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Le conseguenze della nullità della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi bancari

La sentenza del Tribunale di Monza del 12 dicembre 2005, n. 3393, si pone in palese contrasto con un vetusto orientamento giurisprudenziale (Cass., 23 ottobre 1976, n. 3807, in Rep. Foro it., 1976, p. 1767; Cass., 22 agosto 1977, n. 3832, in Archivio civ., 1977, p. 990) in base al quale le aziende di credito hanno tentato più volte di bloccare le domande avanzate dai clienti facendo ricorso all’istituto della cosiddetta soluti retentio, come conseguente irrepetibilità degli interessi anatocistici volontariamente corrisposti dal cliente agli istituti di credito: le aziende bancarie ritengono che il pagamento degli interessi trimestralmente capitalizzati o comunque di quelli non pattuiti non consentisse al cliente che li avesse pagati di richiederne la ripetizione ai sensi dell’art. 2033 c.c., qualificando la loro corresponsione come adempimento di un obbligazione naturale.

A tal proposito si fa presente che parte autorevole della dottrina è propensa ad individuare in generale una soluzione negativa alla configurabilità di un’obbligazione naturale nell’ipotesi di corresponsione di interessi ultralegali non dovuti, per rispondere meglio all’attuale sviluppo dei traffici e per consentire “il definitivo abbandono di prospettive ancora legate a concezioni in cui la morale interferiva con l’economia” (QUADRI, Le obbligazioni pecuniarie in Trattato di diritto privato, TORINO, 1984, p. 566-567).

Tuttavia per la maggior parte della giurisprudenza “Il pagamento spontaneo di interessi ultralegali non pattuiti per iscritto, configurandosi come adempimento di obbligazione naturale e rientrando quindi nella regola dettata dall’art. 2034 c.c., non è soggetto a ripetizione, sempre che si tratti di misura contenuta nei limiti del lecito” (Cass., 23 ottobre 1976, n. 3807, in cit., p. 1767; Cass., 22 agosto 1977, n. 3832, in cit., p. 990), anche se, ovviamente, precisa che “…l’indicato presupposto (del pagamento spontaneo) non ricorre nel caso di una banca, che abbia proceduto all’addebito degli interessi ultralegali sul conto corrente del cliente per la sua esclusiva iniziativa e senza autorizzazione alcuna da parte del cliente medesimo” (Cass., 9 aprile 1984, n. 2262, in www.altalex.it; Cass., 22 agosto 1977, n. 3832, in cit., p. 990).

Quindi, si può affermare che sia dottrina che giurisprudenza concordano nell’escludere che nell’ipotesi di addebito degli interessi ultralegali, non pattuiti per atto scritto, a norma dell’art. 1284 c.c., sul conto corrente bancario si possa ipotizzare l’adempimento da parte del cliente di un’obbligazione naturale mancando, nell’ipotesi in esame, la volontà di pagamento, la spontaneità, nonché il dovere morale o sociale, richiesti dall’art. 2034 c.c.

Secondo il giudice di Monza “ciò che rende incompatibile con gli usi normativi le clausole di capitalizzazione trimestrali è il difetto di spontaneità in sede di formazione di tali usi. Essi, infatti, traggono fondamento dalle condizioni generali di contratto che le banche sono solite apporre nei loro moduli e formulari e che, sulla base di tale previsione, sono poi di fatto, effettivamente osservate. Sennonché deve escludersi che la mera osservanza delle condizioni generali di contratto possa generare usi normativi, in quanto, altrimenti, si dovrebbe ammettere che, oggi, siano in vigore, quali usi normativi, un numero spropositato di norme originariamente contenute in clausole generali, per il solo fatto che gli aderenti al contratto ne hanno assicurato un costante rispetto” (Trib. di Monza, 12 dicembre 2005, n. 3393, in www.ilcaso.it).

In realtà le condizioni generali di contratto, specie se predisposte da imprese di notevoli dimensioni ed operanti in regime di oligopolio, com’è, nella sostanza, il settore bancario, costituiscono indubbio esercizio di un potere normativo, almeno nei fatti: in altri termini, come affermato nella pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione del 4 novembre 2004, n. 21095, le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi configurano violazione del divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 c.c., non essendo espressione di usi normativi, “neppure nei periodi anteriori al mutamento giurisprudenziale in proposito avvenuto nel 1999, non essendo idonea la contraria interpretazione giurisprudenziale seguita fino ad allora a conferire normatività ad una prassi negoziale che si è dimostrata poi essere contra legem” (CUTUGNO-DE GIOIA, L’anatocismo bancario, Varese, 2005, p. 90).

Si tratta di una contrattazione che le Sezioni Unite hanno definito basata sulla “regola del prendere o lasciare”, proprio per l’impossibilità del cliente di influire minimamente su clausole contrattuali non negoziabili, in quanto, come ha già affermato la Cassazione, in un’altra sentenza sull’anatocismo, in questi contratti la sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari (ROLFI, Le Sezioni Unite e l’anatocismo, in Corr. merito, 2005, 1, p. 7).

Quindi ad avviso del giudice di Monza, ne consegue che dall’osservanza delle condizioni generali di contratto non possono derivare usi normativi, altrimenti si perverrebbe a rivestire di efficacia normativa quello che è un potere esercitato unilateralmente da un privato e le clausole generali diventerebbero in tal modo fonti di diritto oggettivo.

Questa soluzione non potrebbe reggere perché violerebbe l’art. 3 Cost. che sancisce il principio di eguaglianza fra privati: infatti, la norma suddetta, vale a statuire che il legislatore non può operare discriminazioni fra i cittadini, a seconda del loro sesso, della loro razza, lingua, religione, delle loro opinioni politiche e delle loro condizioni personali e sociali. È evidente che in tanto il principio può dirsi applicato in quanto la legge tratti in modo eguale situazioni eguali ed in modo diverso situazioni diverse.

Diversamente, prosegue il giudice, “si finirebbe per negare il carattere di fonte-fatto degli usi, per renderlo in realtà una fonte-atto, in quanto la fonte degli usi diventerebbe l’inserimento della corrispondente clausola nei moduli e nei formulari delle imprese” (Trib. di Monza, 12 dicembre 2005, n. 3393, cit.).

Infatti, le fonti-atto sono costituite da manifestazioni di volontà espresse da un organo dello Stato-soggetto o di altro ente a ciò legittimato dalla Costituzione e trovano, di regola, la loro formulazione in un testo normativo, fonti scritte; le fonti-fatti, invece, consistono in un comportamento oggettivo, consuetudine o uso, o in atti di produzione giuridica esterni al nostro ordinamento e che per ciò solo vengono assunti come fatti (MARTINES, Diritto costituzionale, MILANO, 1992, p. 65).

Inoltre, nella sentenza in commento il giudice sostiene la nullità delle clausole di capitalizzazione a seguito della contrarietà ad una norma imperativa qual è quella prevista all’art. 1283 c.c.; infatti, secondo la Suprema Corte, essa presidia ad un interesse pubblico “ad impedire una forma, subdola ma non socialmente meno dannosa delle altre, di usura, ed i patti conclusi in sua trasgressione sono nulli ai sensi dell’art. 1418 c.c.” (Cass., 16 maggio 1977, n. 1724, in RICCIO, L’anatocismo, PADOVA, 2002, p. 65).

Il problema dell’individuazione del periodo di capitalizzazione, a seguito della mancata previsione contrattuale conseguente alla declaratoria di nullità delle suddette clausole, deve essere affrontato, secondo il giudice di Monza, facendo richiamo “al parametro dell’equità di cui all’art. 1374 c.c., intesa come esigenza di bilanciamento tra i contrapposti interessi delle parti; tale parametro porta a fare propria la soluzione di una clausola di capitalizzazione con cadenza annuale, in modo da assicurare esattamente lo stesso termine previsto a favore dei correntisti in caso di interessi a loro credito” (Trib. di Monza, 12 dicembre 2005, n. 3393, cit.).

Quindi, al pari del principio di buona fede e di correttezza, anche l’equità opera in via integrativa del contenuto del contratto, ma essa interviene solo in via sussidiaria o suppletiva, ove le parti o la legge nulla abbiano disposto al riguardo e si tratti dunque di colmare una lacuna del contratto. In tal caso, si ritiene che le parti siano tenute anche a rispettare quelle conseguenze che derivano dall’equità.

Per quanto riguarda, invece, l’azione del cliente nei confronti della banca, tesa a chiedere la restituzione delle somme illegittimamente percepite da quest’ultima a titolo di interessi anatocistici, per effetto della declaratoria di nullità della relativa clausola, essa è qualificabile come azione di ripetizione di indebito, ex art. 2033 c.c.: secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, il pagamento di somme in base ad un contratto nullo si configura come un’ipotesi di indebito oggettivo (Cass., 6 ottobre 1976, n. 3303, in Foro it., 1977, I, p. 442; Cass., 9 febbraio 1987, n. 1337, in Mass. Giust. civ., 1987, p.2; Cass., 27 dicembre 1994, n. 11177, in Rep. Foro it., voce “Indebito”, n. 11; Cass., 18 novembre 1995, n. 11973, in Gius, 1995, p. 693 ss.).

Va precisato che quando, come nel caso di specie, venga in rilievo la mancanza di causa di un’obbligazione contrattuale in riferimento a qualche clausola del rapporto negoziale o la nullità anche parziale del negozio stesso, in base al quale è stato eseguito un pagamento, si fa riferimento, per le azioni di ripetizioni, all’istituto di cui all’art. 2033 c.c. e non a quello di cui all’art. 2041 c.c. (arricchimento senza causa), il quale presuppone l’assenza di un qualsivoglia contratto lecito e tutelabile.

Secondo tale disciplina, come evidenziato in una pronuncia del Tribunale di Vibo Valentia del 16 gennaio 2006, “è sufficiente a legittimare la ripetizione di quanto illegittimamente prestato da una parte in esecuzione di un contratto dichiarato nullo in tutto o in parte, come nel caso di specie, in cui alcune clausole sono da dichiararsi nulle, il requisito dell’avvenuto pagamento e quello dell’inesistenza del titolo in virtù del quale tale esecuzione ha avuto luogo. Non si richiede anche - ne costituisce correlativamente impedimento a tali restituzioni - la circostanza di un arricchimento del patrimonio dell’accipiens e di una corrispondente diminuzione del patrimonio del solvens, elementi caratteristici della diversa azione di arricchimento senza causa” (Trib. di Vibo Valentia, 16 gennaio 2006, in Giurispr. di Merito, 2006, 10, p. 41).

Infatti, l’azione di arricchimento senza causa e del tutto complementare e può essere esercitata solo quando manchi qualunque titolo specifico, sul quale possa essere fondato il diritto preteso (e che quindi deve essere proposta in modo esplicito), per come previsto dall’art. 2042 c.c., mentre la ripetizione di indebito riguarda altra e diversa ipotesi giuridica, basata su due necessari e sufficienti requisiti: l’esistenza di un pagamento e il fatto che il pagamento stesso non doveva essere eseguito.

Pertanto, secondo l’art. 2033 c.c. costituisce un indebito oggettivo l’esecuzione di una prestazione o di un pagamento privo di giustificazione, ovvero privo di qualsiasi titolo contrattuale o extracontrattuale; quindi, il soggetto che ha eseguito la prestazione non dovuta può ripetere, cioè chiedere la restituzione di quanto pagato, oltre ai frutti ed agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure se questi era in buona fede, dal giorno della domanda giudiziale (AA. VV., Le obbligazioni e il contratto, TORINO, 2004, p. 489).

Tale azione può essere promossa anche in costanza di rapporto, posto che la nullità investe, nella fattispecie, la sola clausola anatocistica, e non l’intero contratto, si tratta, cioè, di nullità parziale.

Dalla configurazione dell’azione diretta ad ottenere la restituzione degli interessi anatocistici come ripetizione dell’indebito, discende che la banca è tenuta altresì a corrispondere al correntista, sulle somme oggetto di restituzione, gli interessi a decorrere dalla domanda (intesa come domanda giudiziale, non rilevando il momento della domanda stragiudiziale), atteso che la stessa deve reputarsi in buona fede al momento della percezione degli interessi stessi, probabilmente anche per i contratti conclusi dopo il revirement della Cassazione del 1999.

Inoltre, la sentenza in commento accoglie l’orientamento che appare prevalente secondo il quale il termine di prescrizione decennale per l’esercizio dell’azione inizierebbe a decorrere dal momento dell’accreditamento in favore della banca delle singole somme corrispondenti agli interessi anatocistici illegittimamente riscossi dalla banca, ovvero dall’addebito operato da quest’ultima, inteso come operazione contabile di annotazione sul conto, che avviene a ciascuna chiusura trimestrale dello stesso (MAFFEIS, cit., p. 406).

Tale orientamento trae spunto da una pronuncia, in tema di libretti di deposito a risparmio, della Suprema Corte del 3 maggio 1999, n. 4389, secondo cui “la prescrizione del diritto alla restituzione delle somme depositate nel deposito bancario inizia a decorrere non già dalla data della richiesta di restituzione e neppure da quella del rifiuto della banca ma dal giorno in cui il depositante poteva richiedere la restituzione, ossia o dal giorno stesso della costituzione del rapporto ovvero da quello dell’ultima operazione compiuta, se il rapporto si sia sviluppato attraverso accreditamenti e prelevamenti: ciò in quanto, essendo il diritto alla restituzione un diritto di credito nel quale si è convertito il diritto di proprietà del depositante, il mancato esercizio di siffatto diritto dà luogo immediatamente a quello stato di inerzia che è il presupposto della prescrizione” (Cass. civ., sez. I, 3 maggio 1999, n. 4389, in Banca, borsa, tit. cred., 2000, II, p. 505).

Quindi tale orientamento muove dal presupposto secondo cui ciascuna delle singole prestazioni indebite è oggetto di ripetizione; per cui, il termine di prescrizione decorre dal giorno i cui il diritto può essere fatto valere, ai sensi dell’art. 2935 c.c., essendo irrilevanti i meri impedimenti di fatto, come l’ignoranza del cliente circa il suo diritto alla ripetizione degli interessi in questione.

Secondo questa tesi, indubbiamente più favorevole alle banche, l’azione di ripetizione degli interessi anatocistici dovrebbe essere proposta nell’arco di dieci anni tra la data di ciascun singolo accreditamento o versamento in favore della banca e la data di proposizione della domanda giudiziale, e, quindi, anche durante lo svolgimento del rapporto.

Di conseguenza, il contenzioso giudiziario, avente ad oggetto la ripetizione degli interessi relativi ai rapporti instaurati prima della delibera CICR, sarebbe considerevolmente ridimensionato ed ormai in via di esaurimento, potendo il correntista, ad oggi, chiedere la ripetizione dei soli interessi anatocistici indebitamente versati nei soli anni dal 1995 all’aprile 2000, data l’inefficacia ai fini interruttivi della prescrizione, di eventuali atti stragiudiziali effettuati in precedenza, fino alla definitiva estinzione di ogni pretesa nel 2010 (PANDOLFINI, Anatocismo bancario: le questioni ancora aperte, in Contratti, 2005, n. 7, p. 715; MAFFEIS, cit., p. 411; PORCELLI, op. cit., p. 316; SALANITRO, Gli interessi bancari anatocistici, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, 4, p. 15).

Secondo un diverso orientamento, invece, il termine prescrizionale in questione inizierebbe a decorrere soltanto dalla chiusura definitiva del rapporto; solo in tale momento, infatti, si produrrebbe definitivamente il saldo dei crediti e debiti tra le parti, trattandosi di un rapporto giuridico di durata, unitario, seppur articolato in una pluralità di atti esecutivi.

L’accoglimento di tale orientamento permetterebbe al cliente di esercitare l’azione di ripetizione degli interessi indebitamente trattenuti dalla banca nell’arco di durata dell’intero rapporto, finché quest’ultimo non si sia chiuso, e dunque anche a distanza di molti anni dal primo accreditamento degli interessi anatocistici; ciò produrrebbe il risultato di far lievitare, di non poco, l’importo delle somme che gli istituti di credito dovrebbero restituire alla clientela, e al contempo di prolungare indefinitamente nel tempo il contenzioso in materia, relativamente ai contratti di conto corrente non ancora sciolti.

D’altra parte, ai correntisti sarebbe precluso l’esercizio dell’azione di ripetizione in questione, finché il rapporto sia ancora in essere; pertanto, qualora non fosse stata la banca a recedere dal rapporto (in caso di conto con saldo passivo), dovrebbero porvi fine essi stessi.

La tesi per ultimo esposta non sembra condivisibile, in quanto nel conto corrente bancario, a differenza di quanto si verifica nel conto corrente ordinario, vige il principio dell’immediata esigibilità del saldo da parte del correntista, ai sensi dell’art. 1852 c.c., e, conseguentemente, la compensazione tra addebitamenti e accreditamenti non opera soltanto nel momento della chiusura finale del conto, bensì progressivamente, cioè via via che crediti e contro crediti sono annotati sul conto (TARZIA, Il contratto di conto corrente bancario, Milano, 2001, p. 178 ss.).

Sembra, pertanto, preferibile ritenere che la prescrizione del diritto alla ripetizione degli interessi anatocistici decorra dalla data in cui gli stessi siano stati, di volta, in volta, annotati sul conto del correntista, diminuendo la disponibilità di quest’ultimo.

La sentenza del Tribunale di Monza del 12 dicembre 2005, n. 3393, si pone in palese contrasto con un vetusto orientamento giurisprudenziale (Cass., 23 ottobre 1976, n. 3807, in Rep. Foro it., 1976, p. 1767; Cass., 22 agosto 1977, n. 3832, in Archivio civ., 1977, p. 990) in base al quale le aziende di credito hanno tentato più volte di bloccare le domande avanzate dai clienti facendo ricorso all’istituto della cosiddetta soluti retentio, come conseguente irrepetibilità degli interessi anatocistici volontariamente corrisposti dal cliente agli istituti di credito: le aziende bancarie ritengono che il pagamento degli interessi trimestralmente capitalizzati o comunque di quelli non pattuiti non consentisse al cliente che li avesse pagati di richiederne la ripetizione ai sensi dell’art. 2033 c.c., qualificando la loro corresponsione come adempimento di un obbligazione naturale.

A tal proposito si fa presente che parte autorevole della dottrina è propensa ad individuare in generale una soluzione negativa alla configurabilità di un’obbligazione naturale nell’ipotesi di corresponsione di interessi ultralegali non dovuti, per rispondere meglio all’attuale sviluppo dei traffici e per consentire “il definitivo abbandono di prospettive ancora legate a concezioni in cui la morale interferiva con l’economia” (QUADRI, Le obbligazioni pecuniarie in Trattato di diritto privato, TORINO, 1984, p. 566-567).

Tuttavia per la maggior parte della giurisprudenza “Il pagamento spontaneo di interessi ultralegali non pattuiti per iscritto, configurandosi come adempimento di obbligazione naturale e rientrando quindi nella regola dettata dall’art. 2034 c.c., non è soggetto a ripetizione, sempre che si tratti di misura contenuta nei limiti del lecito” (Cass., 23 ottobre 1976, n. 3807, in cit., p. 1767; Cass., 22 agosto 1977, n. 3832, in cit., p. 990), anche se, ovviamente, precisa che “…l’indicato presupposto (del pagamento spontaneo) non ricorre nel caso di una banca, che abbia proceduto all’addebito degli interessi ultralegali sul conto corrente del cliente per la sua esclusiva iniziativa e senza autorizzazione alcuna da parte del cliente medesimo” (Cass., 9 aprile 1984, n. 2262, in www.altalex.it; Cass., 22 agosto 1977, n. 3832, in cit., p. 990).

Quindi, si può affermare che sia dottrina che giurisprudenza concordano nell’escludere che nell’ipotesi di addebito degli interessi ultralegali, non pattuiti per atto scritto, a norma dell’art. 1284 c.c., sul conto corrente bancario si possa ipotizzare l’adempimento da parte del cliente di un’obbligazione naturale mancando, nell’ipotesi in esame, la volontà di pagamento, la spontaneità, nonché il dovere morale o sociale, richiesti dall’art. 2034 c.c.

Secondo il giudice di Monza “ciò che rende incompatibile con gli usi normativi le clausole di capitalizzazione trimestrali è il difetto di spontaneità in sede di formazione di tali usi. Essi, infatti, traggono fondamento dalle condizioni generali di contratto che le banche sono solite apporre nei loro moduli e formulari e che, sulla base di tale previsione, sono poi di fatto, effettivamente osservate. Sennonché deve escludersi che la mera osservanza delle condizioni generali di contratto possa generare usi normativi, in quanto, altrimenti, si dovrebbe ammettere che, oggi, siano in vigore, quali usi normativi, un numero spropositato di norme originariamente contenute in clausole generali, per il solo fatto che gli aderenti al contratto ne hanno assicurato un costante rispetto” (Trib. di Monza, 12 dicembre 2005, n. 3393, in www.ilcaso.it).

In realtà le condizioni generali di contratto, specie se predisposte da imprese di notevoli dimensioni ed operanti in regime di oligopolio, com’è, nella sostanza, il settore bancario, costituiscono indubbio esercizio di un potere normativo, almeno nei fatti: in altri termini, come affermato nella pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione del 4 novembre 2004, n. 21095, le clausole di capitalizzazione trimestrale degli interessi configurano violazione del divieto di anatocismo di cui all’art. 1283 c.c., non essendo espressione di usi normativi, “neppure nei periodi anteriori al mutamento giurisprudenziale in proposito avvenuto nel 1999, non essendo idonea la contraria interpretazione giurisprudenziale seguita fino ad allora a conferire normatività ad una prassi negoziale che si è dimostrata poi essere contra legem” (CUTUGNO-DE GIOIA, L’anatocismo bancario, Varese, 2005, p. 90).

Si tratta di una contrattazione che le Sezioni Unite hanno definito basata sulla “regola del prendere o lasciare”, proprio per l’impossibilità del cliente di influire minimamente su clausole contrattuali non negoziabili, in quanto, come ha già affermato la Cassazione, in un’altra sentenza sull’anatocismo, in questi contratti la sottoscrizione costituisce al tempo stesso presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari (ROLFI, Le Sezioni Unite e l’anatocismo, in Corr. merito, 2005, 1, p. 7).

Quindi ad avviso del giudice di Monza, ne consegue che dall’osservanza delle condizioni generali di contratto non possono derivare usi normativi, altrimenti si perverrebbe a rivestire di efficacia normativa quello che è un potere esercitato unilateralmente da un privato e le clausole generali diventerebbero in tal modo fonti di diritto oggettivo.

Questa soluzione non potrebbe reggere perché violerebbe l’art. 3 Cost. che sancisce il principio di eguaglianza fra privati: infatti, la norma suddetta, vale a statuire che il legislatore non può operare discriminazioni fra i cittadini, a seconda del loro sesso, della loro razza, lingua, religione, delle loro opinioni politiche e delle loro condizioni personali e sociali. È evidente che in tanto il principio può dirsi applicato in quanto la legge tratti in modo eguale situazioni eguali ed in modo diverso situazioni diverse.

Diversamente, prosegue il giudice, “si finirebbe per negare il carattere di fonte-fatto degli usi, per renderlo in realtà una fonte-atto, in quanto la fonte degli usi diventerebbe l’inserimento della corrispondente clausola nei moduli e nei formulari delle imprese” (Trib. di Monza, 12 dicembre 2005, n. 3393, cit.).

Infatti, le fonti-atto sono costituite da manifestazioni di volontà espresse da un organo dello Stato-soggetto o di altro ente a ciò legittimato dalla Costituzione e trovano, di regola, la loro formulazione in un testo normativo, fonti scritte; le fonti-fatti, invece, consistono in un comportamento oggettivo, consuetudine o uso, o in atti di produzione giuridica esterni al nostro ordinamento e che per ciò solo vengono assunti come fatti (MARTINES, Diritto costituzionale, MILANO, 1992, p. 65).

Inoltre, nella sentenza in commento il giudice sostiene la nullità delle clausole di capitalizzazione a seguito della contrarietà ad una norma imperativa qual è quella prevista all’art. 1283 c.c.; infatti, secondo la Suprema Corte, essa presidia ad un interesse pubblico “ad impedire una forma, subdola ma non socialmente meno dannosa delle altre, di usura, ed i patti conclusi in sua trasgressione sono nulli ai sensi dell’art. 1418 c.c.” (Cass., 16 maggio 1977, n. 1724, in RICCIO, L’anatocismo, PADOVA, 2002, p. 65).

Il problema dell’individuazione del periodo di capitalizzazione, a seguito della mancata previsione contrattuale conseguente alla declaratoria di nullità delle suddette clausole, deve essere affrontato, secondo il giudice di Monza, facendo richiamo “al parametro dell’equità di cui all’art. 1374 c.c., intesa come esigenza di bilanciamento tra i contrapposti interessi delle parti; tale parametro porta a fare propria la soluzione di una clausola di capitalizzazione con cadenza annuale, in modo da assicurare esattamente lo stesso termine previsto a favore dei correntisti in caso di interessi a loro credito” (Trib. di Monza, 12 dicembre 2005, n. 3393, cit.).

Quindi, al pari del principio di buona fede e di correttezza, anche l’equità opera in via integrativa del contenuto del contratto, ma essa interviene solo in via sussidiaria o suppletiva, ove le parti o la legge nulla abbiano disposto al riguardo e si tratti dunque di colmare una lacuna del contratto. In tal caso, si ritiene che le parti siano tenute anche a rispettare quelle conseguenze che derivano dall’equità.

Per quanto riguarda, invece, l’azione del cliente nei confronti della banca, tesa a chiedere la restituzione delle somme illegittimamente percepite da quest’ultima a titolo di interessi anatocistici, per effetto della declaratoria di nullità della relativa clausola, essa è qualificabile come azione di ripetizione di indebito, ex art. 2033 c.c.: secondo la costante giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, il pagamento di somme in base ad un contratto nullo si configura come un’ipotesi di indebito oggettivo (Cass., 6 ottobre 1976, n. 3303, in Foro it., 1977, I, p. 442; Cass., 9 febbraio 1987, n. 1337, in Mass. Giust. civ., 1987, p.2; Cass., 27 dicembre 1994, n. 11177, in Rep. Foro it., voce “Indebito”, n. 11; Cass., 18 novembre 1995, n. 11973, in Gius, 1995, p. 693 ss.).

Va precisato che quando, come nel caso di specie, venga in rilievo la mancanza di causa di un’obbligazione contrattuale in riferimento a qualche clausola del rapporto negoziale o la nullità anche parziale del negozio stesso, in base al quale è stato eseguito un pagamento, si fa riferimento, per le azioni di ripetizioni, all’istituto di cui all’art. 2033 c.c. e non a quello di cui all’art. 2041 c.c. (arricchimento senza causa), il quale presuppone l’assenza di un qualsivoglia contratto lecito e tutelabile.

Secondo tale disciplina, come evidenziato in una pronuncia del Tribunale di Vibo Valentia del 16 gennaio 2006, “è sufficiente a legittimare la ripetizione di quanto illegittimamente prestato da una parte in esecuzione di un contratto dichiarato nullo in tutto o in parte, come nel caso di specie, in cui alcune clausole sono da dichiararsi nulle, il requisito dell’avvenuto pagamento e quello dell’inesistenza del titolo in virtù del quale tale esecuzione ha avuto luogo. Non si richiede anche - ne costituisce correlativamente impedimento a tali restituzioni - la circostanza di un arricchimento del patrimonio dell’accipiens e di una corrispondente diminuzione del patrimonio del solvens, elementi caratteristici della diversa azione di arricchimento senza causa” (Trib. di Vibo Valentia, 16 gennaio 2006, in Giurispr. di Merito, 2006, 10, p. 41).

Infatti, l’azione di arricchimento senza causa e del tutto complementare e può essere esercitata solo quando manchi qualunque titolo specifico, sul quale possa essere fondato il diritto preteso (e che quindi deve essere proposta in modo esplicito), per come previsto dall’art. 2042 c.c., mentre la ripetizione di indebito riguarda altra e diversa ipotesi giuridica, basata su due necessari e sufficienti requisiti: l’esistenza di un pagamento e il fatto che il pagamento stesso non doveva essere eseguito.

Pertanto, secondo l’art. 2033 c.c. costituisce un indebito oggettivo l’esecuzione di una prestazione o di un pagamento privo di giustificazione, ovvero privo di qualsiasi titolo contrattuale o extracontrattuale; quindi, il soggetto che ha eseguito la prestazione non dovuta può ripetere, cioè chiedere la restituzione di quanto pagato, oltre ai frutti ed agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure se questi era in buona fede, dal giorno della domanda giudiziale (AA. VV., Le obbligazioni e il contratto, TORINO, 2004, p. 489).

Tale azione può essere promossa anche in costanza di rapporto, posto che la nullità investe, nella fattispecie, la sola clausola anatocistica, e non l’intero contratto, si tratta, cioè, di nullità parziale.

Dalla configurazione dell’azione diretta ad ottenere la restituzione degli interessi anatocistici come ripetizione dell’indebito, discende che la banca è tenuta altresì a corrispondere al correntista, sulle somme oggetto di restituzione, gli interessi a decorrere dalla domanda (intesa come domanda giudiziale, non rilevando il momento della domanda stragiudiziale), atteso che la stessa deve reputarsi in buona fede al momento della percezione degli interessi stessi, probabilmente anche per i contratti conclusi dopo il revirement della Cassazione del 1999.

Inoltre, la sentenza in commento accoglie l’orientamento che appare prevalente secondo il quale il termine di prescrizione decennale per l’esercizio dell’azione inizierebbe a decorrere dal momento dell’accreditamento in favore della banca delle singole somme corrispondenti agli interessi anatocistici illegittimamente riscossi dalla banca, ovvero dall’addebito operato da quest’ultima, inteso come operazione contabile di annotazione sul conto, che avviene a ciascuna chiusura trimestrale dello stesso (MAFFEIS, cit., p. 406).

Tale orientamento trae spunto da una pronuncia, in tema di libretti di deposito a risparmio, della Suprema Corte del 3 maggio 1999, n. 4389, secondo cui “la prescrizione del diritto alla restituzione delle somme depositate nel deposito bancario inizia a decorrere non già dalla data della richiesta di restituzione e neppure da quella del rifiuto della banca ma dal giorno in cui il depositante poteva richiedere la restituzione, ossia o dal giorno stesso della costituzione del rapporto ovvero da quello dell’ultima operazione compiuta, se il rapporto si sia sviluppato attraverso accreditamenti e prelevamenti: ciò in quanto, essendo il diritto alla restituzione un diritto di credito nel quale si è convertito il diritto di proprietà del depositante, il mancato esercizio di siffatto diritto dà luogo immediatamente a quello stato di inerzia che è il presupposto della prescrizione” (Cass. civ., sez. I, 3 maggio 1999, n. 4389, in Banca, borsa, tit. cred., 2000, II, p. 505).

Quindi tale orientamento muove dal presupposto secondo cui ciascuna delle singole prestazioni indebite è oggetto di ripetizione; per cui, il termine di prescrizione decorre dal giorno i cui il diritto può essere fatto valere, ai sensi dell’art. 2935 c.c., essendo irrilevanti i meri impedimenti di fatto, come l’ignoranza del cliente circa il suo diritto alla ripetizione degli interessi in questione.

Secondo questa tesi, indubbiamente più favorevole alle banche, l’azione di ripetizione degli interessi anatocistici dovrebbe essere proposta nell’arco di dieci anni tra la data di ciascun singolo accreditamento o versamento in favore della banca e la data di proposizione della domanda giudiziale, e, quindi, anche durante lo svolgimento del rapporto.

Di conseguenza, il contenzioso giudiziario, avente ad oggetto la ripetizione degli interessi relativi ai rapporti instaurati prima della delibera CICR, sarebbe considerevolmente ridimensionato ed ormai in via di esaurimento, potendo il correntista, ad oggi, chiedere la ripetizione dei soli interessi anatocistici indebitamente versati nei soli anni dal 1995 all’aprile 2000, data l’inefficacia ai fini interruttivi della prescrizione, di eventuali atti stragiudiziali effettuati in precedenza, fino alla definitiva estinzione di ogni pretesa nel 2010 (PANDOLFINI, Anatocismo bancario: le questioni ancora aperte, in Contratti, 2005, n. 7, p. 715; MAFFEIS, cit., p. 411; PORCELLI, op. cit., p. 316; SALANITRO, Gli interessi bancari anatocistici, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, 4, p. 15).

Secondo un diverso orientamento, invece, il termine prescrizionale in questione inizierebbe a decorrere soltanto dalla chiusura definitiva del rapporto; solo in tale momento, infatti, si produrrebbe definitivamente il saldo dei crediti e debiti tra le parti, trattandosi di un rapporto giuridico di durata, unitario, seppur articolato in una pluralità di atti esecutivi.

L’accoglimento di tale orientamento permetterebbe al cliente di esercitare l’azione di ripetizione degli interessi indebitamente trattenuti dalla banca nell’arco di durata dell’intero rapporto, finché quest’ultimo non si sia chiuso, e dunque anche a distanza di molti anni dal primo accreditamento degli interessi anatocistici; ciò produrrebbe il risultato di far lievitare, di non poco, l’importo delle somme che gli istituti di credito dovrebbero restituire alla clientela, e al contempo di prolungare indefinitamente nel tempo il contenzioso in materia, relativamente ai contratti di conto corrente non ancora sciolti.

D’altra parte, ai correntisti sarebbe precluso l’esercizio dell’azione di ripetizione in questione, finché il rapporto sia ancora in essere; pertanto, qualora non fosse stata la banca a recedere dal rapporto (in caso di conto con saldo passivo), dovrebbero porvi fine essi stessi.

La tesi per ultimo esposta non sembra condivisibile, in quanto nel conto corrente bancario, a differenza di quanto si verifica nel conto corrente ordinario, vige il principio dell’immediata esigibilità del saldo da parte del correntista, ai sensi dell’art. 1852 c.c., e, conseguentemente, la compensazione tra addebitamenti e accreditamenti non opera soltanto nel momento della chiusura finale del conto, bensì progressivamente, cioè via via che crediti e contro crediti sono annotati sul conto (TARZIA, Il contratto di conto corrente bancario, Milano, 2001, p. 178 ss.).

Sembra, pertanto, preferibile ritenere che la prescrizione del diritto alla ripetizione degli interessi anatocistici decorra dalla data in cui gli stessi siano stati, di volta, in volta, annotati sul conto del correntista, diminuendo la disponibilità di quest’ultimo.