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L’ammissibilità della domanda giudiziale degli interessi anatocistici nel processo tributario

È tuttora aperto il dibattito circa il riconoscimento degli interessi anatocistici sui crediti vantati nei confronti dell’amministrazione finanziaria, ed in particolare quelli per tardivo rimborso dell’I.V.A..

L’art. 38-bis del d.p.r. 26.10.1972 n. 633 si limita a prevedere che “sulle somme rimborsate si applicano gli interessi in ragione del 5% annuo, con decorrenza dal novantesimo giorno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione, non computando il periodo intercorrente tra la data di notifica della richiesta di documenti e la data della loro consegna, quando superi i quindici giorni”, senza prevedere specificamente la corresponsione degli interessi anatocistici (PANDOLFINI, La disciplina degli interessi pecuniari, PADOVA, 2004, p. 160).

Nell’ipotesi in cui l’amministrazione finanziaria provveda al rimborso della maggiore imposta, ma non degli interessi dovuti, si pone il problema di accertare se sia possibile per il contribuente richiedere la condanna dell’Amministrazione a corrispondere, oltre gli interessi ai sensi della norma ora menzionata, anche gli interessi anatocistici, ex art. 1283 del c.c.

Sul punto si sono riscontrati differenti orientamenti giurisprudenziali.

Innanzitutto bisogna evidenziare come l’applicabilità, di cui all’articolo 1283 del c.c., limitatamente alla materia dei rimborsi d’imposta, è stata riconosciuta dalla Cassazione solo da poco e, più precisamente, a partire dalla sentenza del 22 gennaio 1999, n. 552 di cui si dirà successivamente.

Sino ad allora si era affermato l’orientamento secondo cui l’istituto in parola non trovava applicazione in ambito tributario dove prevalgono le disposizioni speciali che regolano compiutamente gli effetti della mora debendi.

Ciò era stato sostenuto con la sentenza del 10 luglio 1966, n. 6310, in cui la Cassazione affermava che le disposizioni fiscali in tema di interessi costituivano una normativa speciale, di per sé completa, che non necessita di integrazione con disposizioni di carattere generale, quale appunto quella di cui all’art. 1283 del c.c.

In proposito, i giudici di legittimità avevano, infatti, rilevato che “sull’art. 1283 del c.c., così come sulle altre disposizioni dettate dal codice civile per la mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, prevalgono, in materia tributaria, in base ai comuni criteri che presiedono al rapporto fra disposizione generale e disposizione speciale, le norme che espressamente e compiutamente stabiliscono per le obbligazioni d’imposta gli effetti di detta mora” (Cass., 10 luglio 1996, n. 6310).

Invece, con la predetta pronuncia della Cassazione del 22 gennaio 1999, n. 552, si è affermato l’orientamento, presso le corti di merito, secondo cui sugli interessi dovuti dall’amministrazione per rimborsi effettuati oltre i termini di legge devono applicarsi gli interessi anatocistici ai sensi dell’art. 1283 del c.c., qualora sussistano tutte le condizioni previste da tale norma.

La conferma di questo orientamento viene anche da una pronuncia della Commissione Tributaria Provinciale di Bari del 28 aprile 2004, n. 81 in cui si afferma che “il contribuente può conseguire la condanna dell’amministrazione al pagamento degli interessi anatocistici per il ritardato rimborso del credito IVA, a condizione che sussistano i presupposti configurati dall’art. 1283 del c.c. e nei limiti consentiti da tale disposizione.

Considerato, pertanto, che il diritto al riconoscimento degli interessi sugli interessi scaduti si realizza esclusivamente quando l’Amministrazione ritarda il pagamento degli interessi ordinari liquidati e resi esigibili, non è tempestiva né proponibile la richiesta degli interessi anatocistici quando, come nel caso di specie, non risulta ancora avveratasi la fase liquidativa e di corresponsione della creditoria e dei relativi interessi ordinari”; inoltre, prosegue la Commissione, “in via generale può affermarsi che ai contribuenti spetta anche il maggior danno da rivalutazione monetaria ex art. 1224 del c.c., comma 2, ancorché le disposizioni specificamente emanate in materia di rimborsi di imposta nulla prevedano a tale proposito, tuttavia, a tal fine, incombe sul creditore l’onere di provare in giudizio il danno patrimoniale di particolare gravità subito” (Comm. Trib. prov.le Bari, 28 aprile 2004, n. 81).

Infatti, ai sensi dell’art. 1224 del c.c., il creditore può richiedere anche l’eventuale ulteriore danno rispetto agli interessi moratori cui ha già diritto, in questo caso, però, ha l‘onere di dimostrare specificatamente questo ulteriore danno subito.

Di recente, la Suprema Corte, con la sentenza dell’8 marzo 2006, n. 4935, ha confermato l’applicabilità dell’art. 1283 del c.c. alla materia dei rimborsi d’imposta affermando che il principio, secondo cui il creditore pecuniario può con apposita domanda giudiziale chiedere la condanna del debitore al pagamento degli interessi anatocistici che matureranno appunto dalla data della suddetta domanda sugli interessi che sono già scaduti alla data della domanda, trova applicazione anche in materia tributaria e specificamente in materia di rimborsi di imposta, ove il contribuente può conseguire la condanna dell’amministrazione finanziaria al pagamento degli interessi anatocistici (Cass., 8 marzo 2006, n. 4935).

La Cassazione, come evidenziato precedentemente, aveva già riconosciuto questo principio con la sentenza del 22 gennaio 1999, n. 552, affermando che la presenza della pubblica amministrazione in qualità di creditore o debitore, non altera la struttura del rapporto obbligatorio, in quanto le correlative posizioni di debito e di credito, anche se si tratta di una fattispecie regolata dal diritto pubblico, sono comunque assoggettate alla disciplina di diritto comune contenuta nel codice civile, al pari di quelle che intercorrono tra soggetti privati.

Da questa premessa di carattere generale, i giudici affrontano più nello specifico la materia dei rimborsi di imposta, argomentando, a tal riguardo, che l’applicabilità dell’art. 1283 del c.c., che consente la capitalizzazione degli interessi, sia pure entro limiti ben precisi, non può essere pregiudizialmente esclusa “posto che l’art 38-bis del d.p.r. n. 633/72 e, in genere, le norme che regolano il rimborso delle imposte versate in eccesso, nulla prevedono a tale riguardo e che, per quanto si è detto, la disciplina delle obbligazioni tributarie, come di ogni altra obbligazione che trovi fondamento in fatti regolati dal diritto pubblico, deve essere ricavata, per quegli aspetti che non sono specificamente disciplinati dalle norme speciali, dalle disposizioni contenute nel primo titolo del quarto libro del codice civile” (FASANO, Interessi anatocistici sui rimborsi amministrazione condannabile, ma su richiesta, in www.fiscooggi.it).

Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, confermata dalla sentenza in commento, la mancata formulazione pertanto della domanda relativa agli interessi anatocistici nell’atto introduttivo, rende inammissibile le successive richieste comunque avanzate in tal senso.

Né può pervenirsi all’ammissione di tale domanda anatocistica successivamente proposta argomentando dalla previsione dell’art. 345 del c.p.c., che prevede una deroga al divieto di domande nuove in appello, in relazione alla possibilità di formulare appunto in appello domande volte al riconoscimento di interessi, frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata.

Tale possibilità, è infatti limitata a quelle pretese che si riferiscano a domande che la sentenza di primo grado non abbia potuto decidere, in quanto relative a diritti (risarcitori o accessori, quali interessi o frutti), maturati successivamente alla sentenza di primo grado, che nello stesso tempo siano però strettamente connesse e dipendenti dalla domanda fatta valere in tale giudizio.

Al riguardo, i giudici di ultima istanza evidenziano come sia necessario che “il contribuente-creditore indichi tutti gli elementi necessari alla liquidazione degli interessi, a cominciare dalla capitalizzazione del primo semestre di interessi maturati sul capitale. E soprattutto, che tale richiesta, sia stata formulata nell’atto introduttivo del giudizio tributario avente ad oggetto il rimborso d’imposta, non potendosi esso considerare… accessorio del credito principale conseguente in via automatica dall’accoglimento della domanda di rimborso o di quella degli interessi maturati dalla domanda già rivolta al Fisco” (Cass., 8 marzo 2006, n. 4935).

Inoltre, richiamando le conclusioni a cui sono pervenute le Sezioni Unite con la sentenza del 14 ottobre 1998, n. 10156 (Cass., 14 ottobre 1998, n. 10156), la Cassazione ribadisce che “quando la formulazione delle conclusioni sia ambigua, in quanto suscettibile di esser interpretata sia come rivolta ad ottenere il riconoscimento degli interessi anatocistici sia come richiesta degli interessi moratori destinati a maturare dopo la domanda e fino all’effettivo pagamento, il Giudice del merito, stante la necessaria specificità della richiesta dell’anatocismo, non può ritenere che essa sia stata proposta, quando l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono le ragioni della domanda, alla quale egli deve far riferimento per sciogliere quell’ambiguità, non somministri argomenti in tal senso. Resta altresì escluso che all’assenza di siffatta domanda in primo grado possa rimediarsi mediante la sua formulazione per la prima volta in appello sia pure limitatamente agli interessi prodotti dalla data di tale domanda sul capitale rappresentato dagli interessi scaduti sino a tale data, non essendo consentito proporre in appello per la prima volta la domanda di pagamento di interessi maturati dopo la sentenza di primo grado se il fatto produttivo di interessi era anteriore all’inizio del processo e ciononostante la relativa domanda non sia stata proposta nel giudizio di primo grado”.

Nel caso in esame, la specifica domanda alla condanna degli interessi anatocistici è stata proposta, seppur nel primo grado di giudizio, solo con la memoria illustrativa depositata prima della discussione della causa e, dunque, non nel ricorso introduttivo con cui vengono cristallizzati e delimitati il petitum e la causa petendi, i quali non possono certo essere modificati e/o integrati dalla memoria illustrativa presentata dal contribuente. Questa tardività della richiesta, pertanto, ne ha determinato l’inammissibilità.

Come osservato dalla stessa Corte, infatti, “il giudizio tributario, in base alla disciplina dettata dagli artt. 18, 2° comma, 19 e 24, 2° comma, d.lgs. n. 546 del 1992, è caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio, circoscritto alla verifica della legittimità della pretesa effettivamente avanzata con l‘atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso atto indicati, ed ha un oggetto rigidamente delimitato dalle considerazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo…” (Cass., 8 marzo 2006, n. 4935).

Di recente, però, il legislatore, con il decreto legge n. 223 del 4 luglio 2006 convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248, ha posto la parola fine in relazione alla questione della debenza o meno degli interessi anatocistici sui crediti dei contribuenti nei confronti del fisco.

Infatti, l’art. 37 comma 50 del predetto decreto legge stabilisce che “gli interessi previsti per il rimborso di tributi non producono in nessun caso interessi ai sensi dell’art. 1283 del c.c.” (PLACIDO, Stop all’anatocismo per i crediti tributari, in www.fiscooggi.it ).

In sostanza la norma in esame si pone in contrasto con l’indirizzo della Cassazione che si era affermato nelle pronunce più recenti che riconosce ai contribuenti la possibilità di chiedere ed ottenere gli interessi anatocistici anche nei confronti del Fisco.

A questo punto, come evidenziato nella circolare dell’Agenzia delle entrate n. 28/E del 4 agosto 2006, in assenza di specifiche disposizioni, la norma “chiarificatrice” entra in vigore il 4 luglio 2006, applicandosi agli interessi che maturano da tale data.

In sostanza, per i crediti già esistenti alla data di entrata in vigore del decreto, dovrà applicarsi un doppio sistema per il calcolo degli interessi: fino al 4 luglio 2006 il credito tributario produce interessi anatocistici, successivamente smette di produrne.

È tuttora aperto il dibattito circa il riconoscimento degli interessi anatocistici sui crediti vantati nei confronti dell’amministrazione finanziaria, ed in particolare quelli per tardivo rimborso dell’I.V.A..

L’art. 38-bis del d.p.r. 26.10.1972 n. 633 si limita a prevedere che “sulle somme rimborsate si applicano gli interessi in ragione del 5% annuo, con decorrenza dal novantesimo giorno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione, non computando il periodo intercorrente tra la data di notifica della richiesta di documenti e la data della loro consegna, quando superi i quindici giorni”, senza prevedere specificamente la corresponsione degli interessi anatocistici (PANDOLFINI, La disciplina degli interessi pecuniari, PADOVA, 2004, p. 160).

Nell’ipotesi in cui l’amministrazione finanziaria provveda al rimborso della maggiore imposta, ma non degli interessi dovuti, si pone il problema di accertare se sia possibile per il contribuente richiedere la condanna dell’Amministrazione a corrispondere, oltre gli interessi ai sensi della norma ora menzionata, anche gli interessi anatocistici, ex art. 1283 del c.c.

Sul punto si sono riscontrati differenti orientamenti giurisprudenziali.

Innanzitutto bisogna evidenziare come l’applicabilità, di cui all’articolo 1283 del c.c., limitatamente alla materia dei rimborsi d’imposta, è stata riconosciuta dalla Cassazione solo da poco e, più precisamente, a partire dalla sentenza del 22 gennaio 1999, n. 552 di cui si dirà successivamente.

Sino ad allora si era affermato l’orientamento secondo cui l’istituto in parola non trovava applicazione in ambito tributario dove prevalgono le disposizioni speciali che regolano compiutamente gli effetti della mora debendi.

Ciò era stato sostenuto con la sentenza del 10 luglio 1966, n. 6310, in cui la Cassazione affermava che le disposizioni fiscali in tema di interessi costituivano una normativa speciale, di per sé completa, che non necessita di integrazione con disposizioni di carattere generale, quale appunto quella di cui all’art. 1283 del c.c.

In proposito, i giudici di legittimità avevano, infatti, rilevato che “sull’art. 1283 del c.c., così come sulle altre disposizioni dettate dal codice civile per la mora debendi nelle obbligazioni pecuniarie, prevalgono, in materia tributaria, in base ai comuni criteri che presiedono al rapporto fra disposizione generale e disposizione speciale, le norme che espressamente e compiutamente stabiliscono per le obbligazioni d’imposta gli effetti di detta mora” (Cass., 10 luglio 1996, n. 6310).

Invece, con la predetta pronuncia della Cassazione del 22 gennaio 1999, n. 552, si è affermato l’orientamento, presso le corti di merito, secondo cui sugli interessi dovuti dall’amministrazione per rimborsi effettuati oltre i termini di legge devono applicarsi gli interessi anatocistici ai sensi dell’art. 1283 del c.c., qualora sussistano tutte le condizioni previste da tale norma.

La conferma di questo orientamento viene anche da una pronuncia della Commissione Tributaria Provinciale di Bari del 28 aprile 2004, n. 81 in cui si afferma che “il contribuente può conseguire la condanna dell’amministrazione al pagamento degli interessi anatocistici per il ritardato rimborso del credito IVA, a condizione che sussistano i presupposti configurati dall’art. 1283 del c.c. e nei limiti consentiti da tale disposizione.

Considerato, pertanto, che il diritto al riconoscimento degli interessi sugli interessi scaduti si realizza esclusivamente quando l’Amministrazione ritarda il pagamento degli interessi ordinari liquidati e resi esigibili, non è tempestiva né proponibile la richiesta degli interessi anatocistici quando, come nel caso di specie, non risulta ancora avveratasi la fase liquidativa e di corresponsione della creditoria e dei relativi interessi ordinari”; inoltre, prosegue la Commissione, “in via generale può affermarsi che ai contribuenti spetta anche il maggior danno da rivalutazione monetaria ex art. 1224 del c.c., comma 2, ancorché le disposizioni specificamente emanate in materia di rimborsi di imposta nulla prevedano a tale proposito, tuttavia, a tal fine, incombe sul creditore l’onere di provare in giudizio il danno patrimoniale di particolare gravità subito” (Comm. Trib. prov.le Bari, 28 aprile 2004, n. 81).

Infatti, ai sensi dell’art. 1224 del c.c., il creditore può richiedere anche l’eventuale ulteriore danno rispetto agli interessi moratori cui ha già diritto, in questo caso, però, ha l‘onere di dimostrare specificatamente questo ulteriore danno subito.

Di recente, la Suprema Corte, con la sentenza dell’8 marzo 2006, n. 4935, ha confermato l’applicabilità dell’art. 1283 del c.c. alla materia dei rimborsi d’imposta affermando che il principio, secondo cui il creditore pecuniario può con apposita domanda giudiziale chiedere la condanna del debitore al pagamento degli interessi anatocistici che matureranno appunto dalla data della suddetta domanda sugli interessi che sono già scaduti alla data della domanda, trova applicazione anche in materia tributaria e specificamente in materia di rimborsi di imposta, ove il contribuente può conseguire la condanna dell’amministrazione finanziaria al pagamento degli interessi anatocistici (Cass., 8 marzo 2006, n. 4935).

La Cassazione, come evidenziato precedentemente, aveva già riconosciuto questo principio con la sentenza del 22 gennaio 1999, n. 552, affermando che la presenza della pubblica amministrazione in qualità di creditore o debitore, non altera la struttura del rapporto obbligatorio, in quanto le correlative posizioni di debito e di credito, anche se si tratta di una fattispecie regolata dal diritto pubblico, sono comunque assoggettate alla disciplina di diritto comune contenuta nel codice civile, al pari di quelle che intercorrono tra soggetti privati.

Da questa premessa di carattere generale, i giudici affrontano più nello specifico la materia dei rimborsi di imposta, argomentando, a tal riguardo, che l’applicabilità dell’art. 1283 del c.c., che consente la capitalizzazione degli interessi, sia pure entro limiti ben precisi, non può essere pregiudizialmente esclusa “posto che l’art 38-bis del d.p.r. n. 633/72 e, in genere, le norme che regolano il rimborso delle imposte versate in eccesso, nulla prevedono a tale riguardo e che, per quanto si è detto, la disciplina delle obbligazioni tributarie, come di ogni altra obbligazione che trovi fondamento in fatti regolati dal diritto pubblico, deve essere ricavata, per quegli aspetti che non sono specificamente disciplinati dalle norme speciali, dalle disposizioni contenute nel primo titolo del quarto libro del codice civile” (FASANO, Interessi anatocistici sui rimborsi amministrazione condannabile, ma su richiesta, in www.fiscooggi.it).

Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, confermata dalla sentenza in commento, la mancata formulazione pertanto della domanda relativa agli interessi anatocistici nell’atto introduttivo, rende inammissibile le successive richieste comunque avanzate in tal senso.

Né può pervenirsi all’ammissione di tale domanda anatocistica successivamente proposta argomentando dalla previsione dell’art. 345 del c.p.c., che prevede una deroga al divieto di domande nuove in appello, in relazione alla possibilità di formulare appunto in appello domande volte al riconoscimento di interessi, frutti e gli accessori maturati dopo la sentenza impugnata.

Tale possibilità, è infatti limitata a quelle pretese che si riferiscano a domande che la sentenza di primo grado non abbia potuto decidere, in quanto relative a diritti (risarcitori o accessori, quali interessi o frutti), maturati successivamente alla sentenza di primo grado, che nello stesso tempo siano però strettamente connesse e dipendenti dalla domanda fatta valere in tale giudizio.

Al riguardo, i giudici di ultima istanza evidenziano come sia necessario che “il contribuente-creditore indichi tutti gli elementi necessari alla liquidazione degli interessi, a cominciare dalla capitalizzazione del primo semestre di interessi maturati sul capitale. E soprattutto, che tale richiesta, sia stata formulata nell’atto introduttivo del giudizio tributario avente ad oggetto il rimborso d’imposta, non potendosi esso considerare… accessorio del credito principale conseguente in via automatica dall’accoglimento della domanda di rimborso o di quella degli interessi maturati dalla domanda già rivolta al Fisco” (Cass., 8 marzo 2006, n. 4935).

Inoltre, richiamando le conclusioni a cui sono pervenute le Sezioni Unite con la sentenza del 14 ottobre 1998, n. 10156 (Cass., 14 ottobre 1998, n. 10156), la Cassazione ribadisce che “quando la formulazione delle conclusioni sia ambigua, in quanto suscettibile di esser interpretata sia come rivolta ad ottenere il riconoscimento degli interessi anatocistici sia come richiesta degli interessi moratori destinati a maturare dopo la domanda e fino all’effettivo pagamento, il Giudice del merito, stante la necessaria specificità della richiesta dell’anatocismo, non può ritenere che essa sia stata proposta, quando l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che costituiscono le ragioni della domanda, alla quale egli deve far riferimento per sciogliere quell’ambiguità, non somministri argomenti in tal senso. Resta altresì escluso che all’assenza di siffatta domanda in primo grado possa rimediarsi mediante la sua formulazione per la prima volta in appello sia pure limitatamente agli interessi prodotti dalla data di tale domanda sul capitale rappresentato dagli interessi scaduti sino a tale data, non essendo consentito proporre in appello per la prima volta la domanda di pagamento di interessi maturati dopo la sentenza di primo grado se il fatto produttivo di interessi era anteriore all’inizio del processo e ciononostante la relativa domanda non sia stata proposta nel giudizio di primo grado”.

Nel caso in esame, la specifica domanda alla condanna degli interessi anatocistici è stata proposta, seppur nel primo grado di giudizio, solo con la memoria illustrativa depositata prima della discussione della causa e, dunque, non nel ricorso introduttivo con cui vengono cristallizzati e delimitati il petitum e la causa petendi, i quali non possono certo essere modificati e/o integrati dalla memoria illustrativa presentata dal contribuente. Questa tardività della richiesta, pertanto, ne ha determinato l’inammissibilità.

Come osservato dalla stessa Corte, infatti, “il giudizio tributario, in base alla disciplina dettata dagli artt. 18, 2° comma, 19 e 24, 2° comma, d.lgs. n. 546 del 1992, è caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio, circoscritto alla verifica della legittimità della pretesa effettivamente avanzata con l‘atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso atto indicati, ed ha un oggetto rigidamente delimitato dalle considerazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo…” (Cass., 8 marzo 2006, n. 4935).

Di recente, però, il legislatore, con il decreto legge n. 223 del 4 luglio 2006 convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248, ha posto la parola fine in relazione alla questione della debenza o meno degli interessi anatocistici sui crediti dei contribuenti nei confronti del fisco.

Infatti, l’art. 37 comma 50 del predetto decreto legge stabilisce che “gli interessi previsti per il rimborso di tributi non producono in nessun caso interessi ai sensi dell’art. 1283 del c.c.” (PLACIDO, Stop all’anatocismo per i crediti tributari, in www.fiscooggi.it ).

In sostanza la norma in esame si pone in contrasto con l’indirizzo della Cassazione che si era affermato nelle pronunce più recenti che riconosce ai contribuenti la possibilità di chiedere ed ottenere gli interessi anatocistici anche nei confronti del Fisco.

A questo punto, come evidenziato nella circolare dell’Agenzia delle entrate n. 28/E del 4 agosto 2006, in assenza di specifiche disposizioni, la norma “chiarificatrice” entra in vigore il 4 luglio 2006, applicandosi agli interessi che maturano da tale data.

In sostanza, per i crediti già esistenti alla data di entrata in vigore del decreto, dovrà applicarsi un doppio sistema per il calcolo degli interessi: fino al 4 luglio 2006 il credito tributario produce interessi anatocistici, successivamente smette di produrne.