialmente sullo spirito di impresa e guarda al diritto secondo lo schema del contratto.

Chi la pensa in tal’ultima guisa, ritiene che caso mai sia il giurista a dovere svolgere la suddetta funzione costituzionale, ed anzi che essa debba essere svolta soprattutto dal legislatore parlamentare ed, ovviamente, dalla Magistratura ed in primis dai giudici della Corte Costituzionale. Al contrario, appare evidente che tale funzione debba essere svolta, ed anzi sia svolta, da molteplici organi, tra i quali vi deve essere anche l’avvocatura, al fine di difendere il sistema costituzionale, e dunque di salvaguardare i diritti e le libertà fondamentali.

Più in particolare, la funzione costituzionale svolta dall’avvocato è improntata al combinato normativo disposto dagli art. 2, 3, 24-28 della Carta costituzionale. Pertanto, l’avvocato (inteso, ovviamente, non come singola persona, bensì come funzione civile ineludibile) non è un semplice “uomo di legge” (come il magistrato o il docente di diritto), bensì un ‘chiamato’ (=advocatus) all’applicazione della legge in termini di difesa giudiziaria.

Il sostantivo advocatus, infatti, deriva da advocatum, participio passato di advocare (in ius), che alla lettera significa “chiamare in giudizio”. Non è un caso, perciò, che l’avvocato rediga la vocatio in ius, in tal modo coadiuvando lo Stato, in forza del principio di “doppia fedeltà”, a far sì che le controversie non degenerino in forme di autotutela violenta (ne cives ad arma ruant).

L’avvocato, perciò, è un libero professionista che coniuga, in se, l’uomo di legge e l’uomo liberale. E poiché la Costituzione altro non è che la Legge fondamentale dello Stato, in quanto tale vertice dell’ordinamento giuridico, l’avvocato è chiamato a far conoscere-attuare, le leggi ed in particolar modo la c.d. legge delle leggi ossia la Costituzione, nello svolgimento del suo ministero di difensore del cittadino come dello straniero. Ed è per tale ragione di fondo che l’avvocato, pur non essendo uno studioso (in senso professionale) del diritto positivo, può svolgere anche l’attività di insegnamento (senza dipendenze da un datore di lavoro, salvo che non si tratti di professori universitari o di istituti secondari statali), e perfino di magistrato onorario (per es. di Giudice di Pace), in quanto uomo volto all’estrinsecazione della law in action, là dove questa impone il c.d. diritto di difesa ed alla difesa, ai sensi degli art. 24-28 del dettato costituzionale.

6. Il Consiglio Nazionale Forense ha da sempre qualificato la funzione dell’avvocato come di rango costituzionale. Tale impostazione discende non solo dal fatto che nella Costituzione si parla di difesa agli artt. 24 e 111, bensì perché senza l’avvocato non c’è l’attuazione dell’ordinamento: né spontanea né coattiva. L’avvocato, infatti, è colui che assistendo il proprio cliente, interpreta la legge al fine di suggerirgli i comportamenti applicativi nella vita ordinaria; mentre nell’eventualità di un processo, nel quale si chiede l’attuazione coattiva della legge, è di palmare evidenza che senza l’avvocato non è possibile l’attuazione coattiva dell’ordinamento.

Un concetto ribadito fin dall’incipit del Preambolo, con cui si apre lo Statuto dell’O.U.A., là dove recita che: “L’avvocatura italiana svolge funzioni costituzionali nell’ambito della giurisdizione e, nel più vasto contesto sociale, contribuisce alla conoscenza ed all’attuazione dei diritti e degli interessi soggettivi, concorrendo alla tutela della legalità e all’effettiva applicazione dei principi di uguaglianza e di libertà”.

Tenuto conto della valenza polisensa della parola avvocatura, si può sinteticamente affermare che l’avvocato assicura la conoscenza della legge e contribuisce, in sede di difesa giudiziaria, all’attuazione dell’ordinamento per fini di giustizia.

Il C.D.F. inizia con il Preambolo, si è detto, ma non rende ragione del percorso filosofico-giuridico che costituisce la base su cui quest’ultimo poggia. Non di meno, è evidente che il Codice presuppone la complessa vicenda inerente alla storia dello ius, dalla Roma antica ai nostri giorni, cui è informato il ruolo sia dell’avvocato che del giudice.

In questa sede dobbiamo ritenere come acquisiti in toto i principi filosofici sottesi, limitandoci a definire come arte o professione forense quel complesso di conoscenze e di abilità che, in quanto ben radicate nel dettato tanto costituzionale quanto nel diritto sostanziale codificato (ma entrambi interpretati alla luce del c.d. diritto vivente, ovverosia dall’interpretazione consolidata della giurisprudenza di legittimità e di legittimità costituzionale), permettono all’avvocato di compiere le valutazioni necessarie alla tutela dell’interesse del proprio assistito, rendendo la legge comprensibile e consentendo, così, a quest’ultimo di effettuare le proprie scelte in piena consapevolezza.

Ma nel fare tutto ciò, l’avvocato deve evitare di ‘sposare’ a tal punto le richieste dell’assistito fino a violare il dovere di agire, sempre e comunque, nel rispetto degli interessi superiori dell’ordine costituzionale stabilito. Per stigmatizzare tale principio il C.N.F. ha approvato il nuovo secondo canone dell’art 7, stabilendo che: “L’avvocato deve esercitare la sua attività anche nel rispetto dei doveri che la sua funzione gli impone verso la collettività per la salvaguardia dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato e di ogni altro potere”.

Di modo che possiamo concludere affermando che, in ultima analisi, il primo dovere dell’avvocato, pur rispettoso del principio della doppia fedeltà, è quello della lealtà nei confronti dell’ordinamento costituzionale. Non a caso l’avvocato presta il suo obbligatorio giuramento recitando le seguenti parole: "giuro di adempiere ai miei doveri professionali con lealtà onore e diligenza per i fini della Giustizia e per gli interessi della Nazione".

L’avvocato può senz’altro rifiutarsi di difendere determinati soggetti sociali, ed anzi ha sempre il diritto-dovere di ‘denunciare’ coloro che attentano all’ordine costituzionale, inteso non tanto come ordine istituzionale ‘governativo’ quanto come ordine normativo ossia come rule of law. Il diritto di difesa, infatti, non ha niente a che fare con la complicità con la parte assistita, ed anzi sono molteplici le figure di illecito penale previste dalla legge a carico dell’avvocato risultato infedele ai doveri inerenti alla sua funzione costituzionale.

III. Dimensione istituzionale e indipendenza costituzionale.

7. Che l’avvocato svolga una funzione costituzionale essenziale lo si può constatare, in via definitiva, osservando quelle che sono le caratteristiche costitutive del C.N.F. che è molto più di un mero organo rappresentativo di una specifica categoria professionale.

Alla formazione in concreto, infatti, del governo delle leggi concorrono molteplici organi o corpi, oltre a quelli istituzionali (rectius: organi costituzionali-istituzionali: Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale), in cui si inseriscono a pieno titolo non solo le formazioni sociali, di cui all’art. 2 della Cost., bensì anche importanti organismi socio-istituzionali. Tra questi ultimi spicca l’avvocatura, in quanto complessa organizzazione istituzionale-associativa degli avvocati italiani, che svolge un’effettiva funzione ‘istituzionale’ di raccordo tra lo Stato- istituzione e lo Stato-comunità, al fine di garantire l’effettivo esercizio, in regime di libertà, del diritto di difesa della persona da parte degli avvocati.

Il Consiglio Nazionale Forense, le cui funzioni sono disciplinate dal R.D.L. n. 1573, del 27.11.1933, e dal R.D. n. 37, del 22.1.1934, in quanto massimo organismo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura è, infatti, espressione sì della classe forense nella sua unitarietà ma anche dell’apparato pubblico statuale in quanto si tratta di un ente pubblico associativo (Prof. G. Alpa). Il Consiglio, non a caso, ha sede in Roma presso il Ministero di Grazia e Giustizia, ed è composto da tanti membri quanti sono i Distretti delle Corti di Appello e cioè ventisei, eletti tra gli avvocati ammessi al patrocinio avanti le magistrature superiori.

Sorge spontanea, tuttavia, una domanda: ma non c’è contraddizione tra la più volte ribadita autonomia dell’avvocatura, a motivo della sua vocazione costituzionale, con una simile organizzazione istituzionale facente, addirittura, capo al Ministero di Grazia e Giustizia?

No, non c’è contraddizione, poiché abbiamo avuto modo già di rilevare che la parola avvocatura non è sinonimo di avvocato, bensì di organismo istituzionale degli avvocati italiani. Ed è tale organismo che svolge, a differenza dell’avvocato, una necessaria funzione istituzionale, al punto che la garanzia che viviamo in uno Stato di diritto discende non solo dal fatto che la legge prevede la costituzione di specifici Organi forensi, bensì che la stessa consenta la libera costituzione di enti associativi di natura privatistica tra cui, dal 1994, primeggia l’O.U.A. (Organismo Unitario dell’Avvocatura) che è stato costituito per dare all’avvocatura italiana un’unitaria rappresentanza politica.

Ed anzi va detto che l’indipendenza dell’avvocato è salvaguardata grazie alla sua dimensione, in termini di avvocatura, tanto associativa quanto istituzionale (che parte, peraltro, dal basso ossia dagli Ordini istituiti presso la circoscrizione territoriale di ogni tribunale della Repubblica), che in alcun caso assurge le sembianze di un organismo sovrano cui sono subordinati gli avvocati, dalle Alpi alla Sicilia, alla stregua di una mera organizzazione gerarchica. Tutt’altro, poiché lo stesso C.N.F. è un organismo volto a tutelare la libertà dell’avvocato, intesa come libera professione nella configurazione costituzionalista fin qui delineata.

Le principali attribuzioni del C.N.F. sono: la funzione giurisdizionale, che si realizza nel giudicare sui ricorsi proposti avverso le decisioni degli Ordini territoriali in materia disciplinare; la tenuta degli albi e di reclami elettorali; la funzione consultiva sui progetti normativi che riguardano, direttamente e indirettamente, la professione forense.

Il C.N.F., inoltre, provvede alla tenuta dell’Albo degli Avvocati abilitati dinanzi alle magistrature superiori, da il suo parere sullo scioglimento dei Consigli degli Ordini, designa gli avvocati quali componenti le Commissioni di esame di abilitazione, approva e coordina i programmi delle scuole forensi e redige, aggiorna e propone le tariffe professionali.

Per tali ragioni il C.N.F. è un organo non solo espressione dell’ordinamento forense bensì dell’ordinamento statuale, al quale, per legge, sono demandati poteri giurisdizionali e di amministrazione. Ed anzi ad esso è attribuita una sorta di giurisdizione esclusiva, anteriore alla normativa costituzionale, nei confronti degli avvocati italiani, che mai è stata posta in dubbio dalla stessa giurisprudenza costituzionale. La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 189 del 2001, ha confermato la giurisprudenza che riconosce i crismi della giurisdizionalità al procedimento decisorio che si svolge dinanzi al C.N.F., richiamando le proprie rigorose statuizioni in ordine ai profili oggettivi e soggettivi che debbono conformare tale attività.

Particolare rilevanza, in subiecta materia, riveste l’autorevole intervenuto del Prof. G. Alpa, svolto nell’ambito della relazione tenuta alla seduta inaugurale dell’anno 2005 del C.N.F., allorché ha sottolineato che il C.N.F., in quanto giudice speciale, sia legittimato a: “sollevare questione di legittimità costituzionale di norme che si trovi ad applicare in giudizio”. Ciò significa che detta prerogativa “può essere letta come l’occasione offerta ad un gruppo professionale organizzato di promuovere, nel rispetto dei requisiti oggettivi e soggettivi che l’ordinamento richiede ai fini della corretta instaurazione del sindacato di costituzionalità delle leggi, il vaglio di costituzionalità su decisioni legislative che si assumono lesive di norme costituzionali”. Ed ancora significa che la “sollevazione di una questione di costituzionalità, da parte del C.N.F., consente alla Corte costituzionale di conoscere di norme che difficilmente potrebbero accedere al suo sindacato per il tramite di un incidente afferente ad un giudizio ordinario”.

Per quanto, invece, concerne l’organizzazione territoriale dell’avvocatura italiana, il Prof. G. Alpa, ha giustamente affermato che gli stessi: “Ordini forensi sono organizzazioni sociali integrate nell’apparato pubblico, cui il legislatore assegna l’esercizio di pubbliche funzioni secondo il principio di sussidiarietà (si pensi alle recenti leggi sulla difesa d’ufficio e sul gratuito patrocino). Non è ostativo, all’esercizio di queste funzioni pubbliche, il fatto che gli Ordini svolgano anche la funzione di rappresentare e tutelare gli interessi dell’Avvocatura. Lungi dall’esprimere una vocazione neocorporativa, questa duplice funzione coniuga la tutela di interessi pubblici e di interessi collettivi. La dialettica tra i due momenti, quello pubblicistico e quello di tutela di gruppo, è un dato peculiare di ogni ente pubblico associativo, anzi ne costituisce forse il carattere più tipico, nel quale si specchia, sul piano individuale, quella doppia fedeltà al cliente e alla legge che segna il tratto fondamentale dello status dell’avvocato”.

8. Ma tutto ciò è reso possibile solo, e soltanto, in ultima analisi, dall’intrinseca funzione costituzionale svolta dall’avvocato (inteso non certo come singola persona, ma appunto come ruolo sociale), che trova una delle sue massime esplicitazioni nella giurisdizione di esclusività concessa al C.N.F., in materia disciplinare, che non ha riscontro in alcun altro organismo paritario, in forza della quale può giungere a sollevare anche eccezioni di legittimità costituzionale. D’altra parte è ben difficile negare che la funzione svolta dall’avvocato sia essenziale perfino a quella svolta dal giudice, la quale è seguita e controllata non solo dalla nomofilachia esercitata dalla Suprema Corte, ma anche dall’accreditamento delle regole giurisprudenziali da parte di quella che potrebbe essere denominata la comunità ermeneutica forense.

L’attività ermeneutica, infatti, volta alla corretta interpretazione dell’ordinamento giuridico, coinvolge tutti i conditores della cultura giuridica, ivi inclusa non solo la dottrina, ma dipoi anche l’avvocato. Nella maggior parte dei casi si deve all’avvocato, insiste ancora il Prof. G. Alpa, il merito di segnalare al giudice “nuove vie interpretative, di sollevare questioni precedentemente ignorate, di escogitare e suggerire nuove soluzioni. E’ merito dell’avvocato contribuire all’adattamento dell’ordinamento giuridico alle esigenze della vita moderna”, anche se poi la sua ‘voce’ non emerge nel dictum delle sentenze giudiziarie.

Affermazioni che risultano ancor più vere nell’attuale contesto di lento, ma irreversibile, processo di decodificazione (N. Irti) che sta caratterizzando i paesi del c. d. sistema di civil law approdati sulle sponde della democrazia contrattualista. All’alba (ma forse siamo già andati oltre) dell’avvento di una sorta di novum ius publicum europaeum, direttamente collegato al processo europeista che ormai coinvolge venticinque paesi europei, l’avvocato è più che mai chiamato a partecipare alla costruzione di un diritto processuale, tanto civile che penale (soprattutto penale…..), in grado di rendere fruibile per l’uomo della strada i benefici propri dell’età dei diritti.

Si tratta di un compito che va assolto nella costante laboriosità della vita quotidiana, ma che non può essere svolto prescindendo dall’assunzione di un’esplicita scelta di indirizzo politico, volta a favorire l’effettivo avvento di uno ius privatorum nelle forme di un ‘ritorno’ alla giurisprudenza dello ius commune. Solo a queste condizioni si può convenire con Bobbio che “solo il potere può creare il diritto e solo il diritto può limitare il potere” [N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1995, p. XXIV].

Non si tratta, peraltro, di avviare un’opera ex nihilo, bensì di continuare un percorso che nello specifico è un collaudato percorso ermeneutico, del tutto inserito nella storia della statualità moderna e volto a stabilizzare il governo delle leggi ex parte populi.

E poiché ho iniziato citando Bobbio, vale la pena che lo citi ancora là dove esprime tutta la sua preferenza per la democrazia politica intesa nell’unica accezione possibile, per noi post-moderni, ossia come potere delle leggi. “Che cosa è la democrazia se non un insieme di regole (le cosiddette regole del gioco) per la soluzione dei conflitti senza spargimento di sangue? E in che cosa consiste il buon governo democratico se non, anzitutto, nel rigoroso rispetto delle regole? Personalmente non ho dubbi sulla risposta a queste domande. E proprio perché non ho dubbi, posso concludere tranquillamente che la democrazia è il governo delle leggi per eccellenza” [ N. Bobbio, idem, p. 193].

“Omnes legum servi sumus uti liberi esse possimus” Cicerone.

I. L’età dei diritti ed il rule of law.

1. L’approvazione del D.L. 223/2006 (il c.d. decreto Bersani, convertito in L. 248, del 4.08.2006), che ha costretto l’avvocatura italiana ad un’eclatante protesta pubblica al punto da sfociare nella prolungata astensione dalle attività di udienza (pur nella consapevolezza della drammatica situazione in cui versa la giustizia processuale italiana), forse ha avuto il merito di avere riproposto all’attenzione dell’opinione pubblica la peculiarità della funzione sociale (rectius: costituzionale o social-costituzionale) svolta dall’avvocatura ed, anzi, dall’avvocato.

Una funzione che è insostituibile anche, e soprattutto, nell’età dei diritti, come N. Bobbio ha denominato la storia costituzionale moderna (rectius: quella contemporanea), caratterizzata com’è dal rovesciamento dell’atavico rapporto verticistico-organicistico tra Stato e cittadini, in forza del quale si è passati dalla priorità dei doveri dei sudditi alla priorità dei diritti del cittadino.

Ma quando parliamo di diritti dell’uomo (oggetto di tutta una serie di Dichiarazioni, di cui la più “completa” è oggi la Carta dei diritti fondamentali, approvata a Nizza il 7.12.2000), parliamo pur sempre di: “diritti storici, cioè nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre” [N. Bobbio, L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990, p. XIII]. Ciò significa che i diritti sono una conquista ‘precaria’, che pertanto necessitano di una difesa costante al cui svolgimento concorrono vari organismi, non solo costituzionali bensì anche istituzionali e sociali, nonché soggetti professionali. Tra questi ultimi si distingue l’avvocatura, che in quanto libera professione risulta la prima ad essere stata regolamentata in Italia, con la L. 1938, dell’8 giugno 1874.

Va subito precisato che l’espressione ‘avvocatura’ ha una valenza polisensa, poiché indica sia la libera professione dell’avvocato, così come la funzione da questi svolta, sia l’organizzazione degli avvocati in ordini e associazioni. Non di meno, nel presente saggio si farà un uso differenziato dei due termini, preferendo utilizzare quello di avvocato per indicare tanto il singolo professionista, quanto la funzione da questi svolta nell’attuale assetto costituzionale; ed impiegando, perciò, quello di avvocatura con riferimento alla complessa organizzazione, per istituzioni ed associazioni, degli avvocati italiani. Si precisa, altresì (per i lettori estranei al mondo forense), che mentre il Consiglio Nazionale Forense (C.N.F.) è l’organo istituzionale di vertice dell’avvocatura italiana; l’Organismo Unitario dell’Avvocatura Italiana (O.U.A) è l’organizzazione di rappresentanza politica dell’avvocatura, nella quale confluiscono tutte le istituzioni ed associazioni forensi. Ed è stata proprio la Giunta dell’O.U.A., su concorde parere del C.N.F., di tutti gli Ordini forensi e su mandato ricevuto dall’Assemblea generale degli Ordini Forensi, che ha deliberato l’astensione dalle udienze (civili, penali, amministrative e tributarie) dell’intera avvocatura italiana ai sensi, e per gli effetti, dell’art. 2, e 2bis, della L. 146/90. Astensione che riprenderà, dal 18 al 22 settembre, in concomitanza con lo svolgimento del Congresso Nazionale Forense, in programma a Roma dal 21 al 24 settembre.

In tal modo gli avvocati, consapevoli della loro funzione insostituibile, hanno deciso di contestare il decreto Bersani a tutela della loro indipendenza, dal momento che le tariffe giudiziali sono poste a garanzia della loro funzione sociale di tutori del diritto di difesa, nella consapevolezza di svolgere una funzione essenziale nell’amministrazione della giustizia e, dunque, nell’attuazione dell’ordinamento costituzionale dei diritti, nella conoscenza delle leggi che lo contraddistinguono, nella difesa del cittadino improntata sui principi di legalità e del favor libertatis, che non a caso presiedono il c.d. giusto processo, proprio perché nessun diritto è conquistato “una volta per sempre”.

C’è, infatti, il rischio che, per dirla con le parole del Prof. G. Alpa, attuale Presidente del C.N.F., più che ad un processo di liberalizzazione le libere professioni siano, a cominciare dalla professione forense, “assoggettate ad un processo di mercificazione” e che “la nostra professione esca dimidiata da interventi che rischiano di evaporarne la specificità e di mortificarne i valori fondanti”.

L’avvocatura italiana, tramite il suo organo di vertice, è talmente consapevole degli appena cennati rischi, quanto della funzione costituzionale svolta dalla classe forense, da avere introdotto, tra le recenti modifiche apportate al Codice Deontologico Forense (C.D.F.), ed approvate dal C.N.F. nella seduta del 27 gennaio 2006, un nuovo secondo canone nell’art. 7 (che disciplina il “dovere di fedeltà” dell’avvocato) che così recita: “L’avvocato deve esercitare la sua attività anche nel rispetto dei doveri che la sua funzione gli impone verso la collettività per la salvaguardia dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato e di ogni altro potere”.

Si tratta di una norma (tecnicamente denominata “canone complementare”) che specifica ulteriormente quella che possiamo definire, latu senso, la funzione costituzionale dell’avvocato, oggetto del presente studio, peraltro già messa in evidenza dal dettato normativo del Preambolo del C.D.F. (vedi infra), e che impone all’avvocato, nell’esercizio della sua professione, il rispetto del c.d. principio della doppia fedeltà al cliente e all’ordinamento costituzionale, in quanto principio che impronta di se la posizione sociale dell’avvocato.

La prima parte del suddetto articolo recita, infatti, che: “È dovere dell’avvocato svolgere con fedeltà la propria attività professionale. I. Costituisce infrazione disciplinare il comportamento dell’avvocato che compia consapevolmente atti contrari all’interesse del proprio assistito”.

E’ il caso di dire nulla quaestio, nel senso che la prima parte dell’art. 7 non pone problemi di interpretazione. Il dovere di fedeltà, infatti, coincide nell’obbligo imposto all’avvocato di non recare pregiudizio alla parte assistita, né con dolo né con colpa, a vantaggio della controparte giudiziaria. Fedeltà alla parte assistita, dunque, ma al contempo (in base anche al dettato normativo dell’anzidetto nuovo secondo canone complementare) gli viene richiesta anche la fedeltà all’ordinamento costituzionale inteso nella sua dimensione normativa procedente-afferente dal c.d. Stato-comunità, poiché il primo ‘cliente’ dell’avvocato è il costituzionalismo. Ne segue che poiché quella dell’avvocato è una vita informata, innanzitutto, all’etica professionale, l’avvocato dovrebbe evitare di diventare un uomo ‘egoista’, sensibile solo alle ragioni dei clienti che gli hanno concesso direttamente la procura ad lites, ed in particolare ai clienti che sono più solvibili economicamente, per rendersi potenzialmente disponibile alla difesa di ogni soggetto di diritto che si trovi nelle condizioni di dovere resistere ad un’offesa, provenisse anche dalle stesse “istituzioni democratiche” (cosa purtroppo affatto rara).

La professione forense, infatti, in quanto professione liberale, è del tutto svincolata da diretti rapporti di subalternità allo Stato-istituzione, in quanto l’avvocato è un libero professionista chiamato a tutelare l’esigenze della collettività sociale, attraverso la tutela dei diritti della persona-individuo, in un contesto di certezza del diritto che egli stesso deve contribuire a promuovere e difendere. Per tali ragioni ha prestato sì giuramento di svolgere i suoi doveri professionali per i fini della giustizia e gli interessi superiori della nazione, ma con quest’ultima espressione si deve intendere non già lo Stato-istituzione bensì la collettività sociale organizzata secondo i principi del costituzionalismo liberale al cui servizio sono poste le istituzioni medesime e non viceversa.

2. Bisogna, tuttavia, riconoscere che la coscienza deontologica dell’avvocato ‘medio’ fa tuttora fatica a misurarsi con il C.D.F. che, peraltro, è una recente conquista dell’avvocatura italiana, frutto di quel potere di autonormazione riconosciutogli dall’ordinamento giuridico. D’altra parte la storia del nostro paese dimostra che è nel corpo dell’avvocatura che il costituzionalismo ha fatto più fatica a penetrare, perché non può essere un caso che solo nel 1997 sia stato approvato il C.D.F..

Tant’è che è convinzione radicata, non solo tra la gente comune bensì anche tra una parte (si spera minoritaria) degli stessi avvocati, che l’attività forense sia, in ultima analisi, una libera professione intellettuale ancorché disciplinata (da un punto di vista non solo deontologico) anche da un suo specifico ordinamento giuridico, ossia dall’ordinamento forense. Una convinzione che è ora ‘colpita’ nuovamente, per così dire, dall’introduzione del suddetto nuovo canone complementare, all’art. 7, che rinvia al dettato normativo del Preambolo del C.D.F..

Non si tratta di parole afferenti alla mera retorica! Il Danovi definisce la professione intellettuale: “un’attività organizzata personalmente nel rispetto dei fini sociali ad essa collegati, e disciplinata con l’iscrizione all’albo, nell’autonomia degli organi professionali” [Remo Danovi, Corso di Ordinamento forense e Deontologia, Giuffré, Molano, 2003, p. 7]. Ma per definire la professione dell’avvocato, che è senz’altro una professione intellettuale, specifica che la medesima si configura come l’attività intellettuale: “diretta alla conoscenza delle leggi, all’attuazione dell’ordinamento, alla difesa della libertà, per anche l’inviolabilità della difesa, la regolarità del giudizio e del contraddittorio” [Idem, p. 279].

La professione forense, dunque, pur essendo una professione liberale, ha caratteristiche del tutto peculiari, e ciò lo si capisce già solo dal contenuto del giuramento prestato per ottenere l’iscrizione all’albo professionale. Il giuramento è prestato, infatti, ai sensi dell’art. 12 della L.P.F., in una pubblica udienza del tribunale con la recitazione della seguente formula di rito: “giuro di adempiere i miei doveri professionali con lealtà, onore e diligenza, per i fini della giustizia e gli interessi superiori della nazione”. Non risulta che vi sia un’altra professione liberale fondata sulla prestazione di un simile impegno solenne, e dunque si tratta di una professione con caratteristiche del tutto peculiari benché non di natura istituzionali.

Vale la pena di sottolineare, a tal’ultimo proposito, che non è per niente la stessa cosa dire funzione costituzionale e funzione istituzionale, ancorché tali funzioni siano tra loro complementari così come dialetticamente complementari sono, l’uno rispetto all’altro, lo Stato-comunità e lo Stato-istituzione. Per funzione costituzionale si deve, in nuce, intendere quell’attività volta a far sì da rendere sempre meno distanti, tra di loro, la costituzione ‘formale’ dalla costituzione ‘materiale’ (C. Mortati), al fine di fare corrispondere all’espressione sub lege libertas una realtà di natura effettuale (e non una mera affermazione retorica).

3. All’avvocato, pertanto, è assegnata la funzione di tutelare l’effettivo rispetto dei diritti della persona, e dei suoi interessi legittimi, anche nei confronti dello Stato-istituzione in modo che siano rispettati tutti i diritti consacrati nella Carta costituzionale.

Conseguentemente l’avvocato, in quanto libero professionista, è al diretto servizio della Costituzione e delle libertà fondamentali. L’avvocato non è un uomo delle istituzioni ma un servitore del rule of law, del governo delle leggi, espressione della collettività sociale (c.d. Stato-comunità) poiché: “L’avvocato vive nella società in cui opera e la sua condotta deve concorrere a determinarla. La sua funzione è essenziale e la sua funzione insostituibile; e la sua funzione non cambia nel tempo, nella difesa delle leggi, delle libertà, delle persone” [Idem, p. 337]. Per tale ragione la legge, intesa come dura lex sed lex, viene quotidianamente interpretata dall’avvocato in funzione della tutela dei diritti, ed in questo senso la sua opera è essenziale alla stessa magistratura (senz’altro espressione, invece, dello Stato-istituzione), la cui attività giurisprudenziale sarebbe impensabile senza quella svolta dall’avvocato, e dalla sua attività di difesa, che necessariamente costringe la magistratura ad un incessante opera ermeneutica.

Il Codice Rocco, ex art. 359, stabilisce che l’attività forense rientra in quella categoria professionale definita nei termini di “servizio di pubblica necessità”. Per svolgere, infatti, la professione forense è necessario: laurearsi in giurisprudenza, ottenere la susseguente autorizzazione da parte dello Stato (la c.d. abilitazione) e, dipoi, prestare il detto giuramento ed iscriversi all’Albo dell’Ordine forense costituito presso il circondario di tribunale nel cui territorio ha fissato il proprio domicilio professionale.

Sennonché il legislatore ha ritenuto, deliberando l’entrata in vigore della L. 146/90, che l’avvocato svolga addirittura un “servizio pubblico essenziale”, ossia una funzione a tal punto indispensabile da risultare inconferente sostenere che anche l’avvocato può esercitare il diritto di sciopero. L’avvocato, al contrario, può solo ‘astenersi’ dallo svolgimento di attività di udienza, qualora sia stata proclamata l’astensione dagli organi forensi, in conformità dell’art. 39 del C.D.F. e nel rispetto della normativa disposta ai sensi della L. 146/90, poiché tale diritto non ricade sotto la prestazione dell’art. 40 della Costituzione.

Sulla questione inerente alla corretta interpretazione dell’art. 1, di detta legge, è intervenuta la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 171/96, nella quale si osserva che: “l’obiettivo della legge n. 146 è la garanzia dei servizi pubblici essenziali, costruita com’è in funzione della tutela dei beni fondamentali della persona: l’articolo 1, comma 1, è in tal senso emblematico, ma la restante parte della legge - nel mirare esclusivamente alla protezione dall’abuso del diritto di sciopero - non appresta una razionale e coerente disciplina che includa tutte le altre manifestazioni collettive capaci di comprimere detti valori primari”. La Corte prosegue poi constatando che: “la salvaguardia degli spazi di libertà riservati ai singoli, e ai gruppi, che ispira la prima parte della Carta costituzionale non esclude che vi siano altri valori costituzionali meritevoli di tutela, come s’intravede nell’impianto della legge n. 146, dove vengono in rilievo diritti fondamentali - quello di azione e quello di difesa di cui all’art. 24 della Costituzione - che sono attribuiti ai soggetti destinatari, a vario titolo, della funzione giurisdizionale. Ora, avendo l’esperienza rivelato le carenze della legge n. 146, si impone una più ampia regolamentazione anche in riferimento all’astensione collettiva dal lavoro non qualificabile, per l’assenza dei suoi tratti tipici, come esercizio del diritto di sciopero; e si richiedono, quanto meno, un congruo preavviso e un ragionevole limite temporale di durata, peraltro già previsti da codici di autoregolamentazione recentemente adottati da vari organismi professionali che, tuttavia, non hanno efficacia generale”.

Sulla base di queste considerazioni, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 2, commi 1 e 5 della L. n. 146/90 “nella parte in cui non prevede, nel caso dell’astensione collettiva dall’attività giudiziaria degli avvocati e dei procuratori legali, l’obbligo di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell’astensione e non prevede altresì gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure consequenziali nell’ipotesi di inosservanza”.

II. La natura normativa del C.D.F. e il dovere di fedeltà costituzionale.

4. Ciò precisato, va ora detto che l’entrata in vigore del C.D.F. (approvato dal C.N.F. nella seduta del 17 aprile 1997) ha colmato una sorta di vuoto normativo (recte: deontologico, ed in tal senso si pensi all’importanza dell’art. 39, in riferimento a quanto appena sopra precisato), poiché lo studio delle sue norme consentono di comprendere più appieno la peculiarità della professione forense appena illustrata, a patto che lo si prenda in considerazione nel suo insieme, ossia quale momento equilibratore essenziale per il miglioramento complessivo dell’attività professionale.

Ne deriva che la prima necessaria precisazione da fare riguarda la natura delle norme deontologiche, che sono state considerate, da molti e forse tuttora, espressione di principi morali, affidate all’esperienza e alla coscienza di ciascuno (quasi si trattasse di una giustizia interna e soggettiva, non riconducibile ad un sistema positivo ed organico).

Ebbene: un simile ragionamento risulta essere tanto corretto quanto riduttivo, poiché la comune coscienza etica (Danovi), cui il Codice punta a consolidare, trova il suo terreno di radicazione all’interno dell’ordinamento giuridico italiano e non in una visione morale, per quanto alta, volta a promuovere la coscienza etica dei singoli avvocati, in un contesto di idem sentire de repubblica.

Sulla questione si è definitivamente pronunciata la Corte di Cassazione, a SS. UU., con la sentenza n. 8225 del 6.06.2002, la quale ha stabilito che: “le norme del codice deontologico approvato dal Consiglio Nazionale Forense il 4 aprile 1997 si qualificano norme giuridiche vincolanti nell’ambito dell’ordinamento di categoria, che trovano fondamento nei principi dettati dalla legge professionale forense di cui al R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578, ed in particolare nell’art. 12, comma 1°, che impone agli avvocati di <adempiere al loro ministero con dignità e con decoro, come si conviene all’altezza della funzione che sono chiamati ad esercitare nell’amministrazione della giustizia>, e nell’art. 38 comma 1°, ai sensi del quale sono sottoposti a procedimento disciplinare gli avvocati <che si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione forense o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale>”.

Non va, perciò, confuso il contenuto degli articoli (che può essere etico, come avviene per molte delle disposizioni civili o penali) con la loro natura normativa, che è determinata dal loro inserimento all’interno dell’ordinamento giuridico professionale e dalla loro “efficacia coattiva”. Tant’è che la violazione delle norme deontologiche comporta sanzioni giuridiche, espressamente previste dall’ordinamento che sono irrogate, se dovute, a conclusione di un procedimento giurisdizionale (che prevede un primo grado ed un grado di appello), con l’eventuale controllo finale delle sezioni unite della Cassazione in sede di legittimità.

Non vi sarebbe invero questo procedimento giurisdizionale, se si fosse rimasti nell’ambito puro e semplice dell’applicazione di una norma morale.

5. Veniamo ora al testo del Preambolo, con il quale si apre il C.D.F., il cui testo espone il contenuto della funzione costituzionale, che è chiamato a svolgere l’avvocato, con le seguenti parole: "L’avvocato esercita la propria attività in piena libertà, autonomia ed indipendenza, per tutelare i diritti e gli interessi della persona, assicurando la conoscenza delle leggi e contribuendo in tal modo all’attuazione dell’Ordinamento per fini della giustizia. Nell’esercizio della sua funzione, l’avvocato vigila sulla conformità delle leggi al principio della Costituzione, nel rispetto della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e dell’Ordinamento comunitario; garantisce il diritto alla libertà e sicurezza e l’inviolabilità della difesa; assicura la responsabilità del giudizio e del contraddittorio. Le norme deontologiche sono essenziali per la realizzazione e la tutela di questi valori".

Tutto si potrà dire, ivi incluso che il testo dice troppo e con troppa retorica (per quanto appropriata), fuorché che il suo contenuto ponga dei problemi di natura interpretativa. Caso mai va rilevato che i sessanta articoli del C.D.F. (salvo l’art. 7), rispetto al testo del Preambolo, esprimono un complesso normativo solo indirettamente riconducibile al suo ‘denso’ contenuto: mancano, per così dire, degli articoli di raccordo tra il Preambolo e l’articolato deontologico.

Il Preambolo, come del resto acutamente rilevato dal prof. Danovi, indica: “i valori cui si ispira l’attività forense (è la mission o il credo, secondo la terminologia usata in altri paesi)” e rappresenta, perciò, il fundamentum inconcussum nel quale si radica il principio della “doppia fedeltà” suaccennata, cui è tenuto l’avvocato: ossia verso la parte assistita e verso l’ordinamento giuridico costituzionale.

E’ inutile, tuttavia, nascondersi il fatto che tali parole, prima facie, appaiono tanto “elevate” quanto “retoriche”, e che il comune sentire dell’uomo della strada stenta a rilevare una simile funzione nell’esercizio dell’attività forense. Ed è poi molto probabile che tale consapevolezza non si ritrovi nel modo di essere di molti avvocati, e ciò perché de facto prevale un’interpretazione “egoista” della libera professione forense. La prassi dimostra che è diffusa l’errata opinione che tende a vedere nella professione forense una mera professione liberale e, dunque, un’attività essenzialmente disciplinata dalle regole stabilite dal codice civile, artt. 2229-2238 e dipoi dagli artt. 1703-1730. Ovvio che alcun avvocato ignora di essere passibile di un ulteriore duplice profilo di responsabilità, tanto penale quanto disciplinare. Non di meno persiste una concezione ‘privatistica’ della professione, che fa perno essenzialmente sullo spirito di impresa e guarda al diritto secondo lo schema del contratto.

Chi la pensa in tal’ultima guisa, ritiene che caso mai sia il giurista a dovere svolgere la suddetta funzione costituzionale, ed anzi che essa debba essere svolta soprattutto dal legislatore parlamentare ed, ovviamente, dalla Magistratura ed in primis dai giudici della Corte Costituzionale. Al contrario, appare evidente che tale funzione debba essere svolta, ed anzi sia svolta, da molteplici organi, tra i quali vi deve essere anche l’avvocatura, al fine di difendere il sistema costituzionale, e dunque di salvaguardare i diritti e le libertà fondamentali.

Più in particolare, la funzione costituzionale svolta dall’avvocato è improntata al combinato normativo disposto dagli art. 2, 3, 24-28 della Carta costituzionale. Pertanto, l’avvocato (inteso, ovviamente, non come singola persona, bensì come funzione civile ineludibile) non è un semplice “uomo di legge” (come il magistrato o il docente di diritto), bensì un ‘chiamato’ (=advocatus) all’applicazione della legge in termini di difesa giudiziaria.

Il sostantivo advocatus, infatti, deriva da advocatum, participio passato di advocare (in ius), che alla lettera significa “chiamare in giudizio”. Non è un caso, perciò, che l’avvocato rediga la vocatio in ius, in tal modo coadiuvando lo Stato, in forza del principio di “doppia fedeltà”, a far sì che le controversie non degenerino in forme di autotutela violenta (ne cives ad arma ruant).

L’avvocato, perciò, è un libero professionista che coniuga, in se, l’uomo di legge e l’uomo liberale. E poiché la Costituzione altro non è che la Legge fondamentale dello Stato, in quanto tale vertice dell’ordinamento giuridico, l’avvocato è chiamato a far conoscere-attuare, le leggi ed in particolar modo la c.d. legge delle leggi ossia la Costituzione, nello svolgimento del suo ministero di difensore del cittadino come dello straniero. Ed è per tale ragione di fondo che l’avvocato, pur non essendo uno studioso (in senso professionale) del diritto positivo, può svolgere anche l’attività di insegnamento (senza dipendenze da un datore di lavoro, salvo che non si tratti di professori universitari o di istituti secondari statali), e perfino di magistrato onorario (per es. di Giudice di Pace), in quanto uomo volto all’estrinsecazione della law in action, là dove questa impone il c.d. diritto di difesa ed alla difesa, ai sensi degli art. 24-28 del dettato costituzionale.

6. Il Consiglio Nazionale Forense ha da sempre qualificato la funzione dell’avvocato come di rango costituzionale. Tale impostazione discende non solo dal fatto che nella Costituzione si parla di difesa agli artt. 24 e 111, bensì perché senza l’avvocato non c’è l’attuazione dell’ordinamento: né spontanea né coattiva. L’avvocato, infatti, è colui che assistendo il proprio cliente, interpreta la legge al fine di suggerirgli i comportamenti applicativi nella vita ordinaria; mentre nell’eventualità di un processo, nel quale si chiede l’attuazione coattiva della legge, è di palmare evidenza che senza l’avvocato non è possibile l’attuazione coattiva dell’ordinamento.

Un concetto ribadito fin dall’incipit del Preambolo, con cui si apre lo Statuto dell’O.U.A., là dove recita che: “L’avvocatura italiana svolge funzioni costituzionali nell’ambito della giurisdizione e, nel più vasto contesto sociale, contribuisce alla conoscenza ed all’attuazione dei diritti e degli interessi soggettivi, concorrendo alla tutela della legalità e all’effettiva applicazione dei principi di uguaglianza e di libertà”.

Tenuto conto della valenza polisensa della parola avvocatura, si può sinteticamente affermare che l’avvocato assicura la conoscenza della legge e contribuisce, in sede di difesa giudiziaria, all’attuazione dell’ordinamento per fini di giustizia.

Il C.D.F. inizia con il Preambolo, si è detto, ma non rende ragione del percorso filosofico-giuridico che costituisce la base su cui quest’ultimo poggia. Non di meno, è evidente che il Codice presuppone la complessa vicenda inerente alla storia dello ius, dalla Roma antica ai nostri giorni, cui è informato il ruolo sia dell’avvocato che del giudice.

In questa sede dobbiamo ritenere come acquisiti in toto i principi filosofici sottesi, limitandoci a definire come arte o professione forense quel complesso di conoscenze e di abilità che, in quanto ben radicate nel dettato tanto costituzionale quanto nel diritto sostanziale codificato (ma entrambi interpretati alla luce del c.d. diritto vivente, ovverosia dall’interpretazione consolidata della giurisprudenza di legittimità e di legittimità costituzionale), permettono all’avvocato di compiere le valutazioni necessarie alla tutela dell’interesse del proprio assistito, rendendo la legge comprensibile e consentendo, così, a quest’ultimo di effettuare le proprie scelte in piena consapevolezza.

Ma nel fare tutto ciò, l’avvocato deve evitare di ‘sposare’ a tal punto le richieste dell’assistito fino a violare il dovere di agire, sempre e comunque, nel rispetto degli interessi superiori dell’ordine costituzionale stabilito. Per stigmatizzare tale principio il C.N.F. ha approvato il nuovo secondo canone dell’art 7, stabilendo che: “L’avvocato deve esercitare la sua attività anche nel rispetto dei doveri che la sua funzione gli impone verso la collettività per la salvaguardia dei diritti dell’uomo nei confronti dello Stato e di ogni altro potere”.

Di modo che possiamo concludere affermando che, in ultima analisi, il primo dovere dell’avvocato, pur rispettoso del principio della doppia fedeltà, è quello della lealtà nei confronti dell’ordinamento costituzionale. Non a caso l’avvocato presta il suo obbligatorio giuramento recitando le seguenti parole: "giuro di adempiere ai miei doveri professionali con lealtà onore e diligenza per i fini della Giustizia e per gli interessi della Nazione".

L’avvocato può senz’altro rifiutarsi di difendere determinati soggetti sociali, ed anzi ha sempre il diritto-dovere di ‘denunciare’ coloro che attentano all’ordine costituzionale, inteso non tanto come ordine istituzionale ‘governativo’ quanto come ordine normativo ossia come rule of law. Il diritto di difesa, infatti, non ha niente a che fare con la complicità con la parte assistita, ed anzi sono molteplici le figure di illecito penale previste dalla legge a carico dell’avvocato risultato infedele ai doveri inerenti alla sua funzione costituzionale.

III. Dimensione istituzionale e indipendenza costituzionale.

7. Che l’avvocato svolga una funzione costituzionale essenziale lo si può constatare, in via definitiva, osservando quelle che sono le caratteristiche costitutive del C.N.F. che è molto più di un mero organo rappresentativo di una specifica categoria professionale.

Alla formazione in concreto, infatti, del governo delle leggi concorrono molteplici organi o corpi, oltre a quelli istituzionali (rectius: organi costituzionali-istituzionali: Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica e la Corte Costituzionale), in cui si inseriscono a pieno titolo non solo le formazioni sociali, di cui all’art. 2 della Cost., bensì anche importanti organismi socio-istituzionali. Tra questi ultimi spicca l’avvocatura, in quanto complessa organizzazione istituzionale-associativa degli avvocati italiani, che svolge un’effettiva funzione ‘istituzionale’ di raccordo tra lo Stato- istituzione e lo Stato-comunità, al fine di garantire l’effettivo esercizio, in regime di libertà, del diritto di difesa della persona da parte degli avvocati.

Il Consiglio Nazionale Forense, le cui funzioni sono disciplinate dal R.D.L. n. 1573, del 27.11.1933, e dal R.D. n. 37, del 22.1.1934, in quanto massimo organismo di rappresentanza istituzionale dell’avvocatura è, infatti, espressione sì della classe forense nella sua unitarietà ma anche dell’apparato pubblico statuale in quanto si tratta di un ente pubblico associativo (Prof. G. Alpa). Il Consiglio, non a caso, ha sede in Roma presso il Ministero di Grazia e Giustizia, ed è composto da tanti membri quanti sono i Distretti delle Corti di Appello e cioè ventisei, eletti tra gli avvocati ammessi al patrocinio avanti le magistrature superiori.

Sorge spontanea, tuttavia, una domanda: ma non c’è contraddizione tra la più volte ribadita autonomia dell’avvocatura, a motivo della sua vocazione costituzionale, con una simile organizzazione istituzionale facente, addirittura, capo al Ministero di Grazia e Giustizia?

No, non c’è contraddizione, poiché abbiamo avuto modo già di rilevare che la parola avvocatura non è sinonimo di avvocato, bensì di organismo istituzionale degli avvocati italiani. Ed è tale organismo che svolge, a differenza dell’avvocato, una necessaria funzione istituzionale, al punto che la garanzia che viviamo in uno Stato di diritto discende non solo dal fatto che la legge prevede la costituzione di specifici Organi forensi, bensì che la stessa consenta la libera costituzione di enti associativi di natura privatistica tra cui, dal 1994, primeggia l’O.U.A. (Organismo Unitario dell’Avvocatura) che è stato costituito per dare all’avvocatura italiana un’unitaria rappresentanza politica.

Ed anzi va detto che l’indipendenza dell’avvocato è salvaguardata grazie alla sua dimensione, in termini di avvocatura, tanto associativa quanto istituzionale (che parte, peraltro, dal basso ossia dagli Ordini istituiti presso la circoscrizione territoriale di ogni tribunale della Repubblica), che in alcun caso assurge le sembianze di un organismo sovrano cui sono subordinati gli avvocati, dalle Alpi alla Sicilia, alla stregua di una mera organizzazione gerarchica. Tutt’altro, poiché lo stesso C.N.F. è un organismo volto a tutelare la libertà dell’avvocato, intesa come libera professione nella configurazione costituzionalista fin qui delineata.

Le principali attribuzioni del C.N.F. sono: la funzione giurisdizionale, che si realizza nel giudicare sui ricorsi proposti avverso le decisioni degli Ordini territoriali in materia disciplinare; la tenuta degli albi e di reclami elettorali; la funzione consultiva sui progetti normativi che riguardano, direttamente e indirettamente, la professione forense.

Il C.N.F., inoltre, provvede alla tenuta dell’Albo degli Avvocati abilitati dinanzi alle magistrature superiori, da il suo parere sullo scioglimento dei Consigli degli Ordini, designa gli avvocati quali componenti le Commissioni di esame di abilitazione, approva e coordina i programmi delle scuole forensi e redige, aggiorna e propone le tariffe professionali.

Per tali ragioni il C.N.F. è un organo non solo espressione dell’ordinamento forense bensì dell’ordinamento statuale, al quale, per legge, sono demandati poteri giurisdizionali e di amministrazione. Ed anzi ad esso è attribuita una sorta di giurisdizione esclusiva, anteriore alla normativa costituzionale, nei confronti degli avvocati italiani, che mai è stata posta in dubbio dalla stessa giurisprudenza costituzionale. La stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 189 del 2001, ha confermato la giurisprudenza che riconosce i crismi della giurisdizionalità al procedimento decisorio che si svolge dinanzi al C.N.F., richiamando le proprie rigorose statuizioni in ordine ai profili oggettivi e soggettivi che debbono conformare tale attività.

Particolare rilevanza, in subiecta materia, riveste l’autorevole intervenuto del Prof. G. Alpa, svolto nell’ambito della relazione tenuta alla seduta inaugurale dell’anno 2005 del C.N.F., allorché ha sottolineato che il C.N.F., in quanto giudice speciale, sia legittimato a: “sollevare questione di legittimità costituzionale di norme che si trovi ad applicare in giudizio”. Ciò significa che detta prerogativa “può essere letta come l’occasione offerta ad un gruppo professionale organizzato di promuovere, nel rispetto dei requisiti oggettivi e soggettivi che l’ordinamento richiede ai fini della corretta instaurazione del sindacato di costituzionalità delle leggi, il vaglio di costituzionalità su decisioni legislative che si assumono lesive di norme costituzionali”. Ed ancora significa che la “sollevazione di una questione di costituzionalità, da parte del C.N.F., consente alla Corte costituzionale di conoscere di norme che difficilmente potrebbero accedere al suo sindacato per il tramite di un incidente afferente ad un giudizio ordinario”.

Per quanto, invece, concerne l’organizzazione territoriale dell’avvocatura italiana, il Prof. G. Alpa, ha giustamente affermato che gli stessi: “Ordini forensi sono organizzazioni sociali integrate nell’apparato pubblico, cui il legislatore assegna l’esercizio di pubbliche funzioni secondo il principio di sussidiarietà (si pensi alle recenti leggi sulla difesa d’ufficio e sul gratuito patrocino). Non è ostativo, all’esercizio di queste funzioni pubbliche, il fatto che gli Ordini svolgano anche la funzione di rappresentare e tutelare gli interessi dell’Avvocatura. Lungi dall’esprimere una vocazione neocorporativa, questa duplice funzione coniuga la tutela di interessi pubblici e di interessi collettivi. La dialettica tra i due momenti, quello pubblicistico e quello di tutela di gruppo, è un dato peculiare di ogni ente pubblico associativo, anzi ne costituisce forse il carattere più tipico, nel quale si specchia, sul piano individuale, quella doppia fedeltà al cliente e alla legge che segna il tratto fondamentale dello status dell’avvocato”.

8. Ma tutto ciò è reso possibile solo, e soltanto, in ultima analisi, dall’intrinseca funzione costituzionale svolta dall’avvocato (inteso non certo come singola persona, ma appunto come ruolo sociale), che trova una delle sue massime esplicitazioni nella giurisdizione di esclusività concessa al C.N.F., in materia disciplinare, che non ha riscontro in alcun altro organismo paritario, in forza della quale può giungere a sollevare anche eccezioni di legittimità costituzionale. D’altra parte è ben difficile negare che la funzione svolta dall’avvocato sia essenziale perfino a quella svolta dal giudice, la quale è seguita e controllata non solo dalla nomofilachia esercitata dalla Suprema Corte, ma anche dall’accreditamento delle regole giurisprudenziali da parte di quella che potrebbe essere denominata la comunità ermeneutica forense.

L’attività ermeneutica, infatti, volta alla corretta interpretazione dell’ordinamento giuridico, coinvolge tutti i conditores della cultura giuridica, ivi inclusa non solo la dottrina, ma dipoi anche l’avvocato. Nella maggior parte dei casi si deve all’avvocato, insiste ancora il Prof. G. Alpa, il merito di segnalare al giudice “nuove vie interpretative, di sollevare questioni precedentemente ignorate, di escogitare e suggerire nuove soluzioni. E’ merito dell’avvocato contribuire all’adattamento dell’ordinamento giuridico alle esigenze della vita moderna”, anche se poi la sua ‘voce’ non emerge nel dictum delle sentenze giudiziarie.

Affermazioni che risultano ancor più vere nell’attuale contesto di lento, ma irreversibile, processo di decodificazione (N. Irti) che sta caratterizzando i paesi del c. d. sistema di civil law approdati sulle sponde della democrazia contrattualista. All’alba (ma forse siamo già andati oltre) dell’avvento di una sorta di novum ius publicum europaeum, direttamente collegato al processo europeista che ormai coinvolge venticinque paesi europei, l’avvocato è più che mai chiamato a partecipare alla costruzione di un diritto processuale, tanto civile che penale (soprattutto penale…..), in grado di rendere fruibile per l’uomo della strada i benefici propri dell’età dei diritti.

Si tratta di un compito che va assolto nella costante laboriosità della vita quotidiana, ma che non può essere svolto prescindendo dall’assunzione di un’esplicita scelta di indirizzo politico, volta a favorire l’effettivo avvento di uno ius privatorum nelle forme di un ‘ritorno’ alla giurisprudenza dello ius commune. Solo a queste condizioni si può convenire con Bobbio che “solo il potere può creare il diritto e solo il diritto può limitare il potere” [N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1995, p. XXIV].

Non si tratta, peraltro, di avviare un’opera ex nihilo, bensì di continuare un percorso che nello specifico è un collaudato percorso ermeneutico, del tutto inserito nella storia della statualità moderna e volto a stabilizzare il governo delle leggi ex parte populi.

E poiché ho iniziato citando Bobbio, vale la pena che lo citi ancora là dove esprime tutta la sua preferenza per la democrazia politica intesa nell’unica accezione possibile, per noi post-moderni, ossia come potere delle leggi. “Che cosa è la democrazia se non un insieme di regole (le cosiddette regole del gioco) per la soluzione dei conflitti senza spargimento di sangue? E in che cosa consiste il buon governo democratico se non, anzitutto, nel rigoroso rispetto delle regole? Personalmente non ho dubbi sulla risposta a queste domande. E proprio perché non ho dubbi, posso concludere tranquillamente che la democrazia è il governo delle leggi per eccellenza” [ N. Bobbio, idem, p. 193].