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La partecipazione del convivente all’impresa familiare. Note sintetiche

La partecipazione del convivente all’impresa familiare. Note sintetiche
La partecipazione del convivente all’impresa familiare. Note sintetiche

Sommario:

1. In genere

2. Soggetti interessati

3. Diritti del convivente nell’impresa familiare. Raffronto con i diritti del coniuge

4. Carattere residuale dell’impresa familiare

5. Aspetti fiscali

 

1. In genere

La legge 2016, n. 76, nota come legge Cirinnà (costituita da un solo articolo e 69 commi), entrata in vigore il 5 giugno 2016, prevede, fra le sue novità, il riconoscimento dei diritti del convivente quale partecipe all’impresa familiare.

Il comma 46 della legge introduce l’art. 230 ter al codice civile, il quale dispone testualmente:

«al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto di partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato».

Il legislatore ha in tal modo risolto un contrasto dottrinale e giurisprudenziale (confronta Cassazione 15 marzo 2006 n. 5632, Cassazione 29 novembre 2004 e Cassazione 2 maggio 1994 n. 4204) sull’applicabilità della normativa sull’impresa familiare alla convivenza, disponendo comunque una tutela ridotta rispetto quella già accordata al coniuge e agli altri familiari (parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo) dall’art. 230 bis del codice civile.

Come si evince dal raffronto dei testi normativi, la configurazione della nuova disposizione ricalca solo in parte quella dell’impresa familiare “tradizionale”, che costituisce comunque un parametro interpretativo di riferimento.

 

2. Soggetti interessati

Per l’'applicabilità della nuova disciplina dell'impresa familiare prevista dall'articolo in commento è necessario che la convivenza "si instauri tra due persone maggiorenni, unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da unione civile". I conviventi, etero o omosessuali, non devono aver contratto matrimonio o unione civile, né essere parenti tra loro.

Resta comunque aperto il problema se il riconoscimento del rapporto di convivenza debba derivare da un atto formale, quale la dichiarazione anagrafica di convivenza, o possa prescindere dallo stesso.

Ci sembra al riguardo condivisibile la tesi che attribuisce alla dichiarazione di cui sopra effetto di pubblicità notizia, idoneo a rendere la situazione opponibile ai terzi, non anche quindi quello costitutivo del rapporto giuridico, il quale nasce da una situazione di fatto, prescindendo da un atto formale. La dichiarazione anagrafica aggiungerebbe solo valore probatorio allo status di convivente preesistente.

3. Diritti del convivente nell’impresa familiare. Raffronto con i diritti del coniuge

Al convivente di fatto che presti in modo stabile la propria opera nell’ambito dell’impresa dell’altro convivente spetta una partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi di valore dell’azienda, anche in relazione all’avviamento.

La stabilità dell’apporto lavorativo, che implica la continuazione nel tempo dello stesso e la sua non occasionalità, diventa elemento essenziale per la configurazione della situazione.

Il riconoscimento economico va commisurato alla rilevanza del lavoro prestato nell’impresa, non trovando tutela il lavoro domestico, come invece previsto dall’art. 230 bis a favore del coniuge, ancorché finalizzato all’attività d’impresa.

Risulta difficile trovare una giustificazione a questa discriminazione, che sembra prestare il fianco ad una censura di incostituzionalità. A due situazioni del tutto simili, rispondenti alla medesima ratio, quella di tutelare la parte debole del rapporto e di superare la presunzione di gratuità della prestazione di lavoro del familiare, la legge offre, infatti, soluzioni opposte. Appare dunque irragionevole considerare il lavoro domestico del convivente meno apprezzabile di quello di altro familiare.

I diritti di cui si tratta non si estendono ai parenti del convivente, quali ad esempio un genitore, un fratello di questi, che lavorano nell’impresa, così come peraltro si verifica per il partner dell’unione civile, che invece per gli altri aspetti, relativi all’istituto de quo, è equiparato dalla legge al coniuge.

Manca poi il riconoscimento del diritto di prelazione in caso di alienazione dell’azienda. Così ad esempio in caso di vendita di un negozio dove lavorano il fratello ed il convivente del titolare, al primo è riconosciuto il diritto di precedenza nell’acquisto, al secondo negato.

La nuova disposizione non fa poi alcun riferimento all’assunzione delle decisioni aziendali, che quindi devono ritenersi di esclusivo appannaggio del titolare dell’impresa. Diversamente il coniuge (o il partner dell’unione civile) e gli altri familiari hanno diritto di partecipare alle scelte riguardanti l’impiego degli utili, la gestione straordinaria, gli indirizzi produttivi e la cessazione dell’impresa, decisioni che vengono prese a maggioranza. Anche su questo punto la disparità di trattamento appare ingiustificata e presenta dubbi di costituzionalità.

Nella novella non viene poi fatto nessun cenno al diritto al mantenimento, che il legislatore ha forse ritenuto superfluo visto che la legge 76 prevede già per i conviventi gli obblighi di reciproca assistenza familiare, tra i quali, è logico pensare, rientri anche il mantenimento.

4. Carattere residuale dell’impresa familiare

Analogamente a quanto previsto dall’art.230 bis c.c., per il quale la normativa dell’impresa familiare non si applica quando sia configurabile un diverso rapporto che tuteli il partecipante, l’art. 230 ter dispone che il diritto di cui si tratta non compete qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato.

Visto il carattere residuale dell’istituto, quale tutela accordabile in mancanza di altre, riteniamo che lo stesso non si configuri anche quando l’eventuale contratto di convivenza, in ragione del principio di autonomia contrattuale, disponga altri significativi riconoscimenti economici per l’apporto di lavoro, che potrebbero derivare, ad esempio, da un contratto di associazione in partecipazione o di lavoro autonomo. Trattasi, infatti, di materia riguardante le “modalità di contribuzione alle necessità della vita familiare” di cui alla lettera b) comma 53, legge 76, citata.

 

5. Aspetti fiscali

Ci si domanda se l’impresa familiare di cui al nuovo art. 230 ter possa godere degli stessi vantaggi fiscali attribuiti all’impresa familiare disciplinata dal 230 bis, consistenti prevalentemente nella possibilità di ripartire il reddito di impresa fra i familiari partecipanti, con imputazione al titolare di un minimo del 51% (art. 5, comma 4, TUIR). Stante il carattere progressivo dell’IRPEF, che tassa l’imponibile con aliquote crescenti, suddividendo lo stesso fra più persone, il reddito è colpito da aliquote più basse, realizzando un risparmio fiscale complessivo (c.d. splitting).

In attesa di un auspicabile intervento che disciplini gli aspetti fiscali (lo stesso dicasi per quelli previdenziali, vedi Circolare INPS n. 66 del 31 marzo 2017) della innovazione legislativa, per ora sembra ragionevole ritenere che non si possa applicare in modo automatico al convivente il trattamento tributario riservato al coniuge nell’impresa familiare “tradizionale”, considerato anche che la disciplina relativa al 230 bis presenterebbe un carattere eccezionale e, in quanto tale, insuscettibile di applicazione analogica.