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La tutela delle retribuzioni del lavoratore nel caso di Liquidazione Coatta Amministrativa di società cooperativa

Abstract:

L’articolo analizza le tutele che il nostro ordinamento, a seguito del recepimento di diverse direttive della UE, riconosce ai lavoratori dipendenti in caso di insolvenza del datore di lavoro, soffermandosi in particolare su quelle riconosciute ai lavoratori soci e non soci di cooperative sottoposte alla procedura di liquidazione coatta amministrativa.

L’analisi delle forme di tutela che la legge nazionale e la normativa comunitaria prevedono nei confronti dei lavoratori di imprese sottoposte a procedure concorsuali, con particolare riferimento alle società cooperative sottoposte alla liquidazione coatta amministrativa, non può prescindere dal ripercorrere, seppur brevemente, i caratteri essenziali di questa ultima procedura, con particolare riguardo alla sua natura e alla formazione dello stato passivo.

La liquidazione coatta amministrativa è una procedura concorsuale che si applica alle società cooperative quando sopravvenga la causa patologica prevista dall’art. 2545 terdecies del codice civile, vale a dire lo stato di insolvenza.

La fonte regolamentare della liquidazione coatta amministrativa va ricercata in parte nel codice civile e nella legge fallimentare ed in parte in leggi speciali; si tratta infatti di una procedura alquanto particolare e complessa a metà strada tra una procedura amministrativa e quella fallimentare.

L’adozione del provvedimento amministrativo con il quale si apre la liquidazione coatta è preceduta da una proposta degli organi a cui è affidato il compito di vigilare sull’attività delle cooperative ed effettuare le revisioni periodiche (ordinarie e straordinarie) previste dalla legge. Tali organi sono costituiti, come previsto dall’art. 2 del Decreto legislativo n. 220 del 2 agosto 2002, dagli ispettori dello stesso Ministero Vigilante, oggi Ministero dello Sviluppo Economico, che agisce territorialmente attraverso gli Ispettori delle Direzioni Provinciali del Lavoro a seguito di specifica convenzione oppure, per le cooperative che aderiscono alle associazioni nazionali di rappresentanza e tutela del movimento cooperativo, dagli ispettori delle medesime associazioni.

La procedura può essere poi attivata in conseguenza ad una sentenza che abbia accertato lo stato d’insolvenza; in tal caso la sentenza vincola l’autorità amministrativa competente a disporre la liquidazione coatta; mentre la proposta attuata da parte degli organi o organismi di vigilanza che attuano la revisione cooperativa, non è vincolante per l’autorità amministrativa e l’esito dell’istruttoria ministeriale potrebbe essere anche diverso da quello formulato con la richiesta (ad esempio il ministero potrebbe accertare la insussistenza dello stato di insolvenza, che presuppone l’apertura della procedura, ma riscontrare, ad esempio, i presupposti dell’art. 2545 sepdecies e ordinare lo scioglimento per atto di autorità magari senza nomina del Commissario Liquidatore).

L’art. 2545 terdecies prevede poi esplicitamente la regola della prevenzione, per cui l’apertura del fallimento preclude la liquidazione coatta amministrativa e vice versa.

La logica della liquidazione coatta amministrativa è sostanzialmente l’eliminazione dell’ente cooperativo dal mercato (anche se oggi è proponibile il concordato) e pertanto la possibilità di iniziare e continuare l’attività della procedura può andare anche contro la volontà dei creditori o della stessa cooperativa.

L’atto iniziale della liquidazione coatta amministrativa si concretizza quindi, in un Decreto Ministeriale che dovrà essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica su segnalazione del Ministero dello sviluppo economico.

Gli effetti del provvedimento amministrativo, tuttavia, non decorrono dalla pubblicazione dello stesso, che può avvenire anche con ritardi di mesi, ma dal momento della sua emanazione. Da tale momento infatti la cooperativa dovrà essere considerata in liquidazione coatta.

Solitamente il Ministero informa per posta sia la cooperativa che il Commissario liquidatore nominato dell’avvenuta emanazione del decreto notificandone una copia, in modo da iniziare la procedura indipendentemente dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Le fasi in cui si può suddividere la procedura di liquidazione coatta amministrativa sono analoghe a quelle del fallimento: inventario, formazione dello stato passivo, liquidazione e ripartizione dell’attivo. Come accade in caso di fallimento, l’apertura del procedimento di liquidazione coatta preclude al creditore le azioni individuali in sede di giurisdizione ordinaria, poiché i creditori devono far valere le proprie istanze nella procedura amministrativa di accertamento dei crediti attuata dal commissario liquidatore.

La formazione dello stato passivo è l’atto principale della procedura e si differenzia rispetto al fallimento anche in relazione alla diversa struttura degli organi che la compongono e delle loro funzioni. La formazione del passivo della liquidazione coatta amministrativa, infatti, è un atto d’ufficio, di emanazione del commissario liquidatore, e si forma, secondo regole precisa, senza la necessità di alcun dibattimento davanti al giudice delegato, né di alcun parere dell’Ministero Vigilante. Il commissario, infatti, dovrà comunicare ex art. 207 Regio decreto 16 marzo 1942 n. 267 l’ammontare dei crediti riconosciuti e risultanti dalla documentazione contabile in suo possesso, nonché dalla contabilità della società, ad ogni singolo creditore a mezzo raccomandata, con riserva di verifica delle eventuali contestazioni. Il creditore che non ritenga giusta e corretta la comunicazione del commissario dovrà a sua volta comunicare, sempre tramite posta raccomandata, ed entro quindici giorni, le proprie osservazioni, che possono essere relative al quantum o alla natura del credito. Il commissario valuterà le osservazioni e senza alcun vincolo, deciderà in merito alla ammissione allo stato passivo.

I creditori e i titolari di diritti immobiliari che non avessero ricevuto alcuna comunicazione dal commissario liquidatore hanno l’onere di presentare, come previsto dall’art. 208 Regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, la propria domanda di ammissione entro 60 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale Della Repubblica Italiana del decreto ministeriale.

Tutti i creditori devono sottostare al vaglio del commissario liquidatore e tutte le pretese devono essere azionate preliminarmente in via amministrativa.

Con il deposito presso la Cancelleria fallimentare del Tribunale ove ha sede la cooperativa, lo stato passivo diviene esecutivo e non è più possibile modificarlo o revocarlo. Il deposito assolve quindi una duplice funzione: quella di pubblicità notizia sui debiti dell’impresa e quella sui debitori concorrenti.

Il termine entro cui il commissario, ex art. 209 Regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, deve provvedere alla formazione dello stato passivo è di novanta giorni decorrenti dalla data dal provvedimento di liquidazione. Il suddetto termine, tuttavia, deve essere inteso unicamente come acceleratorio, anche perché il Commissario, per la formazione di uno stato passivo più attendibile possibile (posto che si tratta di un atto unilaterale), dovrà necessariamente attendere il decorso del termine di 60gg dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del Decreto, in modo da verificare la sussistenza o meno di domande pervenute da creditori non destinatari della comunicazione ex art. 207 Legge Fallimentare; quindi, dati i tempi assai lunghi che normalmente decorrono dalla data del provvedimento alla data di pubblicazione, appare un termine quasi mai rispettato. Successivamente al deposito in cancelleria dello stato passivo i creditori e gli altri interessati possono presentare opposizioni o impugnazioni e queste sono regolate dalla legge fallimentare, se e per quanto applicabile. Il termine per le opposizioni e le impugnazioni decorre dalla comunicazione individuale del deposito in cancelleria, poiché non vi è un provvedimento giudiziale che renda esecutivo lo stato passivo.

Posta questa breve premessa, necessaria ad individuare le regole relative alla formazione dello stato passivo che devono essere applicate a tutte le tipologie di creditori, ivi inclusi i lavoratori soci e non soci; per quanto attiene le tutele particolari accordate alla categoria di creditori costituita dai lavoratori, si sono succeduti negli anni vari interventi sull’ipotesi generale di insolvenza del datore di lavoro, ivi inclusa quella dei lavoratori delle società cooperative.

E’ appena il caso di ricordare in questa sede che, a maggior ragione dopo la riforma della figura del socio lavoratore di cooperativa attuata con la legge 3 aprile 2001 n. 142, dove è stata sancita la duplicità del rapporto tra socio e cooperativa, appaiono superati i dubbi interpretativi circa la natura del rapporto lavorativo del socio di cooperativa al quale si applicava per estensione la normativa previdenziale e fiscale propria del lavoratore subordinato pur non essendo qualificabile come tale. La suddetta legge, infatti, nel disciplinare la coesistenza, nei confronti del socio, di un rapporto di tipo societario e di un separato e concorrente rapporto di tipo lavorativo sia esso autonomo, subordinato, parasubordinato, a progetto ecc. che deve essere qualificato nell’ambito del contratto di lavoro, ha eliminato la concezione che configurava tale rapporto come legato al raggiungimento dello scopo sociale e quindi non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato.

Proprio in virtù di tale principio, oggi superato per effetto della suddetta legge, alcune società disponevano per regolamento il non accantonamento del trattamento di fine rapporto, con conseguente esenzione non solo da tale istituto ma anche dalla necessità di contribuire al finanziamento del fondo di garanzia istituito presso l’inps.

Oggi, tale decisione regolamentare parrebbe illegittima e al socio lavoratore dipendente dovranno quindi applicarsi tutte le norme riguardanti questa tipologia di rapporto e quindi tutte le tutele conseguenti, ivi inclusa quella accordata in caso di insolvenza del datore di lavoro.

E’ quindi condizione essenziale, per i lavoratori che intendo far valere le loro ragioni creditorie sia nei confronti della procedura stessa che eventualmente nei confronti del Fondo di garanzia di cui tratteremo in seguito, che i loro crediti, sia derivanti dal trattamento di fine rapporto che dalle mensilità correnti, vengano iscritti ed ammessi allo stato passivo della procedura secondo le regole sopra descritte.

La mancata iscrizione pregiudica in maniera assoluta la possibilità di essere soddisfatti, sia da parte della procedura, sia da parte del fondo di garanzia che successivamente dovrà surrogarsi nel medesimo stato passivo nella posizione del lavoratore/creditore.

Entrando ora nello specifico, il primo a pronunciarsi in materia di tutele accordate ai crediti dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, è stato il legislatore comunitario con la Direttiva n. 987 del 1980.

Tale direttiva ha previsto la necessità di istituire, da parte di ogni paese membro, un organismo di garanzia volto a sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento di almeno una parte dei crediti rimasti insoddisfatti dalle procedure concorsuali.

Nel nostro ordinamento l’attuazione della Direttiva è stata assai travagliata ed è avvenuta in diverse fasi e dopo diverse condanne da parte della Corte di Giustizia per mancata conformazione alle prescrizioni comunitarie nei termini prescritti.

La prima tutela introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 2 della legge 29 maggio 1982 n. 297, ha riguardato il credito derivante dall’accantonamento del trattamento di fine rapporto previsto dall’art. 2120 del codice civile.

La legge ha previsto l’istituzione di un Fondo di garanzia presso l’INPS, alimentato da contributi da parte dei datori di lavoro e destinato a sostituire l’imprenditore nell’erogazione. La riscossione del contributo di finanziamento del fondo era, ed è tutt’oggi, demandata all’Istituto previdenziale unitamente e con le modalità previste per i contributi previdenziali e assistenziali posti a carico delle aziende e dei dipendenti.

In ragione di tale limitato intervento la Corte di Giustizia ha dichiarato l’Italia inadempiente rimarcando l’inadeguatezza della normativa con particolare riferimento al contenuto delle garanzie. Successivamente, a causa dell’inerzia del nostro Paese, la Corte ha affermato il principio secondo cui lo Stato inadempiente, oltre all’obbligo di attuazione del contenuto della Direttiva, deve risarcire i singoli cittadini dei danni cagionati in conseguenza della mancata attuazione.

L’Italia, quindi, è stata costretta (seppur a distanza di dieci anni) a concludere il processo di recepimento attraverso il Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80, che ha individuato, sempre nel medesimo nel Fondo di garanzia istituito con la legge 29 maggio 1982 n. 297, l’organismo deputato ad intervenire per assicurare il pagamento dei crediti di lavoro diversi da quelli derivanti dal trattamento di fine rapporto e compromessi da situazioni di insolvenza del datore.

In particolare, l’art. 1, comma 1 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80 ha delimitato l’ambito soggettivo di applicazione della garanzia per i crediti di lavoro, stabilendo che:

“Nel caso in cui il datore di lavoro sia assoggettato alle procedure di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa ovvero amministrazione straordinaria (…), il lavoratore da esso dipendente o i suoi aventi diritto possono ottenere - a domanda - il pagamento a carico del Fondo (…) dei crediti non corrisposti".

Il comma 2, ampliando il campo di applicazione, ha esteso esplicitamente il diritto alle prestazioni del Fondo ai dipendenti di datori di lavoro non assoggettabili alle procedure anzidette, "sempreché, a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione dei crediti, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti".

Il periodo di riferimento indennizzabile da parte del suddetto Fondo di garanzia, con riferimento ai crediti diversi dal trattamento di fine rapporto, è quello degli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro rientranti nei dodici mesi che precedono la data di apertura della procedura concorsuale o del provvedimento di messa in liquidazione della società o di cessazione dell’esercizio provvisorio (art. 2, comma 1).

Oltre al limite temporale del rimborso è previsto un massimale all’ammontare indennizzabile pari a tre volte la misura massima del trattamento di integrazione salariale mensile al netto delle trattenute previdenziali e assistenziali, unitamente alla previsione di incomulabilità dell’intervento del Fondo di garanzia con gli importi erogati a seguito di intervento della cassa integrazione guadagni straordinaria e dalla indennità di mobilità.

Il decreto legislativo 19 agosto 2005 n. 186 che ha recepito la direttiva comunitaria n. 74 del 2002, attraverso la modifica dell’art. 2 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80 e dell’art. 2 della legge 29 maggio 1982 n. 297, ha inoltre esteso l’intervento del Fondo, sia con riferimento al TFR che agli altri crediti inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, all’ipotesi in cui il datore di lavoro sia un’impresa che svolge la sua attività sul territorio di almeno due Stati membri o che sia costituita secondo le norme di un altro Stato membro e sottoposta ad una procedura concorsuale, posto che il dipendente abbia svolto con abitualità la sua attività in Italia.

Tornando agli elementi tecnici mi pare opportuno richiamare l’attenzione su cosa significhi prendere a riferimento gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro di cui all’art. 2, c. 1 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80, e cioè se questo comporti la necessaria sussistenza di un rapporto di lavoro pienamente funzionante o ammetta anche un periodo di totale sospensione del rapporto, senza diritto alla retribuzione.

In relazione a detta problematica si presentano diversi orientamenti giurisprudenziali:

• un primo orientamento ha privilegiato il rispetto del significato letterale, limitando di fatto l’ambito della disposizione in commento ai soli casi in cui le retribuzioni non percepite e oggetto della copertura da parte del Fondo di garanzia, fossero quelle dovute nei tre mesi precedenti la cessazione del rapporto di lavoro, escludendo quindi tutte le ipotesi in cui, per qualsiasi motivo, nulla fosse dovuto e l’insolvenza riguardasse un trimestre diverso;

• un altro orientamento ha, invece, posto l’attenzione sull’effettiva volontà del legislatore, al fine di garantire la tutela concreta delle ragioni del dipendente, ammettendo, quindi, la tutela assicurativa con riferimento alle ultime tre mensilità di retribuzione non percepite dal lavoratore a prescindere dalla loro coincidenza con gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, e quindi anche nel caso in cui questi ultimi non fossero stati retribuiti per un particolare stato del rapporto, come ad esempio per un permesso non retribuito. Secondo tale orientamento deve, cioè, ritenersi che, ove il rapporto sia rimasto sospeso, senza obbligo di corresponsione della retribuzione, anteriormente alla data indicata dall’art. 2, comma 1 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80, la tutela sia riferibile alle tre mensilità antecedenti al periodo di sospensione, nell’ambito del limite dei dodici mesi, posto che la garanzia dell’effettiva percezione della retribuzione deve essere riferita alle ultime tre mensilità del rapporto "in atto".

In concreto, la giurisprudenza più recente sembra aderire a tale secondo orientamento, essendo tra l’altro conforme all’interpretazione data dalla Corte di Giustizia alla direttiva 80/987 CEE.

La stessa Corte, infatti, con la Sentenza 15 maggio 2003 ha ritenuto di dare all’espressione "rapporto di lavoro" un’interpretazione unitaria e coerente con lo scopo della direttiva, privilegiando i soli periodi di effettiva esecuzione del rapporto di lavoro, con conseguente irrilevanza dei periodi di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.

Per quanto attiene il computo del termine di dodici mesi, di cui all’art. 2, comma 1 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80 si segnala innanzitutto che già la formulazione del testo normativo è stata oggetto, di diversi dubbi, per esempio nel caso in cui il rapporto di lavoro si concluda, prima dei dodici mesi antecedenti la dichiarazione di fallimento. Considerando la disposizione letterale della norma, il lavoratore non avrebbe il diritto di rivolgersi al Fondo di garanzia per il pagamento dei suoi crediti di lavoro.

In questo caso specifico, a seguito dell’intervento della Corte di Giustizia con la Sentenza n. 3783/1995, è stato stabilito che:

“sulla base alla direttiva n. 80/987 Cee, l’insolvenza del datore di lavoro si determina all’atto dell’apertura della procedura per la dichiarazione di fallimento, e non al successivo momento in cui il fallimento viene dichiarato, sebbene sia necessario attendere questa dichiarazione per ottenere la garanzia del pagamento a carico del Fondo”.

Alla luce di tale pronuncia, la Corte di Cassazione italiana di riflesso, ha ritenuto che l’intervento del Fondo per il pagamento dei crediti di lavoro, inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto, debba operare in tutti i casi in cui tali crediti siano sorti nei dodici mesi antecedenti l’apertura della procedura per la dichiarazione di fallimento, e non nei dodici mesi antecedenti la sentenza che abbia dichiarato il fallimento del datore di lavoro (Sentenza Corte di Cass. n. 1106/1999).

Quindi è stato sancito che il diritto all’intervento del Fondo è riconosciuto, non solo nel caso di domanda volta all’apertura di una procedura concorsuale, ma anche in quello di "qualsiasi iniziativa" del lavoratore parimenti volta ad ottenere la tutela giurisdizionale dei diritti garantiti dalla direttiva.

Infatti, in caso contrario, la garanzia di tutela che la Direttiva intende perseguire risulterebbe non attuata nell’ipotesi in cui il lavoratore faccia valere i propri diritti in una sede giurisdizionale diversa prima di avviare la procedura concorsuale e ciò anche in considerazione del fatto che, come rilevato, il nostro ordinamento, derogando in melius alle disposizioni comunitarie, prevede che, qualora il datore di lavoro non sia soggetto alle procedure concorsuali, il lavoratore o i suoi aventi diritto possano comunque accedere alle prestazioni del Fondo, "sempreché, a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione dei crediti, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti" (art. 1, comma 2 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80).

Con riferimento alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, anche riallacciandosi a quanto indicato nella premessa relativamente al momento in cui si deve considerare aperta la procedura, non appare esservi dubbio sul termine da cui conteggiare a ritroso i dodici mesi di validità dell’intervento del fondo, in quanto l’art. 2, comma 1 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80 individua nella data del provvedimento che pone la cooperativa in liquidazione, il termine iniziale.

Ad avviso di chi scrive, al di là di una mera interpretazione letterale della norma che precisa distinti momenti in relazione alle diverse tipologie di procedure concorsuali, non possono essere considerati sullo stesso piano la richiesta di adozione del provvedimento amministrativo formulata in sede di revisione della cooperativa dagli ispettori delle associazioni o del Ministero, rispetto alla apertura della procedura giudiziale volta alla dichiarazione di fallimento.

La richiesta di adozione del provvedimento di liquidazione coatta attuata in sede di revisione della cooperativa, infatti, non dà inizio ad un procedimento di accertamento dello stato di insolvenza ma ha unicamente valore informativo nei confronti del Ministero Vigilante. Il Ministero vigilante potrebbe anche discrezionalmente e legittimamente ritenere di non avviare alcun procedimento amministrativo ed in tal caso la proposta formulata con il verbale di revisione resterebbe lettera morta non attuandosi alcuna procedura.

Solo in caso di avvio del procedimento che si concluderà con il decreto, si avrà l’apertura di una procedura concorsuale (che poi potrà essere revocata o opposta) e pertanto solo dalla data di adozione del provvedimento si avrà una valenza esterna dell’atto amministrativo e da tale data potranno decorrere a ritroso i 12 mesi di cui all’art. 2, comma 1 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80.

Abstract:

L’articolo analizza le tutele che il nostro ordinamento, a seguito del recepimento di diverse direttive della UE, riconosce ai lavoratori dipendenti in caso di insolvenza del datore di lavoro, soffermandosi in particolare su quelle riconosciute ai lavoratori soci e non soci di cooperative sottoposte alla procedura di liquidazione coatta amministrativa.

L’analisi delle forme di tutela che la legge nazionale e la normativa comunitaria prevedono nei confronti dei lavoratori di imprese sottoposte a procedure concorsuali, con particolare riferimento alle società cooperative sottoposte alla liquidazione coatta amministrativa, non può prescindere dal ripercorrere, seppur brevemente, i caratteri essenziali di questa ultima procedura, con particolare riguardo alla sua natura e alla formazione dello stato passivo.

La liquidazione coatta amministrativa è una procedura concorsuale che si applica alle società cooperative quando sopravvenga la causa patologica prevista dall’art. 2545 terdecies del codice civile, vale a dire lo stato di insolvenza.

La fonte regolamentare della liquidazione coatta amministrativa va ricercata in parte nel codice civile e nella legge fallimentare ed in parte in leggi speciali; si tratta infatti di una procedura alquanto particolare e complessa a metà strada tra una procedura amministrativa e quella fallimentare.

L’adozione del provvedimento amministrativo con il quale si apre la liquidazione coatta è preceduta da una proposta degli organi a cui è affidato il compito di vigilare sull’attività delle cooperative ed effettuare le revisioni periodiche (ordinarie e straordinarie) previste dalla legge. Tali organi sono costituiti, come previsto dall’art. 2 del Decreto legislativo n. 220 del 2 agosto 2002, dagli ispettori dello stesso Ministero Vigilante, oggi Ministero dello Sviluppo Economico, che agisce territorialmente attraverso gli Ispettori delle Direzioni Provinciali del Lavoro a seguito di specifica convenzione oppure, per le cooperative che aderiscono alle associazioni nazionali di rappresentanza e tutela del movimento cooperativo, dagli ispettori delle medesime associazioni.

La procedura può essere poi attivata in conseguenza ad una sentenza che abbia accertato lo stato d’insolvenza; in tal caso la sentenza vincola l’autorità amministrativa competente a disporre la liquidazione coatta; mentre la proposta attuata da parte degli organi o organismi di vigilanza che attuano la revisione cooperativa, non è vincolante per l’autorità amministrativa e l’esito dell’istruttoria ministeriale potrebbe essere anche diverso da quello formulato con la richiesta (ad esempio il ministero potrebbe accertare la insussistenza dello stato di insolvenza, che presuppone l’apertura della procedura, ma riscontrare, ad esempio, i presupposti dell’art. 2545 sepdecies e ordinare lo scioglimento per atto di autorità magari senza nomina del Commissario Liquidatore).

L’art. 2545 terdecies prevede poi esplicitamente la regola della prevenzione, per cui l’apertura del fallimento preclude la liquidazione coatta amministrativa e vice versa.

La logica della liquidazione coatta amministrativa è sostanzialmente l’eliminazione dell’ente cooperativo dal mercato (anche se oggi è proponibile il concordato) e pertanto la possibilità di iniziare e continuare l’attività della procedura può andare anche contro la volontà dei creditori o della stessa cooperativa.

L’atto iniziale della liquidazione coatta amministrativa si concretizza quindi, in un Decreto Ministeriale che dovrà essere pubblicato sulla Gazzetta ufficiale della Repubblica su segnalazione del Ministero dello sviluppo economico.

Gli effetti del provvedimento amministrativo, tuttavia, non decorrono dalla pubblicazione dello stesso, che può avvenire anche con ritardi di mesi, ma dal momento della sua emanazione. Da tale momento infatti la cooperativa dovrà essere considerata in liquidazione coatta.

Solitamente il Ministero informa per posta sia la cooperativa che il Commissario liquidatore nominato dell’avvenuta emanazione del decreto notificandone una copia, in modo da iniziare la procedura indipendentemente dalla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

Le fasi in cui si può suddividere la procedura di liquidazione coatta amministrativa sono analoghe a quelle del fallimento: inventario, formazione dello stato passivo, liquidazione e ripartizione dell’attivo. Come accade in caso di fallimento, l’apertura del procedimento di liquidazione coatta preclude al creditore le azioni individuali in sede di giurisdizione ordinaria, poiché i creditori devono far valere le proprie istanze nella procedura amministrativa di accertamento dei crediti attuata dal commissario liquidatore.

La formazione dello stato passivo è l’atto principale della procedura e si differenzia rispetto al fallimento anche in relazione alla diversa struttura degli organi che la compongono e delle loro funzioni. La formazione del passivo della liquidazione coatta amministrativa, infatti, è un atto d’ufficio, di emanazione del commissario liquidatore, e si forma, secondo regole precisa, senza la necessità di alcun dibattimento davanti al giudice delegato, né di alcun parere dell’Ministero Vigilante. Il commissario, infatti, dovrà comunicare ex art. 207 Regio decreto 16 marzo 1942 n. 267 l’ammontare dei crediti riconosciuti e risultanti dalla documentazione contabile in suo possesso, nonché dalla contabilità della società, ad ogni singolo creditore a mezzo raccomandata, con riserva di verifica delle eventuali contestazioni. Il creditore che non ritenga giusta e corretta la comunicazione del commissario dovrà a sua volta comunicare, sempre tramite posta raccomandata, ed entro quindici giorni, le proprie osservazioni, che possono essere relative al quantum o alla natura del credito. Il commissario valuterà le osservazioni e senza alcun vincolo, deciderà in merito alla ammissione allo stato passivo.

I creditori e i titolari di diritti immobiliari che non avessero ricevuto alcuna comunicazione dal commissario liquidatore hanno l’onere di presentare, come previsto dall’art. 208 Regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, la propria domanda di ammissione entro 60 giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale Della Repubblica Italiana del decreto ministeriale.

Tutti i creditori devono sottostare al vaglio del commissario liquidatore e tutte le pretese devono essere azionate preliminarmente in via amministrativa.

Con il deposito presso la Cancelleria fallimentare del Tribunale ove ha sede la cooperativa, lo stato passivo diviene esecutivo e non è più possibile modificarlo o revocarlo. Il deposito assolve quindi una duplice funzione: quella di pubblicità notizia sui debiti dell’impresa e quella sui debitori concorrenti.

Il termine entro cui il commissario, ex art. 209 Regio decreto 16 marzo 1942 n. 267, deve provvedere alla formazione dello stato passivo è di novanta giorni decorrenti dalla data dal provvedimento di liquidazione. Il suddetto termine, tuttavia, deve essere inteso unicamente come acceleratorio, anche perché il Commissario, per la formazione di uno stato passivo più attendibile possibile (posto che si tratta di un atto unilaterale), dovrà necessariamente attendere il decorso del termine di 60gg dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del Decreto, in modo da verificare la sussistenza o meno di domande pervenute da creditori non destinatari della comunicazione ex art. 207 Legge Fallimentare; quindi, dati i tempi assai lunghi che normalmente decorrono dalla data del provvedimento alla data di pubblicazione, appare un termine quasi mai rispettato. Successivamente al deposito in cancelleria dello stato passivo i creditori e gli altri interessati possono presentare opposizioni o impugnazioni e queste sono regolate dalla legge fallimentare, se e per quanto applicabile. Il termine per le opposizioni e le impugnazioni decorre dalla comunicazione individuale del deposito in cancelleria, poiché non vi è un provvedimento giudiziale che renda esecutivo lo stato passivo.

Posta questa breve premessa, necessaria ad individuare le regole relative alla formazione dello stato passivo che devono essere applicate a tutte le tipologie di creditori, ivi inclusi i lavoratori soci e non soci; per quanto attiene le tutele particolari accordate alla categoria di creditori costituita dai lavoratori, si sono succeduti negli anni vari interventi sull’ipotesi generale di insolvenza del datore di lavoro, ivi inclusa quella dei lavoratori delle società cooperative.

E’ appena il caso di ricordare in questa sede che, a maggior ragione dopo la riforma della figura del socio lavoratore di cooperativa attuata con la legge 3 aprile 2001 n. 142, dove è stata sancita la duplicità del rapporto tra socio e cooperativa, appaiono superati i dubbi interpretativi circa la natura del rapporto lavorativo del socio di cooperativa al quale si applicava per estensione la normativa previdenziale e fiscale propria del lavoratore subordinato pur non essendo qualificabile come tale. La suddetta legge, infatti, nel disciplinare la coesistenza, nei confronti del socio, di un rapporto di tipo societario e di un separato e concorrente rapporto di tipo lavorativo sia esso autonomo, subordinato, parasubordinato, a progetto ecc. che deve essere qualificato nell’ambito del contratto di lavoro, ha eliminato la concezione che configurava tale rapporto come legato al raggiungimento dello scopo sociale e quindi non riconducibile al rapporto di lavoro subordinato.

Proprio in virtù di tale principio, oggi superato per effetto della suddetta legge, alcune società disponevano per regolamento il non accantonamento del trattamento di fine rapporto, con conseguente esenzione non solo da tale istituto ma anche dalla necessità di contribuire al finanziamento del fondo di garanzia istituito presso l’inps.

Oggi, tale decisione regolamentare parrebbe illegittima e al socio lavoratore dipendente dovranno quindi applicarsi tutte le norme riguardanti questa tipologia di rapporto e quindi tutte le tutele conseguenti, ivi inclusa quella accordata in caso di insolvenza del datore di lavoro.

E’ quindi condizione essenziale, per i lavoratori che intendo far valere le loro ragioni creditorie sia nei confronti della procedura stessa che eventualmente nei confronti del Fondo di garanzia di cui tratteremo in seguito, che i loro crediti, sia derivanti dal trattamento di fine rapporto che dalle mensilità correnti, vengano iscritti ed ammessi allo stato passivo della procedura secondo le regole sopra descritte.

La mancata iscrizione pregiudica in maniera assoluta la possibilità di essere soddisfatti, sia da parte della procedura, sia da parte del fondo di garanzia che successivamente dovrà surrogarsi nel medesimo stato passivo nella posizione del lavoratore/creditore.

Entrando ora nello specifico, il primo a pronunciarsi in materia di tutele accordate ai crediti dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, è stato il legislatore comunitario con la Direttiva n. 987 del 1980.

Tale direttiva ha previsto la necessità di istituire, da parte di ogni paese membro, un organismo di garanzia volto a sostituirsi al datore di lavoro nel pagamento di almeno una parte dei crediti rimasti insoddisfatti dalle procedure concorsuali.

Nel nostro ordinamento l’attuazione della Direttiva è stata assai travagliata ed è avvenuta in diverse fasi e dopo diverse condanne da parte della Corte di Giustizia per mancata conformazione alle prescrizioni comunitarie nei termini prescritti.

La prima tutela introdotta nel nostro ordinamento dall’art. 2 della legge 29 maggio 1982 n. 297, ha riguardato il credito derivante dall’accantonamento del trattamento di fine rapporto previsto dall’art. 2120 del codice civile.

La legge ha previsto l’istituzione di un Fondo di garanzia presso l’INPS, alimentato da contributi da parte dei datori di lavoro e destinato a sostituire l’imprenditore nell’erogazione. La riscossione del contributo di finanziamento del fondo era, ed è tutt’oggi, demandata all’Istituto previdenziale unitamente e con le modalità previste per i contributi previdenziali e assistenziali posti a carico delle aziende e dei dipendenti.

In ragione di tale limitato intervento la Corte di Giustizia ha dichiarato l’Italia inadempiente rimarcando l’inadeguatezza della normativa con particolare riferimento al contenuto delle garanzie. Successivamente, a causa dell’inerzia del nostro Paese, la Corte ha affermato il principio secondo cui lo Stato inadempiente, oltre all’obbligo di attuazione del contenuto della Direttiva, deve risarcire i singoli cittadini dei danni cagionati in conseguenza della mancata attuazione.

L’Italia, quindi, è stata costretta (seppur a distanza di dieci anni) a concludere il processo di recepimento attraverso il Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80, che ha individuato, sempre nel medesimo nel Fondo di garanzia istituito con la legge 29 maggio 1982 n. 297, l’organismo deputato ad intervenire per assicurare il pagamento dei crediti di lavoro diversi da quelli derivanti dal trattamento di fine rapporto e compromessi da situazioni di insolvenza del datore.

In particolare, l’art. 1, comma 1 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80 ha delimitato l’ambito soggettivo di applicazione della garanzia per i crediti di lavoro, stabilendo che:

“Nel caso in cui il datore di lavoro sia assoggettato alle procedure di fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa ovvero amministrazione straordinaria (…), il lavoratore da esso dipendente o i suoi aventi diritto possono ottenere - a domanda - il pagamento a carico del Fondo (…) dei crediti non corrisposti".

Il comma 2, ampliando il campo di applicazione, ha esteso esplicitamente il diritto alle prestazioni del Fondo ai dipendenti di datori di lavoro non assoggettabili alle procedure anzidette, "sempreché, a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione dei crediti, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti".

Il periodo di riferimento indennizzabile da parte del suddetto Fondo di garanzia, con riferimento ai crediti diversi dal trattamento di fine rapporto, è quello degli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro rientranti nei dodici mesi che precedono la data di apertura della procedura concorsuale o del provvedimento di messa in liquidazione della società o di cessazione dell’esercizio provvisorio (art. 2, comma 1).

Oltre al limite temporale del rimborso è previsto un massimale all’ammontare indennizzabile pari a tre volte la misura massima del trattamento di integrazione salariale mensile al netto delle trattenute previdenziali e assistenziali, unitamente alla previsione di incomulabilità dell’intervento del Fondo di garanzia con gli importi erogati a seguito di intervento della cassa integrazione guadagni straordinaria e dalla indennità di mobilità.

Il decreto legislativo 19 agosto 2005 n. 186 che ha recepito la direttiva comunitaria n. 74 del 2002, attraverso la modifica dell’art. 2 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80 e dell’art. 2 della legge 29 maggio 1982 n. 297, ha inoltre esteso l’intervento del Fondo, sia con riferimento al TFR che agli altri crediti inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, all’ipotesi in cui il datore di lavoro sia un’impresa che svolge la sua attività sul territorio di almeno due Stati membri o che sia costituita secondo le norme di un altro Stato membro e sottoposta ad una procedura concorsuale, posto che il dipendente abbia svolto con abitualità la sua attività in Italia.

Tornando agli elementi tecnici mi pare opportuno richiamare l’attenzione su cosa significhi prendere a riferimento gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro di cui all’art. 2, c. 1 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80, e cioè se questo comporti la necessaria sussistenza di un rapporto di lavoro pienamente funzionante o ammetta anche un periodo di totale sospensione del rapporto, senza diritto alla retribuzione.

In relazione a detta problematica si presentano diversi orientamenti giurisprudenziali:

• un primo orientamento ha privilegiato il rispetto del significato letterale, limitando di fatto l’ambito della disposizione in commento ai soli casi in cui le retribuzioni non percepite e oggetto della copertura da parte del Fondo di garanzia, fossero quelle dovute nei tre mesi precedenti la cessazione del rapporto di lavoro, escludendo quindi tutte le ipotesi in cui, per qualsiasi motivo, nulla fosse dovuto e l’insolvenza riguardasse un trimestre diverso;

• un altro orientamento ha, invece, posto l’attenzione sull’effettiva volontà del legislatore, al fine di garantire la tutela concreta delle ragioni del dipendente, ammettendo, quindi, la tutela assicurativa con riferimento alle ultime tre mensilità di retribuzione non percepite dal lavoratore a prescindere dalla loro coincidenza con gli ultimi tre mesi del rapporto di lavoro, e quindi anche nel caso in cui questi ultimi non fossero stati retribuiti per un particolare stato del rapporto, come ad esempio per un permesso non retribuito. Secondo tale orientamento deve, cioè, ritenersi che, ove il rapporto sia rimasto sospeso, senza obbligo di corresponsione della retribuzione, anteriormente alla data indicata dall’art. 2, comma 1 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80, la tutela sia riferibile alle tre mensilità antecedenti al periodo di sospensione, nell’ambito del limite dei dodici mesi, posto che la garanzia dell’effettiva percezione della retribuzione deve essere riferita alle ultime tre mensilità del rapporto "in atto".

In concreto, la giurisprudenza più recente sembra aderire a tale secondo orientamento, essendo tra l’altro conforme all’interpretazione data dalla Corte di Giustizia alla direttiva 80/987 CEE.

La stessa Corte, infatti, con la Sentenza 15 maggio 2003 ha ritenuto di dare all’espressione "rapporto di lavoro" un’interpretazione unitaria e coerente con lo scopo della direttiva, privilegiando i soli periodi di effettiva esecuzione del rapporto di lavoro, con conseguente irrilevanza dei periodi di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.

Per quanto attiene il computo del termine di dodici mesi, di cui all’art. 2, comma 1 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80 si segnala innanzitutto che già la formulazione del testo normativo è stata oggetto, di diversi dubbi, per esempio nel caso in cui il rapporto di lavoro si concluda, prima dei dodici mesi antecedenti la dichiarazione di fallimento. Considerando la disposizione letterale della norma, il lavoratore non avrebbe il diritto di rivolgersi al Fondo di garanzia per il pagamento dei suoi crediti di lavoro.

In questo caso specifico, a seguito dell’intervento della Corte di Giustizia con la Sentenza n. 3783/1995, è stato stabilito che:

“sulla base alla direttiva n. 80/987 Cee, l’insolvenza del datore di lavoro si determina all’atto dell’apertura della procedura per la dichiarazione di fallimento, e non al successivo momento in cui il fallimento viene dichiarato, sebbene sia necessario attendere questa dichiarazione per ottenere la garanzia del pagamento a carico del Fondo”.

Alla luce di tale pronuncia, la Corte di Cassazione italiana di riflesso, ha ritenuto che l’intervento del Fondo per il pagamento dei crediti di lavoro, inerenti gli ultimi tre mesi del rapporto, debba operare in tutti i casi in cui tali crediti siano sorti nei dodici mesi antecedenti l’apertura della procedura per la dichiarazione di fallimento, e non nei dodici mesi antecedenti la sentenza che abbia dichiarato il fallimento del datore di lavoro (Sentenza Corte di Cass. n. 1106/1999).

Quindi è stato sancito che il diritto all’intervento del Fondo è riconosciuto, non solo nel caso di domanda volta all’apertura di una procedura concorsuale, ma anche in quello di "qualsiasi iniziativa" del lavoratore parimenti volta ad ottenere la tutela giurisdizionale dei diritti garantiti dalla direttiva.

Infatti, in caso contrario, la garanzia di tutela che la Direttiva intende perseguire risulterebbe non attuata nell’ipotesi in cui il lavoratore faccia valere i propri diritti in una sede giurisdizionale diversa prima di avviare la procedura concorsuale e ciò anche in considerazione del fatto che, come rilevato, il nostro ordinamento, derogando in melius alle disposizioni comunitarie, prevede che, qualora il datore di lavoro non sia soggetto alle procedure concorsuali, il lavoratore o i suoi aventi diritto possano comunque accedere alle prestazioni del Fondo, "sempreché, a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione dei crediti, le garanzie patrimoniali siano risultate in tutto o in parte insufficienti" (art. 1, comma 2 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80).

Con riferimento alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, anche riallacciandosi a quanto indicato nella premessa relativamente al momento in cui si deve considerare aperta la procedura, non appare esservi dubbio sul termine da cui conteggiare a ritroso i dodici mesi di validità dell’intervento del fondo, in quanto l’art. 2, comma 1 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80 individua nella data del provvedimento che pone la cooperativa in liquidazione, il termine iniziale.

Ad avviso di chi scrive, al di là di una mera interpretazione letterale della norma che precisa distinti momenti in relazione alle diverse tipologie di procedure concorsuali, non possono essere considerati sullo stesso piano la richiesta di adozione del provvedimento amministrativo formulata in sede di revisione della cooperativa dagli ispettori delle associazioni o del Ministero, rispetto alla apertura della procedura giudiziale volta alla dichiarazione di fallimento.

La richiesta di adozione del provvedimento di liquidazione coatta attuata in sede di revisione della cooperativa, infatti, non dà inizio ad un procedimento di accertamento dello stato di insolvenza ma ha unicamente valore informativo nei confronti del Ministero Vigilante. Il Ministero vigilante potrebbe anche discrezionalmente e legittimamente ritenere di non avviare alcun procedimento amministrativo ed in tal caso la proposta formulata con il verbale di revisione resterebbe lettera morta non attuandosi alcuna procedura.

Solo in caso di avvio del procedimento che si concluderà con il decreto, si avrà l’apertura di una procedura concorsuale (che poi potrà essere revocata o opposta) e pertanto solo dalla data di adozione del provvedimento si avrà una valenza esterna dell’atto amministrativo e da tale data potranno decorrere a ritroso i 12 mesi di cui all’art. 2, comma 1 del Decreto legislativo 27 gennaio 1992 n. 80.