La responsabilità di cose in custodia
Essa, quindi alla luce di quanto detto, non trova fondamento in un comportamento o in un’attività riferibile al custode, ma su una relazione (di custodia), intercorrente tra quegli e la cosa dannosa. Solo il "fatto della cosa" è rilevante e non quindi il fatto dell’uomo; solo lo stato di fatto e non l’obbligo di custodia può assumere rilievo nella fattispecie.
Dalle superiori premesse emerge la necessità di specificare il significato della nozione di custodia, al fine di una corretta interpretazione della norme di cui all’art. 2051, c.c.. All’uopo, possiamo elencare due diversi orientamenti giurisprudenziali rigurardo alla nozione di custodia, di cui uno minoritario e l’altro maggioritario, al fine di enucleare le peculiarità giuridiche e non, in atto ed in potenza insite nel rapporto tra il soggetto e la cosa in custodia.
Secondo l’orientamento minoritario è “custode”, (cioè assume tale qualificazione), colui che usa e sfrutta economicamente la res. In particolare, possiamo affermare in base al brocardo latino “cuius commoda eius et incommoda”, che la responsabilità deve essere imputata in capo al soggetto che ha tratto profitto dalla cosa. Invece, secondo l’orientamento maggioritario, è “custode” il soggetto che ha una signoria di fatto sulla cosa, ovvero un potere di fatto, che gli consente (ma non lo obbliga), di intervenire tempestivamente in caso di pericolo. Quindi, la norma ex art. 2051, c.c. (secondo quest’ultima interpretazione), ha la funzione di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa. Per arrivare ad una pronuncia di responsabilità ai sensi dell’ art. 2051 c.c., non è, dunque, sufficiente né necessario accertare l’esistenza di una relazione giuridica (proprietà, possesso, detenzione qualificata) tra soggetto e cosa, bensì secondo quest’ultima impostazione, è “custode” colui che, a qualsiasi titolo, esclusi i casi di mera detenzione temporanea o di cortesia, ha un effettivo potere di fatto sulla res. Colui che ha la disponibilità materiale di quest’ultima si trova, infatti, in una posizione che gli consentirebbe di controllare e di intervenire per impedire il verificarsi di qualsiasi pregiudizio per i terzi.
Pertanto, rileva che il citato rapporto custodiale esime dal riferirsi alla fattispecie contrattuale, implicando invece il governo, l’uso della cosa e il potere di escludere i terzi dal contatto con la cosa, a cui sono riconducibili l’esigenza e l’onere della vigilanza affinché dalla cosa stessa, per sua natura o per particolari contingenze non derivi danno ad altri.
Il profilo del comportamento del responsabile è di per sè estraneo alla struttura della normativa, né può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza nella custodia. Il limite di tale responsabilità risiede nell’intervento di un fattore (il caso fortuito), che non attiene ad un comportamento del responsabile (come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c.), ma alle modalità di causazione del danno. Si deve pertanto ritenere che, in tale tipo di responsabilità, la rilevanza del fortuito attenga al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anziché alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.
Si intende, così, anche la ragione dell’inversione dell’onere della prova previsto dall’art. 2051 c.c., il quale prevede che all’attore compete provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo e che il convenuto per liberarsi dovrà provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.
La norma non esonera il danneggiato di provare il nesso causale fra cosa in custodia e danno, ma tale prova si esaurisce nella dimostrazione che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta o assunta dalla cosa – considerata nella sua globalità e non nelle singole parti potenzialmente pericolose - senza doversi provare anche l’esclusione, nel concreto determinismo dell’evento, di impulsi causali autonomi ed estranei alla sfera di controllo propria del custode e, quindi per lui inevitabile.
Non è peraltro sufficiente un mero collegamento spaziale tra l’agente dannoso e la cosa in custodia, sicché quello venga a trovarsi nell’ambito di essa e il danno risulti prodotto «nella cosa» anziché «dalla cosa», ma si richiede che l’agente dannoso si inserisca intimamente nella cosa in custodia, si da alterarne la natura provocandone un intrinseco dinamismo dannoso.
Pertanto, l’attore, agendo per il risarcimento dei danni ex art. 2051 c.c., deve provare il danno, l’esistenza di una relazione causale/eziologia tra la cosa in custodia e l’evento dannoso lamentato ed il potere fisico effettivo sulla cosa in custodia da parte del custode.
Infatti, nella responsabilità ex art. 2051 c.c. è sufficiente all’attore provare che il danno lamentato derivi dalla cosa da altri custodita, senza necessità di provare altresì la condotta - commissiva od omissiva - del custode produttrice del danno, salvo a quest’ultimo l’onere della prova del caso fortuito (cfr. tra le tante: Cass. 4.12.95 n. 12500, Cass. n. 2861/95, Cass. n. 1332/94).
L’accertamento in ordine alla sussistenza della responsabilità oggettiva che quello in ordine all’intervento del caso fortuito che lo esclude involgono delle valutazioni, quali il dispiegarsi dei vari fattori causali, la ricerca dell’effettivo antecedente dell’evento dannoso, l’indagine sulla condotta del danneggiante e del danneggiato, le modalità di causazione del danno, che come tali sono riservati al giudice del merito il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.
Sul custode della cosa, quindi per liberarsi dalla presunzione di responsabilità posta a suo carico, incombe l’onus probandi riguardo l’esistenza del caso fortuito che consiste in un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, dal carattere imprevedibile ed eccezionale, che può concretizzarsi anche nel comportamento colposo del danneggiato, idoneo ad interrompere il nesso causale tra la cosa custodita e l’evento dannoso che si è verificato. Una volta accertata la sussistenza del caso fortuito, e cioè una volta escluso il nesso causale tra la cosa e l’evento dannoso, resta esclusa non solo la responsabilità ex art. 2051 c.c. ma anche una responsabilità ex art. 2043 c.c. (Cass. Civ. 22807/2009).
Al riguardo possiamo rilevare una problematica di non indifferente importanza riguardo a quale sia la disposizione del codice civile cui fare riferimento: l’art. 2043, c.c. o l’art. 2051, c.c., per quanto concerne il risarcimento dei danni richiesto ai Comuni per gli incidenti che si verificano a causa dei dissesti delle strade, ovvero i danni da mancata custodia e manutenzione delle strade.
L’applicazione dell’art. 2043, c.c. implica che sia il danneggiato a dover provare la colpa del Comune, allegando in causa che la "buca" rappresentava un pericolo occulto (definito anche insidia o trabocchetto), caratterizzato dalla coesistenza dell’elemento oggettivo della non visibilità e dell’elemento soggettivo della imprevedibilità, invece l’applicazione dell’art. 2051, c.c. consente una inversione della prova: il Comune è obbligato a custodire le strade, con la conseguenza che è responsabile dei danni cagionati alle persone e cose, nei limiti in cui non vi sia l’impossibilità di governo del territorio.
In merito, a titolo esemplificativo, possiamo vagliare la massima della sentenza 22 settembre 2011, n.3437 del Tribunale di Genova, la quale ha pronunciato che: “sussiste la responsabilità del Comune, ai sensi e per gli effetti del disposto normativo di cui all’art. 2051 c.c., in relazione ai danni riportati dal privato nell’area cimiteriale dopo essere rovinato a terra a causa di un dislivello, non segnalato, del piano calpestabile e della carenza di illuminazione della zona, stante la relazione custodiale dell’ente con i luoghi in considerazione. Nella specie, a fonte della prova offerta dall’attrice in ordine all’effettivo verificarsi dell’evento sinistroso così come descritto, e dunque l’addebitabilità del medesimo alla responsabilità oggettiva della Pubblica Amministrazione convenuta, la mancata costituzione della stessa, pur ritualmente citata in giudizio, e la conseguente mancata dimostrazione di alcuna prova liberatoria, nella forma del caso fortuito, consente di far luogo all’accoglimento della proposta domanda risarcitoria”.
È altresì interessante la valutazione della massima della sentenza 16 settembre 2011, del Tribunale Monza, Sezione 1° civile, la quale ha rilevato che “rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 2051 c.c. la domanda giudiziale avente ad oggetto la richiesta di ristoro del pregiudizio subito dal soggetto in seguito alla caduta verificatasi nel cortile condominiale a causa della presenza di grate metalliche ammalorate. Il condominio di edifici, invero, in quanto custode dei beni e dei servizi comuni e, pertanto, obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno, risponde, ai sensi e per gli effetti della previsione di cui all’art. 2051 c.c., dei danni cagionati da tali cose ad un condomino o ad un terzo. La configurabilità di una tale ipotesi di responsabilità di carattere oggettivo, in particolare, richiede la sussistenza del solo nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e la osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia non presuppone, né implica, uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario. Un tale tipo di responsabilità è, dunque, escluso solo dal ricorso del caso fortuito, quale fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile, bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata, ma ad un elemento esterno. Nella specie, nonostante dedotto, non è stato in alcun modo provato dal Condominio il ricorso del caso fortuito, per cui deve concludersi per l’accertamento a suo carico della responsabilità per danni da cosa in custodia”.
Essa, quindi alla luce di quanto detto, non trova fondamento in un comportamento o in un’attività riferibile al custode, ma su una relazione (di custodia), intercorrente tra quegli e la cosa dannosa. Solo il "fatto della cosa" è rilevante e non quindi il fatto dell’uomo; solo lo stato di fatto e non l’obbligo di custodia può assumere rilievo nella fattispecie.
Dalle superiori premesse emerge la necessità di specificare il significato della nozione di custodia, al fine di una corretta interpretazione della norme di cui all’art. 2051, c.c.. All’uopo, possiamo elencare due diversi orientamenti giurisprudenziali rigurardo alla nozione di custodia, di cui uno minoritario e l’altro maggioritario, al fine di enucleare le peculiarità giuridiche e non, in atto ed in potenza insite nel rapporto tra il soggetto e la cosa in custodia.
Secondo l’orientamento minoritario è “custode”, (cioè assume tale qualificazione), colui che usa e sfrutta economicamente la res. In particolare, possiamo affermare in base al brocardo latino “cuius commoda eius et incommoda”, che la responsabilità deve essere imputata in capo al soggetto che ha tratto profitto dalla cosa. Invece, secondo l’orientamento maggioritario, è “custode” il soggetto che ha una signoria di fatto sulla cosa, ovvero un potere di fatto, che gli consente (ma non lo obbliga), di intervenire tempestivamente in caso di pericolo. Quindi, la norma ex art. 2051, c.c. (secondo quest’ultima interpretazione), ha la funzione di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa. Per arrivare ad una pronuncia di responsabilità ai sensi dell’ art. 2051 c.c., non è, dunque, sufficiente né necessario accertare l’esistenza di una relazione giuridica (proprietà, possesso, detenzione qualificata) tra soggetto e cosa, bensì secondo quest’ultima impostazione, è “custode” colui che, a qualsiasi titolo, esclusi i casi di mera detenzione temporanea o di cortesia, ha un effettivo potere di fatto sulla res. Colui che ha la disponibilità materiale di quest’ultima si trova, infatti, in una posizione che gli consentirebbe di controllare e di intervenire per impedire il verificarsi di qualsiasi pregiudizio per i terzi.
Pertanto, rileva che il citato rapporto custodiale esime dal riferirsi alla fattispecie contrattuale, implicando invece il governo, l’uso della cosa e il potere di escludere i terzi dal contatto con la cosa, a cui sono riconducibili l’esigenza e l’onere della vigilanza affinché dalla cosa stessa, per sua natura o per particolari contingenze non derivi danno ad altri.
Il profilo del comportamento del responsabile è di per sè estraneo alla struttura della normativa, né può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza nella custodia. Il limite di tale responsabilità risiede nell’intervento di un fattore (il caso fortuito), che non attiene ad un comportamento del responsabile (come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c.), ma alle modalità di causazione del danno. Si deve pertanto ritenere che, in tale tipo di responsabilità, la rilevanza del fortuito attenga al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anziché alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.
Si intende, così, anche la ragione dell’inversione dell’onere della prova previsto dall’art. 2051 c.c., il quale prevede che all’attore compete provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo e che il convenuto per liberarsi dovrà provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.
La norma non esonera il danneggiato di provare il nesso causale fra cosa in custodia e danno, ma tale prova si esaurisce nella dimostrazione che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta o assunta dalla cosa – considerata nella sua globalità e non nelle singole parti potenzialmente pericolose - senza doversi provare anche l’esclusione, nel concreto determinismo dell’evento, di impulsi causali autonomi ed estranei alla sfera di controllo propria del custode e, quindi per lui inevitabile.
Non è peraltro sufficiente un mero collegamento spaziale tra l’agente dannoso e la cosa in custodia, sicché quello venga a trovarsi nell’ambito di essa e il danno risulti prodotto «nella cosa» anziché «dalla cosa», ma si richiede che l’agente dannoso si inserisca intimamente nella cosa in custodia, si da alterarne la natura provocandone un intrinseco dinamismo dannoso.
Pertanto, l’attore, agendo per il risarcimento dei danni ex art. 2051 c.c., deve provare il danno, l’esistenza di una relazione causale/eziologia tra la cosa in custodia e l’evento dannoso lamentato ed il potere fisico effettivo sulla cosa in custodia da parte del custode.
Infatti, nella responsabilità ex art. 2051 c.c. è sufficiente all’attore provare che il danno lamentato derivi dalla cosa da altri custodita, senza necessità di provare altresì la condotta - commissiva od omissiva - del custode produttrice del danno, salvo a quest’ultimo l’onere della prova del caso fortuito (cfr. tra le tante: Cass. 4.12.95 n. 12500, Cass. n. 2861/95, Cass. n. 1332/94).
L’accertamento in ordine alla sussistenza della responsabilità oggettiva che quello in ordine all’intervento del caso fortuito che lo esclude involgono delle valutazioni, quali il dispiegarsi dei vari fattori causali, la ricerca dell’effettivo antecedente dell’evento dannoso, l’indagine sulla condotta del danneggiante e del danneggiato, le modalità di causazione del danno, che come tali sono riservati al giudice del merito il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.
Sul custode della cosa, quindi per liberarsi dalla presunzione di responsabilità posta a suo carico, incombe l’onus probandi riguardo l’esistenza del caso fortuito che consiste in un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, dal carattere imprevedibile ed eccezionale, che può concretizzarsi anche nel comportamento colposo del danneggiato, idoneo ad interrompere il nesso causale tra la cosa custodita e l’evento dannoso che si è verificato. Una volta accertata la sussistenza del caso fortuito, e cioè una volta escluso il nesso causale tra la cosa e l’evento dannoso, resta esclusa non solo la responsabilità ex art. 2051 c.c. ma anche una responsabilità ex art. 2043 c.c. (Cass. Civ. 22807/2009). >La responsabilità ex articolo 2051 Codice Civile, oltre ad avere carattere squisitamente “oggettivo”, non trova fondamento sulla presunzione di colpa, bensì sul mero rapporto di custodia, dunque affinché essa possa fondarsi, concretamente, è sufficiente la sussistenza del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, indipendentemente dalla pericolosità in atto od in potenza della stessa cosa, finanche per le cose inerti non rilevando, fra l’altro la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di vigilanza.
Essa, quindi alla luce di quanto detto, non trova fondamento in un comportamento o in un’attività riferibile al custode, ma su una relazione (di custodia), intercorrente tra quegli e la cosa dannosa. Solo il "fatto della cosa" è rilevante e non quindi il fatto dell’uomo; solo lo stato di fatto e non l’obbligo di custodia può assumere rilievo nella fattispecie.
Dalle superiori premesse emerge la necessità di specificare il significato della nozione di custodia, al fine di una corretta interpretazione della norme di cui all’art. 2051, c.c.. All’uopo, possiamo elencare due diversi orientamenti giurisprudenziali rigurardo alla nozione di custodia, di cui uno minoritario e l’altro maggioritario, al fine di enucleare le peculiarità giuridiche e non, in atto ed in potenza insite nel rapporto tra il soggetto e la cosa in custodia.
Secondo l’orientamento minoritario è “custode”, (cioè assume tale qualificazione), colui che usa e sfrutta economicamente la res. In particolare, possiamo affermare in base al brocardo latino “cuius commoda eius et incommoda”, che la responsabilità deve essere imputata in capo al soggetto che ha tratto profitto dalla cosa. Invece, secondo l’orientamento maggioritario, è “custode” il soggetto che ha una signoria di fatto sulla cosa, ovvero un potere di fatto, che gli consente (ma non lo obbliga), di intervenire tempestivamente in caso di pericolo. Quindi, la norma ex art. 2051, c.c. (secondo quest’ultima interpretazione), ha la funzione di imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa. Per arrivare ad una pronuncia di responsabilità ai sensi dell’ art. 2051 c.c., non è, dunque, sufficiente né necessario accertare l’esistenza di una relazione giuridica (proprietà, possesso, detenzione qualificata) tra soggetto e cosa, bensì secondo quest’ultima impostazione, è “custode” colui che, a qualsiasi titolo, esclusi i casi di mera detenzione temporanea o di cortesia, ha un effettivo potere di fatto sulla res. Colui che ha la disponibilità materiale di quest’ultima si trova, infatti, in una posizione che gli consentirebbe di controllare e di intervenire per impedire il verificarsi di qualsiasi pregiudizio per i terzi.
Pertanto, rileva che il citato rapporto custodiale esime dal riferirsi alla fattispecie contrattuale, implicando invece il governo, l’uso della cosa e il potere di escludere i terzi dal contatto con la cosa, a cui sono riconducibili l’esigenza e l’onere della vigilanza affinché dalla cosa stessa, per sua natura o per particolari contingenze non derivi danno ad altri.
Il profilo del comportamento del responsabile è di per sè estraneo alla struttura della normativa, né può esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per mancata diligenza nella custodia. Il limite di tale responsabilità risiede nell’intervento di un fattore (il caso fortuito), che non attiene ad un comportamento del responsabile (come nelle prove liberatorie degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c.), ma alle modalità di causazione del danno. Si deve pertanto ritenere che, in tale tipo di responsabilità, la rilevanza del fortuito attenga al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all’elemento esterno, anziché alla cosa che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi.
Si intende, così, anche la ragione dell’inversione dell’onere della prova previsto dall’art. 2051 c.c., il quale prevede che all’attore compete provare l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo e che il convenuto per liberarsi dovrà provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.
La norma non esonera il danneggiato di provare il nesso causale fra cosa in custodia e danno, ma tale prova si esaurisce nella dimostrazione che l’evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva, posseduta o assunta dalla cosa – considerata nella sua globalità e non nelle singole parti potenzialmente pericolose - senza doversi provare anche l’esclusione, nel concreto determinismo dell’evento, di impulsi causali autonomi ed estranei alla sfera di controllo propria del custode e, quindi per lui inevitabile.
Non è peraltro sufficiente un mero collegamento spaziale tra l’agente dannoso e la cosa in custodia, sicché quello venga a trovarsi nell’ambito di essa e il danno risulti prodotto «nella cosa» anziché «dalla cosa», ma si richiede che l’agente dannoso si inserisca intimamente nella cosa in custodia, si da alterarne la natura provocandone un intrinseco dinamismo dannoso.
Pertanto, l’attore, agendo per il risarcimento dei danni ex art. 2051 c.c., deve provare il danno, l’esistenza di una relazione causale/eziologia tra la cosa in custodia e l’evento dannoso lamentato ed il potere fisico effettivo sulla cosa in custodia da parte del custode.
Infatti, nella responsabilità ex art. 2051 c.c. è sufficiente all’attore provare che il danno lamentato derivi dalla cosa da altri custodita, senza necessità di provare altresì la condotta - commissiva od omissiva - del custode produttrice del danno, salvo a quest’ultimo l’onere della prova del caso fortuito (cfr. tra le tante: Cass. 4.12.95 n. 12500, Cass. n. 2861/95, Cass. n. 1332/94).
L’accertamento in ordine alla sussistenza della responsabilità oggettiva che quello in ordine all’intervento del caso fortuito che lo esclude involgono delle valutazioni, quali il dispiegarsi dei vari fattori causali, la ricerca dell’effettivo antecedente dell’evento dannoso, l’indagine sulla condotta del danneggiante e del danneggiato, le modalità di causazione del danno, che come tali sono riservati al giudice del merito il cui apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.
Sul custode della cosa, quindi per liberarsi dalla presunzione di responsabilità posta a suo carico, incombe l’onus probandi riguardo l’esistenza del caso fortuito che consiste in un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva, dal carattere imprevedibile ed eccezionale, che può concretizzarsi anche nel comportamento colposo del danneggiato, idoneo ad interrompere il nesso causale tra la cosa custodita e l’evento dannoso che si è verificato. Una volta accertata la sussistenza del caso fortuito, e cioè una volta escluso il nesso causale tra la cosa e l’evento dannoso, resta esclusa non solo la responsabilità ex art. 2051 c.c. ma anche una responsabilità ex art. 2043 c.c. (Cass. Civ. 22807/2009).
Al riguardo possiamo rilevare una problematica di non indifferente importanza riguardo a quale sia la disposizione del codice civile cui fare riferimento: l’art. 2043, c.c. o l’art. 2051, c.c., per quanto concerne il risarcimento dei danni richiesto ai Comuni per gli incidenti che si verificano a causa dei dissesti delle strade, ovvero i danni da mancata custodia e manutenzione delle strade.
L’applicazione dell’art. 2043, c.c. implica che sia il danneggiato a dover provare la colpa del Comune, allegando in causa che la "buca" rappresentava un pericolo occulto (definito anche insidia o trabocchetto), caratterizzato dalla coesistenza dell’elemento oggettivo della non visibilità e dell’elemento soggettivo della imprevedibilità, invece l’applicazione dell’art. 2051, c.c. consente una inversione della prova: il Comune è obbligato a custodire le strade, con la conseguenza che è responsabile dei danni cagionati alle persone e cose, nei limiti in cui non vi sia l’impossibilità di governo del territorio.
In merito, a titolo esemplificativo, possiamo vagliare la massima della sentenza 22 settembre 2011, n.3437 del Tribunale di Genova, la quale ha pronunciato che: “sussiste la responsabilità del Comune, ai sensi e per gli effetti del disposto normativo di cui all’art. 2051 c.c., in relazione ai danni riportati dal privato nell’area cimiteriale dopo essere rovinato a terra a causa di un dislivello, non segnalato, del piano calpestabile e della carenza di illuminazione della zona, stante la relazione custodiale dell’ente con i luoghi in considerazione. Nella specie, a fonte della prova offerta dall’attrice in ordine all’effettivo verificarsi dell’evento sinistroso così come descritto, e dunque l’addebitabilità del medesimo alla responsabilità oggettiva della Pubblica Amministrazione convenuta, la mancata costituzione della stessa, pur ritualmente citata in giudizio, e la conseguente mancata dimostrazione di alcuna prova liberatoria, nella forma del caso fortuito, consente di far luogo all’accoglimento della proposta domanda risarcitoria”.
È altresì interessante la valutazione della massima della sentenza 16 settembre 2011, del Tribunale Monza, Sezione 1° civile, la quale ha rilevato che “rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 2051 c.c. la domanda giudiziale avente ad oggetto la richiesta di ristoro del pregiudizio subito dal soggetto in seguito alla caduta verificatasi nel cortile condominiale a causa della presenza di grate metalliche ammalorate. Il condominio di edifici, invero, in quanto custode dei beni e dei servizi comuni e, pertanto, obbligato ad adottare tutte le misure necessarie affinché le cose comuni non rechino pregiudizio ad alcuno, risponde, ai sensi e per gli effetti della previsione di cui all’art. 2051 c.c., dei danni cagionati da tali cose ad un condomino o ad un terzo. La configurabilità di una tale ipotesi di responsabilità di carattere oggettivo, in particolare, richiede la sussistenza del solo nesso di causalità tra la cosa in custodia ed il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e la osservanza o meno di un obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia non presuppone, né implica, uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario. Un tale tipo di responsabilità è, dunque, escluso solo dal ricorso del caso fortuito, quale fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile, bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata, ma ad un elemento esterno. Nella specie, nonostante dedotto, non è stato in alcun modo provato dal Condominio il ricorso del caso fortuito, per cui deve concludersi per l’accertamento a suo carico della responsabilità per danni da cosa in custodia”.