L’evoluzione scientifica e sociale non sempre trova riscontro nella materia giuridico/penale, parimenti la scienza e le tecniche investigative e il loro contributo alla risoluzione di casi criminali non trovano una collocazione idonea a scongiurare interpretazioni giurisprudenziali disomogenee.
La disarmonia nell’applicazione del diritto rispetto ad un accertamento tecnico pure utilizzato e necessario per l’applicazione della pena pone interrogativi di non facile definizione affinché vi sia, perché possibile, una comunione di intenti o piuttosto una necessaria collaborazione tra il diritto penale, la giustizia penale e la scienza intesa nella sua ontologica definizione quale “l’insieme dei risultati dell’attività umana volta alla conoscenza di cause, leggi ed effetti su un determinato evento naturale o sociale”.
In vero, il sapere scientifico trova sovente degli ostacoli nell’ambito del diritto, tanto da rendere fallace un accertamento tecnico che si fonda su basi scientifiche, sulla biologia umana e anche animale, e da vanificarne quel medesimo contributo richiesto in sede processuale.
Occorre pertanto prendere coscienza e quindi definire i criteri di valutazione della prova scientifica nell’ambito del processo, per rendere agevole e determinante una volta acclarato il valore di un accertamento tecnico svolto ad esempio dalla Polizia Scientifica, per sentenziare un giudizio di colpevolezza o piuttosto di assoluzione.
Nel nostro quotidiano abbiamo avuto modo di assistere quali spettatori più o meno attenti a processi dove la prova scientifica in primo grado ha portato ad un giudizio di colpevolezza, mentre nel secondo o anche in cassazione ad un giudizio di non colpevolezza.
E’ chiaro che quanto sopra narrato non può e non deve far riferimento ad un caso già trattato, in quanto è opinione personale che le sentenze eventualmente si appellano ma non si discutono.
Pur tuttavia non posso non soffermarmi sul valore scientifico delle impronte digitali e sulla circostanza che ancora oggi la giurisprudenza italiana insiste e persevera a ritenere raggiunta la certezza probatoria delle impronte quando vi sia una corrispondenza tra l’impronta in reperto e l’impronta del soggetto di almeno 16 (sedici) punti uguali per forma e posizione.
Principio ormai consolidato che a parere dello scrivente è assolutamente lontano nonché contraddittorio per comune scienza.
In effetti, ritenere quel numero di punti caratteristici e quindi di corrispondenze dattiloscopiche opportuno o necessario per una prova di identità sminuisce l’attendibilità scientifica delle impronte digitali.
Vorrei ancora una volta ricordare che un’impronta papillare utile ad un confronto dattiloscopico dà garanzie di una identità incensurabile sotto il profilo scientifico.
Basti pensare che, i dermatoglifi sono perenni, perché si conservano per tutta la vita e possono essere cancellati in tutto o in parte solo per cause traumatiche, patologiche o per interventi chirurgici; sono immutabili poiché non subiscono modificazioni sino al disfacimento post mortem; sono individuali perché cambiano da soggetto a soggetto, tanto che non esistono impronte identiche con nessun altro individuo, neppure tra gemelli omozigoti, il cui patrimonio genetico è identico.
E, laddove si accerti una similitudine nelle caratteristiche generali le minuzie ne attestano e ne confermano l’esclusività e la irripetibilità.Inoltre lo studio dei dermatoglifi è tuttora impiegato non solo per l’identificazione personale nell’ambito del sopralluogo giudiziario, ma anche per ricerche antropologiche e in caso di omonimia.
E’ pur vero che Balthazard asserì che valutando la popolazione mondiale esistente a quel tempo (1:17.179.869.184) è possibile ritenere certa la prova dell’identità dattiloscopia sulla base di 16-17 punti, ma fu sempre il medesimo matematico a ritenere tale somma riducibile ad un numero inferiore di punti se la popolazione interessata era in numero ridotto rispetto a quella mondiale.
Ciò sta a significare che, se ad esempio un omicidio avviene in Italia non occorre fare un confronto con la popolazione mondiale per la ricerca dell’autore del delitto.
Allo stesso modo, se un omicidio occorre in una cittadina di cinque mila abitanti, in un paesino sperduto delle montagne non credo occorra fare un confronto con tutta la popolazione italiana.
Tanto è che la stessa I. A. I. (International Association for Identification) ha ritenuto, già nel 1973 che “Non esiste ai giorni nostri nessuna base legale per esigere un numero minimo di punti di riscontro comune a due dita per stabilire una identificazione positiva”.
Eppure, nonostante la certezza scientifica dell’identità dattiloscopica sussistono ancora resistenze a ritenere probante una impronta digitale con meno di 16 punti caratteristici.
“il risultato delle indagini dattiloscopiche offre piena garanzia di attendibilità e può costituire fonte di prova senza elementi sussidiari di conferma anche nel caso in cui siano relative alla impronta di un solo dito, purché evidenzino almeno sedici o diciassette punti caratteristici uguali per forma e posizione ,in quanto essa fornisce la certezza che la persona con riguardo alla quale detta verifica sia effettuata si sia trovata sul luogo in cui è stato commesso il reato; ne consegue che legittimamente, in assenza di giustificazioni su detta presenza, viene utilizzata dal giudice ai fini del giudizio di colpevolezza”[1].Appare evidente che il conflitto tra la scienza e il diritto è esistente e andrebbe risolto. Il progresso scientifico, l’importanza della criminologia, della criminalistica, del rapporto tra la polizia scientifica e la polizia giudiziaria non può nè deve essere scisso dal diritto.
Occorre un rispettoso approdo interpretativo su queste circostanze, attenendosi con maggiore fiducia alla valenza scientifica delle impronte digitali.
L’efficacia probatoria dedotta dal risultato di un confronto tra due impronte papillari, ben si sposa con il rispetto dei diritti costituzionali, del giusto processo e del diritto di difesa.
E a tal guisa, non si può non riflettere, per stessa ammissione della giurisprudenza penale, sulla “necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza, a quest’ultima il giudice non può in ogni caso rinunciare -pena l’impossibilità stessa di esprimere qualsiasi giudizio etc.. Il sapere normativo dunque non può prescindere, in ogni caso, dai contenuti del sapere scientifico.”[2]. C’è ancora molto da fare soprattutto per quanto attiene il valore probatorio del confronto dattiloscopico, ora eccessivamente restrittivo e in palese contrasto con la scienza empirica che in altri paesi ritiene sufficiente anche un numero inferiore a 16 punti caratteristici identici per forma e posizione per esprimere un giudizio di identità propria.
Qualcosa forse si sta muovendo in tal senso, almeno nel ritenere un’impronta digitale con un numero di punti inferiori a 16 utile al prosieguo dell’attività investigativa, quale valore di indizio, univoco, preciso e concordante che se valutato in contesti di tempo e di luogo idonei ben può avvalorarne il valore probatorio.
In definitiva “sarebbe del tutto illogico e diatonico con le stesse leggi della fisica e delle scienze non valutare nella sua oggettiva significatività un dato di sicura rilevanza quale la coincidenza di un numero apprezzabile di corrispondenze dattiloscopiche, numero che, per comune scienza, in distinti ordinamenti hanno addirittura valore di prova piena”.[3]. Mi auguro che la giurisprudenza valuti con maggiore attenzione l’accertamento dattiloscopico. Per quanto mi concerne, senza tema di smentita, avendo acquisito in passato conoscenze nel settore, riconosco in pieno l’empirismo, la genuinità e l’attendibilità dell’identità dattiloscopica anche con un numero inferiore di punti caratteristici o minuzie.
[1] Corte appello Roma terza sezione penale del 12 giugno 2012 Presidente Ernesto Mineo; inoltre Cassazione Penale Sez. I sentenza n.18862 del 17.4.08; Cassazione Penale Sez. II 16356 del 2.04.08; Cassazione Penale Sez. V sentenza n.12792 del 26.02.10.
[2] Cassazione sezioni unite penali, Udienza pubblica del 25.01.2005 depositata l’08.03.2005 nr.9163 Reg Gen 13688/04
[3] Cassazione penale sez. I sentenza n.17424 del 15.03.2011, depositata il 5.05.2011.
L’evoluzione scientifica e sociale non sempre trova riscontro nella materia giuridico/penale, parimenti la scienza e le tecniche investigative e il loro contributo alla risoluzione di casi criminali non trovano una collocazione idonea a scongiurare interpretazioni giurisprudenziali disomogenee.
La disarmonia nell’applicazione del diritto rispetto ad un accertamento tecnico pure utilizzato e necessario per l’applicazione della pena pone interrogativi di non facile definizione affinché vi sia, perché possibile, una comunione di intenti o piuttosto una necessaria collaborazione tra il diritto penale, la giustizia penale e la scienza intesa nella sua ontologica definizione quale “l’insieme dei risultati dell’attività umana volta alla conoscenza di cause, leggi ed effetti su un determinato evento naturale o sociale”.
In vero, il sapere scientifico trova sovente degli ostacoli nell’ambito del diritto, tanto da rendere fallace un accertamento tecnico che si fonda su basi scientifiche, sulla biologia umana e anche animale, e da vanificarne quel medesimo contributo richiesto in sede processuale.
Occorre pertanto prendere coscienza e quindi definire i criteri di valutazione della prova scientifica nell’ambito del processo, per rendere agevole e determinante una volta acclarato il valore di un accertamento tecnico svolto ad esempio dalla Polizia Scientifica, per sentenziare un giudizio di colpevolezza o piuttosto di assoluzione.
Nel nostro quotidiano abbiamo avuto modo di assistere quali spettatori più o meno attenti a processi dove la prova scientifica in primo grado ha portato ad un giudizio di colpevolezza, mentre nel secondo o anche in cassazione ad un giudizio di non colpevolezza.
E’ chiaro che quanto sopra narrato non può e non deve far riferimento ad un caso già trattato, in quanto è opinione personale che le sentenze eventualmente si appellano ma non si discutono.
Pur tuttavia non posso non soffermarmi sul valore scientifico delle impronte digitali e sulla circostanza che ancora oggi la giurisprudenza italiana insiste e persevera a ritenere raggiunta la certezza probatoria delle impronte quando vi sia una corrispondenza tra l’impronta in reperto e l’impronta del soggetto di almeno 16 (sedici) punti uguali per forma e posizione.
Principio ormai consolidato che a parere dello scrivente è assolutamente lontano nonché contraddittorio per comune scienza.
In effetti, ritenere quel numero di punti caratteristici e quindi di corrispondenze dattiloscopiche opportuno o necessario per una prova di identità sminuisce l’attendibilità scientifica delle impronte digitali.
Vorrei ancora una volta ricordare che un’impronta papillare utile ad un confronto dattiloscopico dà garanzie di una identità incensurabile sotto il profilo scientifico.
Basti pensare che, i dermatoglifi sono perenni, perché si conservano per tutta la vita e possono essere cancellati in tutto o in parte solo per cause traumatiche, patologiche o per interventi chirurgici; sono immutabili poiché non subiscono modificazioni sino al disfacimento post mortem; sono individuali perché cambiano da soggetto a soggetto, tanto che non esistono impronte identiche con nessun altro individuo, neppure tra gemelli omozigoti, il cui patrimonio genetico è identico.
E, laddove si accerti una similitudine nelle caratteristiche generali le minuzie ne attestano e ne confermano l’esclusività e la irripetibilità.Inoltre lo studio dei dermatoglifi è tuttora impiegato non solo per l’identificazione personale nell’ambito del sopralluogo giudiziario, ma anche per ricerche antropologiche e in caso di omonimia.
E’ pur vero che Balthazard asserì che valutando la popolazione mondiale esistente a quel tempo (1:17.179.869.184) è possibile ritenere certa la prova dell’identità dattiloscopia sulla base di 16-17 punti, ma fu sempre il medesimo matematico a ritenere tale somma riducibile ad un numero inferiore di punti se la popolazione interessata era in numero ridotto rispetto a quella mondiale.
Ciò sta a significare che, se ad esempio un omicidio avviene in Italia non occorre fare un confronto con la popolazione mondiale per la ricerca dell’autore del delitto.
Allo stesso modo, se un omicidio occorre in una cittadina di cinque mila abitanti, in un paesino sperduto delle montagne non credo occorra fare un confronto con tutta la popolazione italiana.
Tanto è che la stessa I. A. I. (International Association for Identification) ha ritenuto, già nel 1973 che “Non esiste ai giorni nostri nessuna base legale per esigere un numero minimo di punti di riscontro comune a due dita per stabilire una identificazione positiva”.
Eppure, nonostante la certezza scientifica dell’identità dattiloscopica sussistono ancora resistenze a ritenere probante una impronta digitale con meno di 16 punti caratteristici.
“il risultato delle indagini dattiloscopiche offre piena garanzia di attendibilità e può costituire fonte di prova senza elementi sussidiari di conferma anche nel caso in cui siano relative alla impronta di un solo dito, purché evidenzino almeno sedici o diciassette punti caratteristici uguali per forma e posizione ,in quanto essa fornisce la certezza che la persona con riguardo alla quale detta verifica sia effettuata si sia trovata sul luogo in cui è stato commesso il reato; ne consegue che legittimamente, in assenza di giustificazioni su detta presenza, viene utilizzata dal giudice ai fini del giudizio di colpevolezza”[1]. Appare evidente che il conflitto tra la scienza e il diritto è esistente e andrebbe risolto. Il progresso scientifico, l’importanza della criminologia, della criminalistica, del rapporto tra la polizia scientifica e la polizia giudiziaria non può nè deve essere scisso dal diritto.
Occorre un rispettoso approdo interpretativo su queste circostanze, attenendosi con maggiore fiducia alla valenza scientifica delle impronte digitali.
L’efficacia probatoria dedotta dal risultato di un confronto tra due impronte papillari, ben si sposa con il rispetto dei diritti costituzionali, del giusto processo e del diritto di difesa.
E a tal guisa, non si può non riflettere, per stessa ammissione della giurisprudenza penale, sulla “necessaria collaborazione tra giustizia penale e scienza, a quest’ultima il giudice non può in ogni caso rinunciare -pena l’impossibilità stessa di esprimere qualsiasi giudizio etc.. Il sapere normativo dunque non può prescindere, in ogni caso, dai contenuti del sapere scientifico.”[2]. C’è ancora molto da fare soprattutto per quanto attiene il valore probatorio del confronto dattiloscopico, ora eccessivamente restrittivo e in palese contrasto con la scienza empirica che in altri paesi ritiene sufficiente anche un numero inferiore a 16 punti caratteristici identici per forma e posizione per esprimere un giudizio di identità propria.
Qualcosa forse si sta muovendo in tal senso, almeno nel ritenere un’impronta digitale con un numero di punti inferiori a 16 utile al prosieguo dell’attività investigativa, quale valore di indizio, univoco, preciso e concordante che se valutato in contesti di tempo e di luogo idonei ben può avvalorarne il valore probatorio.
In definitiva “sarebbe del tutto illogico e diatonico con le stesse leggi della fisica e delle scienze non valutare nella sua oggettiva significatività un dato di sicura rilevanza quale la coincidenza di un numero apprezzabile di corrispondenze dattiloscopiche, numero che, per comune scienza, in distinti ordinamenti hanno addirittura valore di prova piena”.[3]. Mi auguro che la giurisprudenza valuti con maggiore attenzione l’accertamento dattiloscopico. Per quanto mi concerne, senza tema di smentita, avendo acquisito in passato conoscenze nel settore, riconosco in pieno l’empirismo, la genuinità e l’attendibilità dell’identità dattiloscopica anche con un numero inferiore di punti caratteristici o minuzie.
[1] Corte appello Roma terza sezione penale del 12 giugno 2012 Presidente Ernesto Mineo; inoltre Cassazione Penale Sez. I sentenza n.18862 del 17.4.08; Cassazione Penale Sez. II 16356 del 2.04.08; Cassazione Penale Sez. V sentenza n.12792 del 26.02.10.
[2] Cassazione sezioni unite penali, Udienza pubblica del 25.01.2005 depositata l’08.03.2005 nr.9163 Reg Gen 13688/04
[3] Cassazione penale sez. I sentenza n.17424 del 15.03.2011, depositata il 5.05.2011.