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L’abuso di informazioni privilegiate e l’insider di se stesso

nota a Cass. pen. Sez. V, sentenza n. 31507/2021
Lisbona
Ph. Riccardo Radi / Lisbona

Ai fini dell’integrazione del reato di abuso di informazioni privilegiate, non occorre che l’informazione sia stata trasmessa all’agente da un terzo, né che essa abbia ad oggetto un fatto prodotto da un terzo. È quindi penalmente rilevante l’“insider trading di se stesso”, in una fattispecie di “rastrellamento” dei titoli di una società per azioni operato - prima della comunicazione al mercato della decisione di procedere ad un’offerta pubblica di acquisto degli stessi titoli e abusando di tale informazione - dall’amministratore delegato e dal presidente del consiglio di amministrazione della società, ideatori del progetto di OPA, tramite una società a responsabilità limitata appartenente al medesimo gruppo ed in concorso con il suo amministratore unico.

 

1. La vicenda giudiziaria

La tesi d’accusa, avallata da entrambi i giudici di merito, era che una società a responsabilità limitata (SRL) avesse acquistato un ingente quantitativo di azioni di una società per azioni (SPA), profittando indebitamente di un’informazione privilegiata consistente nella conoscenza di un progetto di offerta pubblica d’acquisto (OPA) finalizzata al delisting[1].

Il socio di controllo di entrambe le società, l’amministratore delegato della SPA e l’amministratore unico della SRL erano stati conseguentemente condannati per il reato di abuso di informazioni privilegiate previsto dall’art. 184, comma 1, lettera a), d.lgs. 58/1998 (Testo unico della Finanza, TUF).

 

2. I più significativi motivi di ricorso per cassazione

Tutti gli interessati hanno fatto ricorso per cassazione.

Hanno anzitutto lamentato di avere già subito ad opera della Commissione nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB) per il medesimo fatto – e insieme ad essi anche la SRL – una sanzione formalmente amministrativa ma sostanzialmente penale sicché la loro condanna in sede penale avrebbe comportato la violazione del ne bis in idem convenzionale quale definito progressivamente dalla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) e, ancor di più, della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU), da ultimo con particolare focalizzazione sul criterio della connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta.

I ricorrenti hanno osservato a questo proposito che la Corte territoriale aveva accentrato la sua attenzione sul requisito della proporzionalità complessiva delle due sanzioni, non prendendo tuttavia in considerazione il considerevole lasso di tempo intercorso tra l’esito del procedimento amministrativo e quello del procedimento penale e l’uso nel primo di elementi conoscitivi provenienti sì dal secondo ma inutilizzabili in quanto acquisiti fuori del contraddittorio e comunque in violazione delle regole del giusto processo.

Un’ulteriore censura ha riguardato la rilevanza penale della condotta attribuita ai ricorrenti.

Costoro hanno premesso che gli era stato contestato di avere utilizzato indebitamente un’informazione di cui erano direttamente in possesso in quanto attinente ad una decisione presa da essi stessi. Il giudizio di responsabilità per tale condotta sarebbe tuttavia il frutto di un’interpretazione scorretta della fattispecie incriminatrice il cui complessivo tenore letterale dimostrerebbe che il legislatore ha inteso punire l’utilizzatore abusivo di un’informazione privilegiata solo in quanto l’abbia ricevuta da altri e non sia egli stesso il produttore del fatto oggetto dell’informazione. In più, la mera rappresentazione interna del vantaggio conseguibile con la condotta abusiva non dovrebbe essere considerata rilevante ai fini del dato oggettivo della price sensitivity[2], per la sua inidoneità ad essere oggetto di un apprezzamento processuale.

 

3. La decisione della Corte di cassazione

La Corte ha rigettato tutti i ricorsi.

Il rigetto delle questioni sollevate riguardo all’asserita violazione del ne bis in idem europeo è dipeso da un complesso di ragioni.

Il collegio di legittimità ha anzitutto osservato, dopo ampi richiami al quadro giurisprudenziale costituzionale, convenzionale ed eurounitario, che nel nostro ordinamento solo gli istituti formalmente penali accedono con pienezza allo statuto proprio della pena: l’irretroattività della legge penale (art. 25, comma 2, Cost.), la personalità della responsabilità penale e il finalismo rieducativo della pena (art. 27 Cost.), le regole sul giusto processo (art. 111, commi 3/5, Cost.), l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.), nonché le ulteriori prerogative contenute nella parte propriamente penalistica dell’art. 6 CEDU, nell’art. 7 della stessa fonte e negli artt. 2 e 4 del suo Protocollo aggiuntivo n. 7 (si confronti sul punto Corte costituzionale, sentenza 68/2017). Per contro, solo alcune di queste garanzie si attagliano agli illeciti sostanzialmente penali senza però che, in virtù di questa parziale concessione, gli illeciti amministrativi si trasformino in reati, le sanzioni amministrative in pene, i procedimenti amministrativi in procedimenti penali.

A questa prima considerazione si deve aggiungere che a partire dalla sentenza A. e B. c. Norvegia (Corte EDU, Grande Sezione, 15 novembre 2016) i giudici di Strasburgo hanno considerata legittima, e quindi non necessariamente produttiva di un bis in idem, la possibilità per gli Stati di approntare tutele multilivello (risultanti dall’applicazione di plurimi strumenti sanzionatori) a fronte di condotte che ledono o mettono in pericolo importanti beni giuridici[3].

L’avvio di due distinti procedimenti finalizzati all’applicazione di sanzioni per il medesimo fatto non è dunque di per se stesso censurabile.

Non migliore sorte ha avuto la questione attinente all’asserita inutilizzabilità degli elementi conoscitivi traslati dal procedimento amministrativo a quello penale, in particolare la relazione redatta da un funzionario della CONSOB.

I giudici di legittimità hanno osservato che questo motivo era inammissibile per difetto di specificità poiché i ricorrenti non avevano adempiuto all’onere, valido per chiunque eccepisca l’inutilizzabilità di atti processuali, di indicare gli atti affetti dal vizio e chiarire la loro incidenza sul complessivo compendio indiziario.

L’attenzione del collegio si è quindi concentrata sui motivi attinenti ai profili soggettivi e oggettivi della condotta.

La motivazione ha preso le mosse dalla sentenza emessa dalla CGUE il 28 giugno 2012 nella controversia Markus Geltl c. Daimler A.G., C-19/11 e dalla definizione ivi accreditata di informazione privilegiata come «un'informazione che ha un carattere preciso, che non è stata resa pubblica e che concerne, direttamente o indirettamente, uno o più emittenti di strumenti finanziari o uno o più strumenti finanziari, che, se resa pubblica, potrebbe influire in modo sensibile sui prezzi di tali strumenti finanziari ovvero sui prezzi di strumenti finanziari derivati connessi».

È stata poi ricordata, ai fini della precisione dell’informazione, la Direttiva 2003/124/CE del 22 dicembre 2003, il cui art. 1, par. 1, richiede due requisiti entrambi imprescindibili: l'informazione deve riferirsi ad un complesso di circostanze esistente o di cui si possa ragionevolmente ritenere che verrà ad esistere o ad un evento verificatosi o di cui si possa ragionevolmente ritenere che si verificherà; essa deve essere sufficientemente specifica da consentire di trarre conclusioni sul possibile effetto di detto complesso di circostanze o di detto evento sui prezzi degli strumenti finanziari o di strumenti finanziari derivati ad essi connessi.

Così definito lo sfondo, il collegio della quinta sezione ha rilevato che entrambi i giudici di merito hanno valorizzato non già il foro interno degli imputati, come erroneamente sostenuto nei ricorsi, ma la sequenza delle decisioni operative adottate da costoro tali da rendere assolutamente prevedibile il risultato finale del delisting perseguito fin dall’inizio.

Ha ritenuto al tempo stesso che la prospettiva dell’OPA era sicuramente in grado di influire sul corso dei titoli tanto che, in effetti, dopo la diffusione del comunicato che la annunciava, nella seduta di borsa immediatamente successiva il prezzo delle azioni della SPA era aumentato significativamente, assestandosi ad un livello molto prossimo a quello fissato per l’OPA stessa.

Questa considerazione ha portato il collegio a respingere la tesi difensiva che attribuiva all’acquisto delle azioni della SPA da parte della SRL la natura di un investimento oculato fondato su previsioni razionali di analisti finanziari e ad escludere di conseguenza l’esistenza di un ragionevole dubbio sulle reali motivazioni dell’acquisto.

Nella parte successiva della motivazione l’estensore ha affrontato la questione, anch’essa sollevata dalla difesa come si è visto, dell’asserita impossibilità di attribuire rilievo penale all’abuso di un’informazione privilegiata derivante da un’attività direttamente compiuta dal soggetto agente.

È stato escluso che la formula descrittiva letterale usata nell’art. 184, comma 1, TUF,  cioè «essere in possesso di informazioni privilegiate in ragione della sua qualità di membro di organi di amministrazione, direzione o controllo dell'emittente, della partecipazione al capitale dell'emittente, ovvero dell'esercizio di un'attività lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio», implichi di per se stessa, come preteso dalla difesa, la necessità di un’alterità tra la fonte produttiva del fatto conosciuto e il soggetto titolare dell'informazione.

L’interpretazione deve essere piuttosto guidata dagli scopi perseguiti dal legislatore europeo e da quello interno, agevolmente identificabili nella protezione dell’integrità dei mercati finanziari dell’UE e nell’assicurazione della parità tra gli investitori che si vuole proteggere da condotte abusive e manipolatorie di operatori in possesso di informazioni privilegiate.

Data questa cornice finalistica e riconosciuto nel caso di specie il carattere parassitario dello sfruttamento dell’informazione privilegiata, il collegio ha concluso che l’assenza di alterità tra i produttori e gli utilizzatori dell’informazione non è in grado di escludere la rilevanza penale dell’abuso[4].

Ancora di seguito il collegio ha affrontato il tema della proporzionalità del trattamento sanzionatorio complessivamente inflitto ai ricorrenti nel procedimento amministrativo ed in quello penale[5].

In applicazione dei parametri così individuati il collegio ha esaminato analiticamente il trattamento concretamente riservato ai ricorrenti ed ha escluso che abbia ecceduto i limiti dell’equità e della ragionevolezza sanzionatoria.

 

4. Riflessioni conclusive

La sentenza commentata si pone perfettamente in linea con lo stato dell’arte giurisprudenziale consolidatosi negli ultimi anni.

Come si è visto, i giudici europei dei diritti umani, a partire dalla sentenza A. e B. c. Norvegia, hanno corretto decisamente la rotta riguardo alla definizione del concetto di “materia penale” e alla definizione degli effetti che derivano dall’inclusione di un istituto in quell’ambito.

Uno dei suoi più importanti baluardi, il divieto di bis in idem, è stato severamente ridimensionato e si è dato il via libera al cosiddetto “doppio binario” che consente l’applicazione congiunta di sanzioni amministrative e penali.

La giurisprudenza eurounitaria si è allineata rapidamente e lo stesso ha fatto quella nazionale, tradizionalmente piuttosto restia ad accogliere le spinte garantiste dei giudici dei diritti umani.

Il revirement strasburghese è stato verosimilmente una sorta di realpolitik dovuta alle resistenze di un numero crescente di Stati europei ad indirizzi interpretativi che influenzino troppo invasivamente le loro politiche punitive.

Al tempo stesso, aumenta costantemente in sede europea l’attenzione alla protezione dell’integrità dei mercati e l’esigenza di proteggere gli investitori ordinari dagli abusi di chi, per ruolo e funzione, ha il potere della conoscenza e se ne avvale strumentalmente.

Nessuno spazio è riconosciuto coerentemente ad argomentazioni che depotenzierebbero quella protezione.

 

[1] Cancellazione dal listino delle società quotate.

[2] Capacità di una notizia di provocare, se diffusa, il mutamento del prezzo di uno strumento finanziario.

[3] Si rinvia, per una riassunzione dell’evoluzione giurisprudenziale in tema di “materia penale”, a V. Giglio, La “materia penale” e il suo statuto nella giurisprudenza interna e sovranazionale, in Diritto Penale e Uomo, 16 ottobre 2019, a questo link.

[4] Questo è il passaggio testuale in cui è stato precisato il punto di diritto: «la norma incriminatrice non punisce chi disponga di una mera posizione privilegiata derivante dalla possibilità di meglio leggere, valorizzare, interpretare informazioni, ivi incluse quelle di pubblico dominio, delle quali disponga, ma colui che, come nel caso di specie, essendo a conoscenza, in ragione delle qualità soggettive indicate dal legislatore, di eventi price sensitive nei termini sopra precisati, sfrutti siffatta conoscenza per operare in condizioni di disparità con gli altri investitori, finendo per danneggiare un valore (la fiducia nella trasparenza dei mercati), che mira ad incentivare e a non scoraggiare l'afflusso e la circolazione dei capitali nell'interesse degli stessi imprenditori interessati al loro utilizzo per iniziative produttive».

[5] In motivazione è citata a questo proposito Cass. pen., Sez. V, n. 39999/2019 secondo la quale «in tema di insider trading e ne bis in idem, la disapplicazione della disciplina penale potrà avere luogo soltanto nell'ipotesi in cui la sanzione amministrativa già inflitta in via definitiva sia strutturata in maniera e misura tali da assorbire completamente il disvalore della condotta ("coprendo" sia aspetti rilevanti a fini penali che a fini amministrativi e, in particolare, offrendo tutela complessivamente e pienamente adeguata e soddisfacente all'interesse protetto dell'integrità dei mercati finanziari e della fiducia del pubblico negli strumenti finanziari), poiché in tal caso il cumulo delle sanzioni risulta radicalmente sproporzionato e contrario ai principi sanciti dagli artt. 50 CDFUE e 4 Prot. n. 7 CEDU, come interpretati dalla giurisprudenza sovranazionale ed eurounitaria sopra ricordata. Nel valutare la proporzionalità della sanzione è necessario tenere conto, con riguardo alla pena della multa, del meccanismo "compensativo" previsto dall'art. 187-terdecies TUF, secondo cui, quando per lo stesso fatto è stata applicata a carico del reo o dell'ente una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell'articolo 187-septies, l'esazione della pena pecuniaria e della sanzione pecuniaria dipendente da reato è limitata alla parte eccedente quella riscossa dall'autorità amministrativa. L'art. 187-terdecies, pur essendo una norma dai limitati effetti, che risolve il problema del doppio binario sanzionatorio soltanto dal punto di vista della sanzione pecuniaria complessivamente irrogata, tuttavia dovrà essere tenuto in conto al momento di commisurare la pena pecuniaria in sede penale, una volta divenuta definitiva la sanzione pecuniaria amministrativa. Ovviamente, la rimodulazione del trattamento sanzionatorio dovrà essere compiuta mediante una verifica complessiva che attenga sia alla pena principale che alla confisca ex art. 187 TUF ed alle pene accessorie. In altri termini, al fine di procedere alla valutazione sul rapporto tra afflittività globale della sanzione integrata e disvalore del fatto commesso, il richiamo ai parametri normativi previsti dall'art. 133 cod. pen., utili a modulare la sanzione complessivamente inflitta, deve tener conto di un "allargamento" dell'oggetto di tali valutazioni, che, per un verso, devono essere estese al trattamento sanzionatorio inteso come comprensivo anche della sanzione formalmente amministrativa».