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Le clausole vessatorie alla luce del recente intervento della Suprema Corte

Capita assai spesso che le condizioni generali di un contratto siano predispose da uno solo dei contraenti, generalmente quello economicamente più forte, e che siano magari contenute in appositi formulari già redatti, che l’altra parte si limita a sottoscrivere. I casi più frequenti sono i cosiddetti contratti per adesione, come quelli che si stipulano con banche, assicurazioni o società di telecomunicazioni, nei quali l’imprenditore offre i propri servizi a condizioni predeterminate e il consumatore si limita semplicemente ad aderire con la sua sottoscrizione. Secondo la giurisprudenza di legittimità, un contratto è qualificabile per adesione, ai sensi dell’art. 1341, comma 1, c.c., e come tale soggetto, per l’efficacia delle clausole cosiddette onerose alla specifica approvazione per iscritto contemplata dal comma 2 di detta norma, solo quando anche alla stregua del contenuto dei relativi patti, risulti predisposto unilateralmente da un contraente, in base ad uno schema destinato ad essere utilizzato per una pluralità di rapporti, sì da escludere una sua formazione in esito a trattativa negoziale e relegare il potere dell’altro contraente ad una mera accettazione o meno di detto schema (Cass. 21 aprile 1988, n. 3091).

La disciplina sulle condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti stabilisce che tali condizioni siano efficaci nei confronti dell’altro solo se al momento della conclusione del contratto questi le abbia conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza, ex art. 1341 c.c. In ogni caso, le clausole vessatorie non hanno effetto, se non specificamente approvate per iscritto.

Si definiscono vessatorie, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, oppure sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, proroghe o rinnovazioni tacite del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria.

Nel caso in cui ci si riferisce ad un contratto stipulato tra professionista e consumatore, ex artt. 1469-bis e ss., che ha per oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi, si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.

Dalla lettura congiunta degli artt. 33 e 34 del Codice del consumo, testo coordinato ed aggiornato dal d.lgs. 2 agosto 2007 n. 146, d.lgs. 23 ottobre 2007 n. 221 e dalla l. 24 dicembre 2007 n. 244, emerge che la vessatorietà di una clausola non dipende esclusivamente dal testo della clausola stessa, ma da una molteplicità di elementi, il cui esame richiede una valutazione in concreto dell’intero rapporto contrattuale.

In primo luogo la vessatorietà deve essere valutata tenendo conto della contrarietà alla buona fede e del significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. Il primo elemento potrebbe essere considerato anche superfluo, atteso il principio generale di buona fede; qui tuttavia tale elemento gioca un ruolo importante perché concorre con l’altro, lo squilibrio, per determinare un effetto che la violazione della buona fede oggettiva di per sé non ha, cioè l’inefficacia della clausola: la violazione della buona fede dà luogo, infatti, secondo il codice civile ad inadempimento, alla risoluzione del contratto, e, ove del caso, al risarcimento del danno sia in presenza di domanda di adempimento, sia in presenza di domanda di risoluzione (ALPA).

Il secondo elemento, lo squilibrio, presenta due caratteri fondamentali, deve essere “significativo”, e deve riguardare diritti e obblighi delle parti, cioè avere natura “giuridica”, non economica.

Il giudice può valutare l’adeguatezza economica del corrispettivo, del prezzo, ecc., solo se:

- la singola clausola arrechi uno svantaggio al consumatore, ma non sia simmetrica ad altra clausola che arrechi analogo svantaggio al professionista;

- la singola clausola sia collocata in un contesto che, interpretato complessivamente, anche tenendo conto delle altre clausole previste, non giustifichi lo svantaggio imposto al consumatore;

- la singola clausola arrechi uno svantaggio che appaia significativo, nel senso che sia tale da squilibrare il rapporto tra la posizione del professionista e la posizione del consumatore.

Per verificare l’esistenza del significativo squilibrio, secondo l’art. 1469-ter c.c. e 34 del Codice del consumo, il giudice deve valutare tre diversi elementi, quali la natura del bene o del servizio oggetto del contratto, le circostanze esistenti al momento della sua conclusione e le altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato o da cui dipende.

Fra gli elementi indicati, ha particolare rilievo l’esame del testo contrattuale complessivo, perché, come chiarito dalla dottrina, il significativo squilibrio va valutato tenendo conto di tutte le clausole e non solamente di una o alcune.

Inoltre, ai sensi dell’art. 1469-ter c.c., “non sono vessatorie le clausole o gli elementi di clausola che siano stati oggetto di trattativa individuale”.

Pertanto, con riguardo alla presunta vessatorietà delle clausole, il professionista può fornire la prova contraria, sia nel senso di provare che non sussiste il significativo squilibrio, sia nel senso di provare che vi è stata una trattativa; infatti, il 5° comma dell’art. 1469-ter c.c. prevede che “nel contratto concluso mediante sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, incombe sul professionista l’onere di provare che le clausole, o gli elementi di clausola, malgrado siano dal medesimo unilateralmente predisposti, siano stati oggetto di specifica trattativa con il consumatore”.

La negoziazione, dunque, ha rilievo preminente nella disciplina delle clausole vessatorie ma non è agevole individuarne i requisiti minimi per poter affermare che una clausola sia stata negoziata e, ancor meno, in concreto, fornirne la prova.

Per quanto riguarda il primo punto, si può concordare sul fatto che non è necessaria la congiunta determinazione della clausola stessa (ORESTANO) e che si ha invece trattativa anche quando le parti, dopo aver discusso possibili modifiche, tengano fermo il testo originario proposto, e non necessariamente predisposto, da uno dei contraenti.

Più pragmaticamente, si deve ravvisare negoziazione qualora la clausola sospetta sia stata oggetto di discussione tra le parti (PARDOLESI) e, conseguentemente, possa dirsi frutto di una corretta e libera determinazione di esse. È peraltro da giudicare positivamente la mancata riproduzione nella novella del criterio, enunciato al paragrafo 3.2, 1^ parte, della direttiva 93/13, secondo cui “si considera che una clausola non sia stata oggetto di negoziato individuale quando…il consumatore…non ha potuto esercitare alcuna influenza sul suo contenuto”.

Della prova della negoziazione si occupa l’art. 1469-ter c.c., che detta una norma per diversi aspetti discutibili. Tale disposizione fa gravare sul professionista l’onere di provare la negoziazione nel caso di contratti conclusi mediante moduli o formulari: così statuendo, peraltro, essa introduce una singolare inversione dell’onere della prova a danno del consumatore. Invero, il professionista che afferma l’avvenuta negoziazione di una clausola, per principio generale, ex art. 2697 c.c., sarebbe tenuto a dimostrare la fondatezza di siffatta asserzione; l’art. 1469-ter c.c., limita di contro l’onere probatorio ai soli contratti conclusi mediante moduli o formulari.

Dunque, nell’ipotesi di un contratto per adesione stipulato senza il ricorso ad essi si determina, a svantaggio del consumatore, l’inversione dell’onere della prova: ne consegue che per la stipula di un singolo contratto il professionista si guarderà bene dall’impiegare un modulo. Ne consegue altresì che a nulla rileverà la dimostrazione dello squilibrio di una clausola ovvero che la vessatorietà sia presunta, se il consumatore non proverà il difetto di negoziazione di essa.

Tornando alla vessatorietà, la disciplina prevede tre tipologie:

a) clausole dichiarate comunque inefficaci, anche se oggetto di trattativa, ex art. 1469-quinquies, comma 2; si tratta delle clausole che abbiano per oggetto o per effetto:

- di escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un’omissione del professionista;

- di escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;

- di prevedere l’adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto;

b) clausole che si presumono vessatorie fino a prova contraria, contenute nell’elenco sub art. 33 del codice del consumo, e con le deroghe riservate, partitamente, e nei limiti indicati, ai contratti aventi ad oggetto la prestazione di servizi finanziari, di valori mobiliari, clausole riferite a indici di borsa e a tassi di mercato finanziario, valute estere, indicizzazione dei prezzi;

c) clausole non contenute nell’elenco.

Sulla disciplina in esame è di recente intervenuta, con ordinanza del 26 settembre 2008 n. 24262, la Suprema Corte affermando alcuni principi di diritto tra cui quello che nelle controversie tra consumatore e professionista, ai sensi dell’art. 33, comma 2 lett. u), d.lgs. n. 206 del 2005 (e già dell’art. 1469-bis, 3° co. n. 19, c.c.), la competenza territoriale spetta al giudice del luogo in cui il consumatore ha la residenza o il domicilio elettivo.

La Corte di Cassazione ha, così, confermato l’orientamento seguito con le pronunce del 28 giugno 2005, n. 13890 e del 23 febbraio 2007, n. 4208, con il quale affermava, ai sensi dell’art. 1469-bis c.c., la presunzione di vessatorietà della clausola che stabilisce come sede del foro competente una località diversa da quella della residenza o del domicilio elettivo del consumatore, anche se il foro competente coincida con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 c.p.c. Pertanto l’eccezione di incompetenza sollevata dal consumatore, ai sensi del citato art. 1469-bis, per il carattere di specialità di tale norma, connesso alla sua origine comunitaria, non è vincolata al riferimento ai criteri generali di cui agli artt. 18, 19 e 20 c.p.c.

La presunzione di vessatorietà può essere superata solo dimostrando, e tale onere probatorio grava su chi ha interesse ad avvalersi della clausola derogatoria della competenza, che la sua sottoscrizione ha costituito l’“exitus” di una consapevole trattativa al riguardo e non la supina accettazione dell’altrui volontà, imposta con le condizioni generali di contratto riportate nel modulo sottoposto, condizioni che si dimostrano, di fatto, nella maggioranza dei casi, non modificabili da parte di chi non le ha predisposte. Per altro verso, la clausola derogatoria della competenza deve essere valutata dal giudice alla stregua del criterio di cui all’art. 3 della direttiva n. 93/13/Cee e quindi considerata abusiva se, in contrasto con il requisito della buona fede, essa determini un significativo squilibrio, in danno del consumatore, tra i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto. Ciò comporta che il giudice nazionale può valutare d’ufficio l’illiceità della clausola e declinare la competenza attribuitagli da una clausola abusiva interpretando, a tal fine, le norme del diritto nazionale in conformità con la lettera e la finalità della direttiva comunitaria.

Ritornando alla recente ordinanza della Corte, ai fini della deroga del foro del consumatore è allora in ogni caso insufficiente la specifica approvazione per iscritto ex art. 1341, 2° co., c.c.; essendo presuntivamente vessatoria ai sensi dell’articolo 1469-bis, 3° co. n. 19, c.c., ed ora dell’art. 33, comma 2 lett. u), d.lgs. n. 206 del 2005, la clausola che stabilisca il foro competente nella località diversa da quella della residenza o del domicilio elettivo del consumatore, trova infatti comunque applicazione anche la richiamata disciplina in tema di contratti del consumatore. Disciplina di tutela altra e diversa da quella dettata agli artt. 1341 ss. c.c., la cui applicazione rimane esclusa solamente ove la clausola, o parte di essa, abbia costituito oggetto di trattativa individuale ex art. 1469-ter, 4° co., c.c. e art. 34, comma 4, d.lgs. n. 206 del 2005.

La disciplina in argomento, di tutela del consumatore, è invero funzionalmente volta a tutelare il consumatore a fronte della unilaterale predisposizione ed imposizione del contenuto contrattuale da parte del professionista, quali possibili fonti di abuso.

Laddove l’accordo costituisce in tutto o in parte l’esito di una trattativa, l’accertamento giudiziale in ordine all’abusività delle clausole contrattuali rimane viceversa precluso, quand’anche l’assetto di interessi realizzato dalle parti risulti significativamente squilibrato a danno del consumatore.

Sono invece comunque inefficaci o nulle, anche se oggetto di trattativa, le clausole contemplate all’art. 36, comma 2 lett. a), b) e c) del codice del consumo, in tal caso l’abusività sussistendo in re ipsa in virtù della prevalutazione operata dal legislatore, e non già rimessa all’accertamento e alla valutazione del giudice.

La Corte ritiene, inoltre, che affinché la disciplina di tutela del consumatore possa considerarsi preclusa, la trattativa deve non solo essersi svolta ma avere anche i seguenti caratteri:

- individualità;

- serietà;

- effettività.

Proprio con riguardo alla prova della idoneità della trattativa, la Suprema Corte aggiunge che l’aggiunta a penna della clausola nell’ambito del testo contrattuale dattiloscritto o la mera approvazione per iscritto di una clausola sono inidonee ai fini della prova stessa, sia quale fatto storico che della relativa effettività, e pertanto dell’inidoneità della medesima a precludere l’applicabilità della disciplina di tutela del consumatore posta dal codice del consumo. In mancanza della prova della trattativa, in base all’art. 36, comma 1, d. lgs. n. 206 del 2005 le clausole considerate vessatorie ai sensi degli artt. 33 e 34 sono nulle, mentre il contratto rimane valido per il resto (inefficacia parziale).

I giudici di legittimità, pertanto, confermano l’orientamento secondo il quale, in assenza di trattativa individuale, la clausola derogatoria abusiva o vessatoria è colpita da inefficacia (Cass. 21 maggio 2008, n. 13051; Cass. 6 settembre 2007, n. 18743; Cass. 23 febbraio 2007, n. 4208).

La Corte ritiene, infine, che il richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto e la sottoscrizione indiscriminata di esse apposta sotto la relativa elencazione in base al mero numero d’ordine è inidonea a determinare, secondo l’art. 1341, 2° co., c.c., l’efficacia della clausola vessatoria di deroga all’ordinaria competenza territoriale, essendo a tal fine necessario che la stessa risulti dal predisponente chiaramente ed autonomamente evidenziata, e dall’aderente specificamente ed autonomamente sottoscritta.

Capita assai spesso che le condizioni generali di un contratto siano predispose da uno solo dei contraenti, generalmente quello economicamente più forte, e che siano magari contenute in appositi formulari già redatti, che l’altra parte si limita a sottoscrivere. I casi più frequenti sono i cosiddetti contratti per adesione, come quelli che si stipulano con banche, assicurazioni o società di telecomunicazioni, nei quali l’imprenditore offre i propri servizi a condizioni predeterminate e il consumatore si limita semplicemente ad aderire con la sua sottoscrizione. Secondo la giurisprudenza di legittimità, un contratto è qualificabile per adesione, ai sensi dell’art. 1341, comma 1, c.c., e come tale soggetto, per l’efficacia delle clausole cosiddette onerose alla specifica approvazione per iscritto contemplata dal comma 2 di detta norma, solo quando anche alla stregua del contenuto dei relativi patti, risulti predisposto unilateralmente da un contraente, in base ad uno schema destinato ad essere utilizzato per una pluralità di rapporti, sì da escludere una sua formazione in esito a trattativa negoziale e relegare il potere dell’altro contraente ad una mera accettazione o meno di detto schema (Cass. 21 aprile 1988, n. 3091).

La disciplina sulle condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti stabilisce che tali condizioni siano efficaci nei confronti dell’altro solo se al momento della conclusione del contratto questi le abbia conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza, ex art. 1341 c.c. In ogni caso, le clausole vessatorie non hanno effetto, se non specificamente approvate per iscritto.

Si definiscono vessatorie, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, oppure sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, proroghe o rinnovazioni tacite del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria.

Nel caso in cui ci si riferisce ad un contratto stipulato tra professionista e consumatore, ex artt. 1469-bis e ss., che ha per oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi, si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto.

Dalla lettura congiunta degli artt. 33 e 34 del Codice del consumo, testo coordinato ed aggiornato dal d.lgs. 2 agosto 2007 n. 146, d.lgs. 23 ottobre 2007 n. 221 e dalla l. 24 dicembre 2007 n. 244, emerge che la vessatorietà di una clausola non dipende esclusivamente dal testo della clausola stessa, ma da una molteplicità di elementi, il cui esame richiede una valutazione in concreto dell’intero rapporto contrattuale.

In primo luogo la vessatorietà deve essere valutata tenendo conto della contrarietà alla buona fede e del significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. Il primo elemento potrebbe essere considerato anche superfluo, atteso il principio generale di buona fede; qui tuttavia tale elemento gioca un ruolo importante perché concorre con l’altro, lo squilibrio, per determinare un effetto che la violazione della buona fede oggettiva di per sé non ha, cioè l’inefficacia della clausola: la violazione della buona fede dà luogo, infatti, secondo il codice civile ad inadempimento, alla risoluzione del contratto, e, ove del caso, al risarcimento del danno sia in presenza di domanda di adempimento, sia in presenza di domanda di risoluzione (ALPA).

Il secondo elemento, lo squilibrio, presenta due caratteri fondamentali, deve essere “significativo”, e deve riguardare diritti e obblighi delle parti, cioè avere natura “giuridica”, non economica.

Il giudice può valutare l’adeguatezza economica del corrispettivo, del prezzo, ecc., solo se:

- la singola clausola arrechi uno svantaggio al consumatore, ma non sia simmetrica ad altra clausola che arrechi analogo svantaggio al professionista;

- la singola clausola sia collocata in un contesto che, interpretato complessivamente, anche tenendo conto delle altre clausole previste, non giustifichi lo svantaggio imposto al consumatore;

- la singola clausola arrechi uno svantaggio che appaia significativo, nel senso che sia tale da squilibrare il rapporto tra la posizione del professionista e la posizione del consumatore.

Per verificare l’esistenza del significativo squilibrio, secondo l’art. 1469-ter c.c. e 34 del Codice del consumo, il giudice deve valutare tre diversi elementi, quali la natura del bene o del servizio oggetto del contratto, le circostanze esistenti al momento della sua conclusione e le altre clausole del contratto medesimo o di un altro collegato o da cui dipende.

Fra gli elementi indicati, ha particolare rilievo l’esame del testo contrattuale complessivo, perché, come chiarito dalla dottrina, il significativo squilibrio va valutato tenendo conto di tutte le clausole e non solamente di una o alcune.

Inoltre, ai sensi dell’art. 1469-ter c.c., “non sono vessatorie le clausole o gli elementi di clausola che siano stati oggetto di trattativa individuale”.

Pertanto, con riguardo alla presunta vessatorietà delle clausole, il professionista può fornire la prova contraria, sia nel senso di provare che non sussiste il significativo squilibrio, sia nel senso di provare che vi è stata una trattativa; infatti, il 5° comma dell’art. 1469-ter c.c. prevede che “nel contratto concluso mediante sottoscrizione di moduli o formulari predisposti per disciplinare in maniera uniforme determinati rapporti contrattuali, incombe sul professionista l’onere di provare che le clausole, o gli elementi di clausola, malgrado siano dal medesimo unilateralmente predisposti, siano stati oggetto di specifica trattativa con il consumatore”.

La negoziazione, dunque, ha rilievo preminente nella disciplina delle clausole vessatorie ma non è agevole individuarne i requisiti minimi per poter affermare che una clausola sia stata negoziata e, ancor meno, in concreto, fornirne la prova.

Per quanto riguarda il primo punto, si può concordare sul fatto che non è necessaria la congiunta determinazione della clausola stessa (ORESTANO) e che si ha invece trattativa anche quando le parti, dopo aver discusso possibili modifiche, tengano fermo il testo originario proposto, e non necessariamente predisposto, da uno dei contraenti.

Più pragmaticamente, si deve ravvisare negoziazione qualora la clausola sospetta sia stata oggetto di discussione tra le parti (PARDOLESI) e, conseguentemente, possa dirsi frutto di una corretta e libera determinazione di esse. È peraltro da giudicare positivamente la mancata riproduzione nella novella del criterio, enunciato al paragrafo 3.2, 1^ parte, della direttiva 93/13, secondo cui “si considera che una clausola non sia stata oggetto di negoziato individuale quando…il consumatore…non ha potuto esercitare alcuna influenza sul suo contenuto”.

Della prova della negoziazione si occupa l’art. 1469-ter c.c., che detta una norma per diversi aspetti discutibili. Tale disposizione fa gravare sul professionista l’onere di provare la negoziazione nel caso di contratti conclusi mediante moduli o formulari: così statuendo, peraltro, essa introduce una singolare inversione dell’onere della prova a danno del consumatore. Invero, il professionista che afferma l’avvenuta negoziazione di una clausola, per principio generale, ex art. 2697 c.c., sarebbe tenuto a dimostrare la fondatezza di siffatta asserzione; l’art. 1469-ter c.c., limita di contro l’onere probatorio ai soli contratti conclusi mediante moduli o formulari.

Dunque, nell’ipotesi di un contratto per adesione stipulato senza il ricorso ad essi si determina, a svantaggio del consumatore, l’inversione dell’onere della prova: ne consegue che per la stipula di un singolo contratto il professionista si guarderà bene dall’impiegare un modulo. Ne consegue altresì che a nulla rileverà la dimostrazione dello squilibrio di una clausola ovvero che la vessatorietà sia presunta, se il consumatore non proverà il difetto di negoziazione di essa.

Tornando alla vessatorietà, la disciplina prevede tre tipologie:

a) clausole dichiarate comunque inefficaci, anche se oggetto di trattativa, ex art. 1469-quinquies, comma 2; si tratta delle clausole che abbiano per oggetto o per effetto:

- di escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un’omissione del professionista;

- di escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista;

- di prevedere l’adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto;

b) clausole che si presumono vessatorie fino a prova contraria, contenute nell’elenco sub art. 33 del codice del consumo, e con le deroghe riservate, partitamente, e nei limiti indicati, ai contratti aventi ad oggetto la prestazione di servizi finanziari, di valori mobiliari, clausole riferite a indici di borsa e a tassi di mercato finanziario, valute estere, indicizzazione dei prezzi;

c) clausole non contenute nell’elenco.

Sulla disciplina in esame è di recente intervenuta, con ordinanza del 26 settembre 2008 n. 24262, la Suprema Corte affermando alcuni principi di diritto tra cui quello che nelle controversie tra consumatore e professionista, ai sensi dell’art. 33, comma 2 lett. u), d.lgs. n. 206 del 2005 (e già dell’art. 1469-bis, 3° co. n. 19, c.c.), la competenza territoriale spetta al giudice del luogo in cui il consumatore ha la residenza o il domicilio elettivo.

La Corte di Cassazione ha, così, confermato l’orientamento seguito con le pronunce del 28 giugno 2005, n. 13890 e del 23 febbraio 2007, n. 4208, con il quale affermava, ai sensi dell’art. 1469-bis c.c., la presunzione di vessatorietà della clausola che stabilisce come sede del foro competente una località diversa da quella della residenza o del domicilio elettivo del consumatore, anche se il foro competente coincida con uno dei fori legali di cui agli artt. 18 e 20 c.p.c. Pertanto l’eccezione di incompetenza sollevata dal consumatore, ai sensi del citato art. 1469-bis, per il carattere di specialità di tale norma, connesso alla sua origine comunitaria, non è vincolata al riferimento ai criteri generali di cui agli artt. 18, 19 e 20 c.p.c.

La presunzione di vessatorietà può essere superata solo dimostrando, e tale onere probatorio grava su chi ha interesse ad avvalersi della clausola derogatoria della competenza, che la sua sottoscrizione ha costituito l’“exitus” di una consapevole trattativa al riguardo e non la supina accettazione dell’altrui volontà, imposta con le condizioni generali di contratto riportate nel modulo sottoposto, condizioni che si dimostrano, di fatto, nella maggioranza dei casi, non modificabili da parte di chi non le ha predisposte. Per altro verso, la clausola derogatoria della competenza deve essere valutata dal giudice alla stregua del criterio di cui all’art. 3 della direttiva n. 93/13/Cee e quindi considerata abusiva se, in contrasto con il requisito della buona fede, essa determini un significativo squilibrio, in danno del consumatore, tra i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto. Ciò comporta che il giudice nazionale può valutare d’ufficio l’illiceità della clausola e declinare la competenza attribuitagli da una clausola abusiva interpretando, a tal fine, le norme del diritto nazionale in conformità con la lettera e la finalità della direttiva comunitaria.

Ritornando alla recente ordinanza della Corte, ai fini della deroga del foro del consumatore è allora in ogni caso insufficiente la specifica approvazione per iscritto ex art. 1341, 2° co., c.c.; essendo presuntivamente vessatoria ai sensi dell’articolo 1469-bis, 3° co. n. 19, c.c., ed ora dell’art. 33, comma 2 lett. u), d.lgs. n. 206 del 2005, la clausola che stabilisca il foro competente nella località diversa da quella della residenza o del domicilio elettivo del consumatore, trova infatti comunque applicazione anche la richiamata disciplina in tema di contratti del consumatore. Disciplina di tutela altra e diversa da quella dettata agli artt. 1341 ss. c.c., la cui applicazione rimane esclusa solamente ove la clausola, o parte di essa, abbia costituito oggetto di trattativa individuale ex art. 1469-ter, 4° co., c.c. e art. 34, comma 4, d.lgs. n. 206 del 2005.

La disciplina in argomento, di tutela del consumatore, è invero funzionalmente volta a tutelare il consumatore a fronte della unilaterale predisposizione ed imposizione del contenuto contrattuale da parte del professionista, quali possibili fonti di abuso.

Laddove l’accordo costituisce in tutto o in parte l’esito di una trattativa, l’accertamento giudiziale in ordine all’abusività delle clausole contrattuali rimane viceversa precluso, quand’anche l’assetto di interessi realizzato dalle parti risulti significativamente squilibrato a danno del consumatore.

Sono invece comunque inefficaci o nulle, anche se oggetto di trattativa, le clausole contemplate all’art. 36, comma 2 lett. a), b) e c) del codice del consumo, in tal caso l’abusività sussistendo in re ipsa in virtù della prevalutazione operata dal legislatore, e non già rimessa all’accertamento e alla valutazione del giudice.

La Corte ritiene, inoltre, che affinché la disciplina di tutela del consumatore possa considerarsi preclusa, la trattativa deve non solo essersi svolta ma avere anche i seguenti caratteri:

- individualità;

- serietà;

- effettività.

Proprio con riguardo alla prova della idoneità della trattativa, la Suprema Corte aggiunge che l’aggiunta a penna della clausola nell’ambito del testo contrattuale dattiloscritto o la mera approvazione per iscritto di una clausola sono inidonee ai fini della prova stessa, sia quale fatto storico che della relativa effettività, e pertanto dell’inidoneità della medesima a precludere l’applicabilità della disciplina di tutela del consumatore posta dal codice del consumo. In mancanza della prova della trattativa, in base all’art. 36, comma 1, d. lgs. n. 206 del 2005 le clausole considerate vessatorie ai sensi degli artt. 33 e 34 sono nulle, mentre il contratto rimane valido per il resto (inefficacia parziale).

I giudici di legittimità, pertanto, confermano l’orientamento secondo il quale, in assenza di trattativa individuale, la clausola derogatoria abusiva o vessatoria è colpita da inefficacia (Cass. 21 maggio 2008, n. 13051; Cass. 6 settembre 2007, n. 18743; Cass. 23 febbraio 2007, n. 4208).

La Corte ritiene, infine, che il richiamo in blocco di tutte le condizioni generali di contratto e la sottoscrizione indiscriminata di esse apposta sotto la relativa elencazione in base al mero numero d’ordine è inidonea a determinare, secondo l’art. 1341, 2° co., c.c., l’efficacia della clausola vessatoria di deroga all’ordinaria competenza territoriale, essendo a tal fine necessario che la stessa risulti dal predisponente chiaramente ed autonomamente evidenziata, e dall’aderente specificamente ed autonomamente sottoscritta.