La profuga di guerra Ida Irene Dalser
All’indomani della disfatta di Caporetto, centinaia di migliaia di sfollati in gran parte donne, bambini ed anziani, provenienti dalle province del Friuli e del Veneto occupate dall’esercito austro-ungarico, fuggirono verso ovest. A questi si aggiunsero i rimpatriati, ovvero i sudditi del Regno d’Italia espulsi dagli Imperi centrali dal 1915, i profughi espulsi dalla Turchia, dall’altipiano di Asiago e dalle città a ridosso del nuovo fronte di guerra.
Le disposizioni legislative, emanate per gestire tale situazione emergenziale, miravano al censimento dei profughi, alla organizzazione di strutture di accoglienza, all’individuazione e al riconoscimento dello status di profugo al fine di garantire una adeguata assistenza statale. Inizialmente i profughi furono concentrati a Milano e Bologna per poi essere dislocati su tutta la penisola.
A condividere il triste destino toccato alle centinaia di migliaia di persone in fuga dai confini austro-ungarici, c’era Ida Dalser, madre di uno dei figli del Duce.
La peculiarità della storia di Ida è rappresentata dall’intreccio casuale con la vita di Benito Mussolini che sarebbe diventato, da lì a pochi anni, capo del partito nazionale fascista e capo del governo dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943. Benito Mussolini riconoscerà la paternità del piccolo Benitino Albino Mussolini, figlio di Ida Dalser, nato nel novembre del 1915, solo nel gennaio del 1916 e inizierà a versare a favore della Dalser e del piccolo un assegno mensile di £ 200. La Dalser, però, animata da un carattere non facile, non si accontenterà del solo riconoscimento del bambino ma avrebbe voluto che il Duce le riconoscesse lo stato giuridico di moglie, in virtù di un ipotetico matrimonio che avrebbe avuto luogo nella chiesa parrocchiale di Sopramonte (Trento) nel 1914. Intanto Benito Mussolini aveva sposato nel 1915 Rachele Guidi da cui aveva già avuto la figlia Edda.
Nel 1918 Ida, originaria di Sopramonte, frazione di Trento, venne destinata come profuga, insieme al figlioletto, al campo di Piedimonte d’Alife (Caserta) per poi spostarsi temporaneamente a Napoli per esigenze mediche dovute alla infermità del bambino. Ida dichiara infatti di avere un marito che risponde al nome di Benito Mussolini (nelle carte è riportato “Mussolino”, siamo nel 1918 e Benito Mussolini non è ancora salito alle cronache nazionali come capo del fascismo e del governo) e viene descritta come “sempre molto agitata perché affetta da nevrastenìa”.
La documentazione conservata presso l’Archivio di Stato di Napoli, fondo Questura di Napoli, Archivio generale, Seconda serie, Profughi, racconta di una donna in forte difficoltà economica che chiede, ripetutamente e insistentemente, sussidi straordinari per sé e per il figlio che, da quanto si apprende, sarebbe affetto da “sifilide organica ereditaria”.
Nel carteggio la Dalser viene descritta come una donna dal “carattere neuropatico, eccitabilissimo, che non intende ragioni”. Eppure proprio il suo atteggiamento caparbio e poco riverente riuscì a farle ricevere, per diretta disposizione del Ministero dell’Interno, un sussidio eccezionale giornaliero di £ 4,5 prima e di £ 8 poi che, si legge nei documenti, “non trova riscontro in nessun altro profugo”. Non soddisfatta però la Dalser “dandosi ad imperversare di persona o per lettere anche insolenti presso tutti gli Uffici” continua ad avanzare pretese senza misura e a scrivere senza sosta a tutte le autorità finché il Prefetto, che giudica le sue richieste inverosimili, sfinito dalle continue insistenze, rimette la questione direttamente al Ministero dell’Interno. Il Ministero per frenare l’irruenza della richiedente dispone la corresponsione di un sussidio giornaliero straordinario ma anche l’eventuale diffida e il riaccompagnamento presso Piedimonte d’Alife, prima ed ufficiale destinazione, “ove (la Dalser) continui ad importunare con insistenza od altrimenti questo Ministero od altre Autortà”.
Ida alloggerà per buona parte della sua permanenza a Napoli presso “l’Hotel Naples al Rettifilo, camera 46”. Il suo soggiorno e quello del piccolo Benitino a Napoli sono caratterizzati da forti scontri tra la donna e le autorità, come testimonia una relazione stilata dall’Ufficio Profughi della Questura, circa uno spiacevole episodio che la vide protagonista: “La Dalser si è presentata in questo Ufficio con modi addirittura insolenti. Alla stessa è stato detto di ritornare alle ore 15 giacchè la Cassa era chiusa e ha maggiormente inveito contro quelli presenti in Ufficio […] ha cominciato a rivolgere un mondo di improperie e parole insultanti al sottoscritto che precedentemente ha chiamato le guardie per invitarla ad uscire fuori la porta.”
Al di là delle peculiarità caratteriali della Dalser, la sua è una storia simile a quella di tanti altri profughi che giunsero nei campi di accoglienza nel periodo 1915-1920. I profughi, infatti, continuarono a trovarsi in situazioni economiche e materiali difficili come testimoniano le numerose lettere inviate a deputati, all’Alto Commissariato ed altre personalità, in cui lamentano l’inadeguatezza dei sussidi erogati per far fronte alle necessità quotidiane. All’indomani della fine delle ostilità, su richieste dei Prefetti, che si resero conto dell’insostenibilità della situazione, cominciarono le prime operazione di rimpatrio che si protrassero fino alla fine del 1920.
Il carattere testardo della Dalser sarà alla base delle tristi vicissitudini che seguirono: accusata di essere un grave pericolo per il turbamento dell’ordine pubblico, verrà arrestata e rinchiusa nel manicomio di Pergine Valsugana e, successivamente, nel nosocomio di San Clemente a Venezia, dove morì nel 1937, a 57 anni. Stessa sorte per Benito Albino, ritenuto pazzo perché si dichiarava figlio del Duce, rinchiuso nell’Ospedale Psichiatrico di Mombello di Limbiate (Milano) e morto per consunzione all’età di 27 anni, nel 1942.
Uno degli aspetti cruciali che salta agli occhi della vicenda di Ida Dalser e del figlio Benito è rappresentato dall’uso politico dell’Istituzione manicomiale durante il fascismo. I manicomi durante il regime totalitario accentuarono il loro ruolo sociale e politico. Ci finirono reduci di guerra che spesso rientravano dal fronte incapaci di reinserirsi nella vita quotidiana, prostitute, omosessuali ma soprattutto dissidenti.