La verifica delle partecipazioni societarie, il tempo stringe
Si tratta ormai di un moto perpetuo che appare per di più scandito da una oscillazione periodica tra i due grandi poli che hanno contrassegnato l’evoluzione del settore in questi anni, ossia tra il processo di liberalizzazione dei servizi locali, da un lato, e il processo di privatizzazione delle società partecipate, dall’altro.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è da qualche tempo che i servizi pubblici locali si trovano nell’occhio del ciclone, in balia di un quadro normativo sempre più incerto, disordinato e complesso.
È il caso di ricordare che la disciplina generale della materia introdotta dall’art. 4 del DL n. 138 del 13 agosto 2011, convertito in legge 148/2011, volta a colmare il vuoto normativo conseguente all’abrogazione per referendum dell’art. 23 bis del DL 112/2008, è stata anch’essa cancellata ex abrupto dalla sentenza della Consulta n. 199 del 20 luglio 2012.
Tale pronuncia ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del suddetto art. 4, per avere tale norma riprodotto in larga parte l’art. 23 bis del DL 112/2008, in contrasto – come si legge nella decisione – con “il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost., secondo quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale”.
Secondo quanto ha lasciato chiaramente intendere la segnalazione dell’Antitrust inviata al Governo il 1 ottobre 2012, si può assumere che, dopo un siffatto intervento della Corte Costituzionale, il processo di liberalizzazione dei servizi pubblici locali sia ormai giunto al capolinea.
In tale circostanza, l’Autorità garante ha preso atto che “il grado di liberalizzazione del settore dei servizi pubblici è ancora insufficiente”, dacché “l’affidamento diretto, prevalentemente nella forma dell’in house providing, rimane la soluzione generalmente prescelta dagli Enti locali per la gestione dei servizi”.
In esito a una circostanziata analisi della materia, il documento conclude che:
a) “la concorrenza nel mercato risulta quasi assente, pur in settori dove quanto meno segmenti di attività appaiono profittevoli”;
b) “una parte significativa delle società in house attive nei servizi pubblici locali risulta in perdita”;
c) si registra una “scarsa presenza di soggetti privati nella gestione dei servizi, presenza che, invece, potrebbe favorire i necessari investimenti infrastrutturali e l’innovazione tecnologica”.
Tutto ciò premesso e richiamata la sentenza della Consulta n. 199/2012, l’Authority esclude, appunto, l’opportunità di un ulteriore intervento legislativo di carattere generale i cui contenuti potrebbero nuovamente risultare di dubbia costituzionalità, e suggerisce all’Esecutivo di concentrare invece l’attenzione su taluni settori ove esiste maggiore spazio di manovra per favorire la concorrenza, come il trasporto pubblico locale e il servizio di gestione dei rifiuti urbani.
Fatto sta che oggigiorno, nella singolare congiuntura venutasi a creare, l’assenza di una disciplina generale relativa ai servizi locali comporta – come la stessa Corte Costituzionale aveva affermato nella sentenza n. 24/2011, in ordine alla prospettata (analoga) abrogazione dell’art. 23 bis del DL 112/2008 – “l’applicazione immediata all’ordinamento italiano della normativa comunitaria relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara a evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi pubblici di rilevanza economica”, e di conseguenza l’ammissione di “ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica”.
In linea con queste considerazioni si pone il Consiglio di Stato, sez. VI, con la recente sentenza n. 762/2013, secondo cui nel vigente quadro normativo è venuto meno il principio dell’eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilievo economico.
Per dirla in altre parole, il settore dei servizi locali ha forse perso il treno della liberalizzazione, e sembra approdare a una forma organizzativa connotata dall’autoproduzione dei servizi, proprio come emerge dal rapporto della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica 2012, ove si legge che gli organismi partecipati dagli Enti locali in Italia sono circa 5.000, e il 78% di questi gestisce un pubblico servizio ottenuto direttamente (cioè senza gara) dall’Ente affidante.
In un siffatto contesto, si rileva che, a partire dalla seconda metà del 2012, l’ago della bilancia che regola il settore dei servizi pubblici si è spostato, senza ombra di dubbio, dal processo di liberalizzazione a quello di privatizzazione delle società partecipate.
Merita rilievo, da questo punto vista, l’art. 4 del DL 95/2012, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 135 (cosiddetta spending review), norma speciale che incide drasticamente sull’organizzazione dei servizi locali, mediante l’obbligo imposto agli Enti di sciogliere o di privatizzare le società strumentali, ossia le società che hanno per oggetto il disimpegno di servizi non erogati a una indifferenziata collettività di utenti, bensì rivolti al soddisfacimento di un bisogno diretto dell’Ente locale committente, come accade, per esempio, nel caso del servizio di pulizie, di riscaldamento e climatizzazione edifici comunali, o nel caso del servizio di manutenzioni impiantistiche.
Ai sensi dell’art. 4 del DL 95/2012 è disposto che, rispetto alle società controllate in via diretta o indiretta che abbiano realizzato nel 2011 un fatturato superiore al 90 % per la prestazione di siffatti servizi all’Ente locale, quest’ultimo procede alternativamente:
a) allo scioglimento entro il 31 dicembre 2013, con il beneficio di un regime fiscale agevolato;
b) all'alienazione con gara pubblica entro il 30 giugno 2013.
La disposizione precisa altresì che L’Ente locale, a seguito del venir meno della società strumentale, è tenuto alla contestuale assegnazione dei servizi sul mercato per 5 anni, non rinnovabili, a decorrere dal 1 gennaio 2014, con l’avvertenza che il bando di gara dovrà considerare, tra gli elementi rilevanti di valutazione dell'offerta, l'adozione di strumenti a tutela dei livelli di occupazione.
In tale prospettiva l’Antitrust, con la comunicazione del 4 febbraio 2013, rammenta che “si definiscono strumentali all'attività della Pubblica amministrazione, in funzione della loro attività, tutti quei beni e servizi erogati da società a diretto e immediato supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica di cui resta titolare l'ente pubblico di riferimento e con i quali lo stesso Ente provvede al perseguimento dei propri fini istituzionali”.
Passando poi all’ipotesi di deroga all’obbligo di mettere in gara i servizi strumentali, che l’art. 4, comma 3 del DL 95 circoscrive all’ipotesi in cui “per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento non sia possibile per l'amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato”, l’AGCM ricorda agli Enti che tali deroghe rivestono “carattere eccezionale, e devono formare oggetto di adeguata istruttoria e relativa motivazione e giustificazione da parte delle Amministrazioni”.
Ne consegue che un Ente locale, per derogare all’obbligo di dismettere la propria società strumentale, dovrà effettuare un’analisi di mercato e inviare all’Antitrust una relazione che ne recepisca gli esiti, utilizzando l’apposito formulario predisposto dall’Autorità per la richiesta di parere ai sensi della normativa in parola.
Merita poi rilievo la consistente mole di informazioni che l’AGCM chiede di produrre agli Enti che ritengano di avvalersi della deroga suddetta.
Tali Enti vengono infatti richiesti di fornire “almeno” quanto segue:
a) tutte le indicazioni soggettive relative alla/e societa affidataria/e dei servizi strumentali, fra cui l'atto costitutivo, lo statuto, gli ultimi tre bilanci approvati e le informazioni relative al campo di attività della stessa;
b) dati relativi al tipo ed al valore dei servizi in questione, nonché indicazioni in merito alle eventuali forme di finanziamento dell'attività svolta dalla società interessata;
c) indicazioni in merito a eventuali interventi di ricapitalizzazione e/o ripatrimonializzazione intervenuti negli ultimi tre anni;
d) una relazione contenente gli esiti dell'indagine di mercato dai quali risulti che non sia oggettivamente possibile un efficace e utile ricorso al mercato per l'approvvigionamento dei servizi forniti dalla società controllata.
La relazione di cui sopra dovrà contenere, in particolare:
• informazioni concernenti le caratteristiche economiche sociali, ambientali e geomorfologiche, anche territoriali, del contesto di riferimento;
• informazioni concernenti le caratteristiche economiche del settore o del mercato;
• indicazioni in merito ai principali operatori attivi;
• valutazione comparativa dei costi attuali di approvvigionamento dei servizi rispetto a eventuali disponibili benchmark di mercato;
• indicazioni in merito ad eventuali manifestazioni di interesse provenienti dal mercato a seguito di idonea pubblicizzazione degli elementi di cui al punto sub b).
Il rigore di queste indicazioni impartite per l’istanza di deroga all’obbligo di dismettere le società strumentali racconta come per tali società non vi siano ampi margini di sopravvivenza, e di ciò dovrebbero sicuramente tenere conto gli Enti nella programmazione delle loro scelte strategiche.
L’intervento della spending review in materia di dismissione di società strumentali non è tuttavia l’unico elemento che fa scendere il piatto della bilancia sul versante del processo di privatizzazione dei servizi locali.
Nella stessa direzione, infatti, punta l’esigenza di attuare, nel breve periodo, quanto disposto dall’art. 14, comma 32 del DL 78/2010, convertito nella legge 122/2010, in ordine all’obbligo per i Comuni minori di chiudere le società in perdita.
L’argomento, inutile nasconderselo, è un tema davvero cruciale, che sta inducendo molti Enti locali a programmare operazioni complesse di carattere straordinario da avviarsi nel breve periodo, per ottemperare agli stringenti obblighi di legge in materia.
La genesi di una disposizione così draconiana risale al fatto che il legislatore si è ormai reso conto che negli ultimi anni lo strumento societario è stato utilizzato alle Amministrazioni per porre in essere forme di gestione che solo formalmente risultano attribuibili a un soggetto esterno, ma che in sostanza sono riferibili alla PA, stante il rapporto di immedesimazione organica che intercorre tra l’Ente affidante e la società in house.
Alla luce del fatto che oltre un terzo delle società a partecipazione pubblica locale ha chiuso in perdita almeno uno degli esercizi compresi nel triennio 2008/2010, appare evidente la ragione per cui la Corte dei Conti, nel sopra citato rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2012, ha ritenuto che la revisione del perimetro delle società pubbliche debba essere considerata un’operazione essenziale non solo per attuare una riduzione della spesa, ma anche per rendere più efficiente l’azione pubblica.
Da questo angolo visuale, l’art. 14, comma 32 del DL 78/2010 non si è limitato – come aveva in precedenza stabilito l’art. 3, commi 27 e seguenti della legge 244/2007 – a circoscrivere l’impiego delle società, da parte degli Enti locali, alle sole attività di produzione di beni e servizi strettamente necessarie per il perseguimento delle relative finalità istituzionali, ma si è spinto a disporre la sostanziale fuoriuscita di una larga parte dei Comuni dalle rispettive società partecipate.
La norma de qua, nella versione oggi vigente, obbliga i Comuni con popolazione inferiore ai 30 mila abitanti a dismettere, entro il 30 settembre 2013, le società partecipate che abbiano registrato anche un solo bilancio in perdita negli esercizi 2010, 2011 e 2012.
Tale disposto avrà il probabile effetto di incidere in maniera profonda e irreversibile sugli assetti organizzativi del nostro territorio, dacché su un totale di 8101 Comuni esistenti in Italia ben 7797 sono gli Enti con una popolazione al di sotto dei 30 mila abitanti.
Nel contesto ora descritto, è agevole comprendere perché la Corte dei Conti, nell’esercizio delle funzioni consultive, sia stata ripetutamente interpellata da molte Amministrazioni locali per avere lumi sulle adeguate modalità di applicazione di un obbligo che, puntando con veemenza al risparmio della spesa pubblica, risulta tuttavia suscettibile di influire negativamente sul livello dei servizi pubblici erogati alla collettività stanziata sul territorio.
In un siffatto quadro normativo di adempimenti da assumersi entro scadenze ravvicinate, molti Enti locali si stanno chiedendo, in questo periodo, come procedere al meglio per attivare le procedure di verifica imposte dalle normative di legge con riguardo alle rispettive partecipazioni societarie.
È ovvio che il primo organo istituzionale a essere chiamato in causa è il Consiglio comunale dell’Ente, che, ai sensi del TUEL, è l’organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo dell’Ente, nelle cui attribuzioni è compresa la materia della “partecipazione dell'Ente locale a società di capitali” (art. 42, lett. e).
È a tale organo collegiale che compete l’onere di deliberare in ordine alla sopravvivenza o no delle partecipazioni societarie dell’Ente, sulla base di una idonea istruttoria svolta in materia.
Si tratta di un’istruttoria complessa, e che risulta tuttavia necessaria anche per evitare che l’inottemperanza negligente dei termini di legge esponga l’Ente locale a profili di irregolarità amministrativa, nonché, in ultima analisi, a ipotesi di responsabilità per danno erariale, a causa dell’eventuale mantenimento di partecipazioni societarie non più consentite, e che esulino, in quanto tali, dalle competenze istituzionali dell’Ente medesimo.
È appena il caso di ricordare, infatti, una massima antica, ma insuperata della magistratura contabile, secondo cui “le competenze generali del Comune trovano un limite nelle esigenze di carattere locale e, in particolare, la capacità di intervento sul territorio dell’Ente locale non può estendersi alle materie di competenza di altro Ente pubblico o dello Stato e, ove ciò si verifichi, si realizza un nocumento per l’Ente stesso in quanto l’utilizzo di risorse destinate per bilancio a determinate finalità, in materia difforme dalle previsioni, impedisce il perseguimento dei fini previsti ovvero la realizzazione di economie di esercizio” (Corte dei conti, sez. I, 30 settembre 1991, n. 300).
È un dato non controverso che, nel vorticoso ritmo di cambiamento che caratterizza gli eventi del nostro tempo, il mondo dei servizi pubblici locali si muove in maniera sempre più veloce e frenetica.
Si tratta ormai di un moto perpetuo che appare per di più scandito da una oscillazione periodica tra i due grandi poli che hanno contrassegnato l’evoluzione del settore in questi anni, ossia tra il processo di liberalizzazione dei servizi locali, da un lato, e il processo di privatizzazione delle società partecipate, dall’altro.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è da qualche tempo che i servizi pubblici locali si trovano nell’occhio del ciclone, in balia di un quadro normativo sempre più incerto, disordinato e complesso.
È il caso di ricordare che la disciplina generale della materia introdotta dall’art. 4 del DL n. 138 del 13 agosto 2011, convertito in legge 148/2011, volta a colmare il vuoto normativo conseguente all’abrogazione per referendum dell’art. 23 bis del DL 112/2008, è stata anch’essa cancellata ex abrupto dalla sentenza della Consulta n. 199 del 20 luglio 2012.
Tale pronuncia ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del suddetto art. 4, per avere tale norma riprodotto in larga parte l’art. 23 bis del DL 112/2008, in contrasto – come si legge nella decisione – con “il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost., secondo quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale”.
Secondo quanto ha lasciato chiaramente intendere la segnalazione dell’Antitrust inviata al Governo il 1 ottobre 2012, si può assumere che, dopo un siffatto intervento della Corte Costituzionale, il processo di liberalizzazione dei servizi pubblici locali sia ormai giunto al capolinea.
In tale circostanza, l’Autorità garante ha preso atto che “il grado di liberalizzazione del settore dei servizi pubblici è ancora insufficiente”, dacché “l’affidamento diretto, prevalentemente nella forma dell’in house providing, rimane la soluzione generalmente prescelta dagli Enti locali per la gestione dei servizi”.
In esito a una circostanziata analisi della materia, il documento conclude che:
a) “la concorrenza nel mercato risulta quasi assente, pur in settori dove quanto meno segmenti di attività appaiono profittevoli”;
b) “una parte significativa delle società in house attive nei servizi pubblici locali risulta in perdita”;
c) si registra una “scarsa presenza di soggetti privati nella gestione dei servizi, presenza che, invece, potrebbe favorire i necessari investimenti infrastrutturali e l’innovazione tecnologica”.
Tutto ciò premesso e richiamata la sentenza della Consulta n. 199/2012, l’Authority esclude, appunto, l’opportunità di un ulteriore intervento legislativo di carattere generale i cui contenuti potrebbero nuovamente risultare di dubbia costituzionalità, e suggerisce all’Esecutivo di concentrare invece l’attenzione su taluni settori ove esiste maggiore spazio di manovra per favorire la concorrenza, come il trasporto pubblico locale e il servizio di gestione dei rifiuti urbani.
Fatto sta che oggigiorno, nella singolare congiuntura venutasi a creare, l’assenza di una disciplina generale relativa ai servizi locali comporta – come la stessa Corte Costituzionale aveva affermato nella sentenza n. 24/2011, in ordine alla prospettata (analoga) abrogazione dell’art. 23 bis del DL 112/2008 – “l’applicazione immediata all’ordinamento italiano della normativa comunitaria relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara a evidenza pubblica per l’affidamento dei servizi pubblici di rilevanza economica”, e di conseguenza l’ammissione di “ipotesi di affidamento diretto e, in particolare, quelle di gestione in house di pressoché tutti i servizi pubblici locali di rilevanza economica”.
In linea con queste considerazioni si pone il Consiglio di Stato, sez. VI, con la recente sentenza n. 762/2013, secondo cui nel vigente quadro normativo è venuto meno il principio dell’eccezionalità del modello in house per la gestione dei servizi pubblici locali di rilievo economico.
Per dirla in altre parole, il settore dei servizi locali ha forse perso il treno della liberalizzazione, e sembra approdare a una forma organizzativa connotata dall’autoproduzione dei servizi, proprio come emerge dal rapporto della Corte dei Conti sul coordinamento della finanza pubblica 2012, ove si legge che gli organismi partecipati dagli Enti locali in Italia sono circa 5.000, e il 78% di questi gestisce un pubblico servizio ottenuto direttamente (cioè senza gara) dall’Ente affidante.
In un siffatto contesto, si rileva che, a partire dalla seconda metà del 2012, l’ago della bilancia che regola il settore dei servizi pubblici si è spostato, senza ombra di dubbio, dal processo di liberalizzazione a quello di privatizzazione delle società partecipate.
Merita rilievo, da questo punto vista, l’art. 4 del DL 95/2012, convertito in legge 7 agosto 2012, n. 135 (cosiddetta spending review), norma speciale che incide drasticamente sull’organizzazione dei servizi locali, mediante l’obbligo imposto agli Enti di sciogliere o di privatizzare le società strumentali, ossia le società che hanno per oggetto il disimpegno di servizi non erogati a una indifferenziata collettività di utenti, bensì rivolti al soddisfacimento di un bisogno diretto dell’Ente locale committente, come accade, per esempio, nel caso del servizio di pulizie, di riscaldamento e climatizzazione edifici comunali, o nel caso del servizio di manutenzioni impiantistiche.
Ai sensi dell’art. 4 del DL 95/2012 è disposto che, rispetto alle società controllate in via diretta o indiretta che abbiano realizzato nel 2011 un fatturato superiore al 90 % per la prestazione di siffatti servizi all’Ente locale, quest’ultimo procede alternativamente:
a) allo scioglimento entro il 31 dicembre 2013, con il beneficio di un regime fiscale agevolato;
b) all'alienazione con gara pubblica entro il 30 giugno 2013.
La disposizione precisa altresì che L’Ente locale, a seguito del venir meno della società strumentale, è tenuto alla contestuale assegnazione dei servizi sul mercato per 5 anni, non rinnovabili, a decorrere dal 1 gennaio 2014, con l’avvertenza che il bando di gara dovrà considerare, tra gli elementi rilevanti di valutazione dell'offerta, l'adozione di strumenti a tutela dei livelli di occupazione.
In tale prospettiva l’Antitrust, con la comunicazione del 4 febbraio 2013, rammenta che “si definiscono strumentali all'attività della Pubblica amministrazione, in funzione della loro attività, tutti quei beni e servizi erogati da società a diretto e immediato supporto di funzioni amministrative di natura pubblicistica di cui resta titolare l'ente pubblico di riferimento e con i quali lo stesso Ente provvede al perseguimento dei propri fini istituzionali”.
Passando poi all’ipotesi di deroga all’obbligo di mettere in gara i servizi strumentali, che l’art. 4, comma 3 del DL 95 circoscrive all’ipotesi in cui “per le peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto, anche territoriale, di riferimento non sia possibile per l'amministrazione pubblica controllante un efficace e utile ricorso al mercato”, l’AGCM ricorda agli Enti che tali deroghe rivestono “carattere eccezionale, e devono formare oggetto di adeguata istruttoria e relativa motivazione e giustificazione da parte delle Amministrazioni”.
Ne consegue che un Ente locale, per derogare all’obbligo di dismettere la propria società strumentale, dovrà effettuare un’analisi di mercato e inviare all’Antitrust una relazione che ne recepisca gli esiti, utilizzando l’apposito formulario predisposto dall’Autorità per la richiesta di parere ai sensi della normativa in parola.
Merita poi rilievo la consistente mole di informazioni che l’AGCM chiede di produrre agli Enti che ritengano di avvalersi della deroga suddetta.
Tali Enti vengono infatti richiesti di fornire “almeno” quanto segue:
a) tutte le indicazioni soggettive relative alla/e societa affidataria/e dei servizi strumentali, fra cui l'atto costitutivo, lo statuto, gli ultimi tre bilanci approvati e le informazioni relative al campo di attività della stessa;
b) dati relativi al tipo ed al valore dei servizi in questione, nonché indicazioni in merito alle eventuali forme di finanziamento dell'attività svolta dalla società interessata;
c) indicazioni in merito a eventuali interventi di ricapitalizzazione e/o ripatrimonializzazione intervenuti negli ultimi tre anni;
d) una relazione contenente gli esiti dell'indagine di mercato dai quali risulti che non sia oggettivamente possibile un efficace e utile ricorso al mercato per l'approvvigionamento dei servizi forniti dalla società controllata.
La relazione di cui sopra dovrà contenere, in particolare:
• informazioni concernenti le caratteristiche economiche sociali, ambientali e geomorfologiche, anche territoriali, del contesto di riferimento;
• informazioni concernenti le caratteristiche economiche del settore o del mercato;
• indicazioni in merito ai principali operatori attivi;
• valutazione comparativa dei costi attuali di approvvigionamento dei servizi rispetto a eventuali disponibili benchmark di mercato;
• indicazioni in merito ad eventuali manifestazioni di interesse provenienti dal mercato a seguito di idonea pubblicizzazione degli elementi di cui al punto sub b).
Il rigore di queste indicazioni impartite per l’istanza di deroga all’obbligo di dismettere le società strumentali racconta come per tali società non vi siano ampi margini di sopravvivenza, e di ciò dovrebbero sicuramente tenere conto gli Enti nella programmazione delle loro scelte strategiche.
L’intervento della spending review in materia di dismissione di società strumentali non è tuttavia l’unico elemento che fa scendere il piatto della bilancia sul versante del processo di privatizzazione dei servizi locali.
Nella stessa direzione, infatti, punta l’esigenza di attuare, nel breve periodo, quanto disposto dall’art. 14, comma 32 del DL 78/2010, convertito nella legge 122/2010, in ordine all’obbligo per i Comuni minori di chiudere le società in perdita.
L’argomento, inutile nasconderselo, è un tema davvero cruciale, che sta inducendo molti Enti locali a programmare operazioni complesse di carattere straordinario da avviarsi nel breve periodo, per ottemperare agli stringenti obblighi di legge in materia.
La genesi di una disposizione così draconiana risale al fatto che il legislatore si è ormai reso conto che negli ultimi anni lo strumento societario è stato utilizzato alle Amministrazioni per porre in essere forme di gestione che solo formalmente risultano attribuibili a un soggetto esterno, ma che in sostanza sono riferibili alla PA, stante il rapporto di immedesimazione organica che intercorre tra l’Ente affidante e la società in house.
Alla luce del fatto che oltre un terzo delle società a partecipazione pubblica locale ha chiuso in perdita almeno uno degli esercizi compresi nel triennio 2008/2010, appare evidente la ragione per cui la Corte dei Conti, nel sopra citato rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2012, ha ritenuto che la revisione del perimetro delle società pubbliche debba essere considerata un’operazione essenziale non solo per attuare una riduzione della spesa, ma anche per rendere più efficiente l’azione pubblica.
Da questo angolo visuale, l’art. 14, comma 32 del DL 78/2010 non si è limitato – come aveva in precedenza stabilito l’art. 3, commi 27 e seguenti della legge 244/2007 – a circoscrivere l’impiego delle società, da parte degli Enti locali, alle sole attività di produzione di beni e servizi strettamente necessarie per il perseguimento delle relative finalità istituzionali, ma si è spinto a disporre la sostanziale fuoriuscita di una larga parte dei Comuni dalle rispettive società partecipate.
La norma de qua, nella versione oggi vigente, obbliga i Comuni con popolazione inferiore ai 30 mila abitanti a dismettere, entro il 30 settembre 2013, le società partecipate che abbiano registrato anche un solo bilancio in perdita negli esercizi 2010, 2011 e 2012.
Tale disposto avrà il probabile effetto di incidere in maniera profonda e irreversibile sugli assetti organizzativi del nostro territorio, dacché su un totale di 8101 Comuni esistenti in Italia ben 7797 sono gli Enti con una popolazione al di sotto dei 30 mila abitanti.
Nel contesto ora descritto, è agevole comprendere perché la Corte dei Conti, nell’esercizio delle funzioni consultive, sia stata ripetutamente interpellata da molte Amministrazioni locali per avere lumi sulle adeguate modalità di applicazione di un obbligo che, puntando con veemenza al risparmio della spesa pubblica, risulta tuttavia suscettibile di influire negativamente sul livello dei servizi pubblici erogati alla collettività stanziata sul territorio.
In un siffatto quadro normativo di adempimenti da assumersi entro scadenze ravvicinate, molti Enti locali si stanno chiedendo, in questo periodo, come procedere al meglio per attivare le procedure di verifica imposte dalle normative di legge con riguardo alle rispettive partecipazioni societarie.
È ovvio che il primo organo istituzionale a essere chiamato in causa è il Consiglio comunale dell’Ente, che, ai sensi del TUEL, è l’organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo dell’Ente, nelle cui attribuzioni è compresa la materia della “partecipazione dell'Ente locale a società di capitali” (art. 42, lett. e).
È a tale organo collegiale che compete l’onere di deliberare in ordine alla sopravvivenza o no delle partecipazioni societarie dell’Ente, sulla base di una idonea istruttoria svolta in materia.
Si tratta di un’istruttoria complessa, e che risulta tuttavia necessaria anche per evitare che l’inottemperanza negligente dei termini di legge esponga l’Ente locale a profili di irregolarità amministrativa, nonché, in ultima analisi, a ipotesi di responsabilità per danno erariale, a causa dell’eventuale mantenimento di partecipazioni societarie non più consentite, e che esulino, in quanto tali, dalle competenze istituzionali dell’Ente medesimo.
È appena il caso di ricordare, infatti, una massima antica, ma insuperata della magistratura contabile, secondo cui “le competenze generali del Comune trovano un limite nelle esigenze di carattere locale e, in particolare, la capacità di intervento sul territorio dell’Ente locale non può estendersi alle materie di competenza di altro Ente pubblico o dello Stato e, ove ciò si verifichi, si realizza un nocumento per l’Ente stesso in quanto l’utilizzo di risorse destinate per bilancio a determinate finalità, in materia difforme dalle previsioni, impedisce il perseguimento dei fini previsti ovvero la realizzazione di economie di esercizio” (Corte dei conti, sez. I, 30 settembre 1991, n. 300).