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L’articolo 2094 del Codice civile: criticità di una norma decontestualizzata

Ai sensi della Circolare del 18 Marzo 2004 del Ministero del Lavoro si precisa che le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

Abstract

La nozione giuridica di prestatore di lavoro subordinato, delineata molti decenni fa nel nostro Codice civile, rischia trasformarsi in un involucro vuoto. Nella breve analisi che si propone si cercherà di far emergere una sintesi delle ragioni che potrebbero rendere necessaria una ridefinizione dell’art. 2094, in funzione non di un pedissequo ed acritico adattamento a qualsiasi evoluzione dei rapporti di lavoro dipendente, bensì nel segno di una maggiore incisività normativa che disciplini il lavoro subordinato nella sua identità, talora proteiforme, tipica di una società tecnologicamente instabile quale quella che viviamo: il fine non può essere altro che la tutela delle condizioni obiettive e generali del lavoro e del suo valore sociale ed individuale, ma senza indulgere nella tutela di interessi particolari, soggettivi e dogmatici.

Sono lontanissimi gli anni di una subordinazione intesa quale reale e totale assoggettamento personale del lavoratore all’impresa ed all’imprenditore. Lontanissimi gli anni ’30, quando Simone Weil, illuminata intellettuale di agiata famiglia borghese, ebbe una volontaria e diretta esperienza di lavoro nelle fabbriche francesi della Renault, con la qualifica operaia di base, toccando con mano la vera condizione subordinata del lavoratore e le sue devastanti conseguenze esistenziali, poste ben al di là dell’orario di lavoro quotidiano (1). Nel nostro tempo le condizioni di lavoro di quegli anni sono state - o dovrebbero essere state, ci si augura - superate: non esiste più ’la catena di montaggio’ oggetto di brillante ironia nel bellissimo Tempi moderni di Charlie Chaplin, ma resta, tuttavia, il problema di evitare che essa possa oggi assumere altre forme insidiose e sinistre, certo più difficilmente identificabili. Potrebbe essere utile, quindi, adeguare quelle norme che furono scritte proprio in periodi storici molto più vicini all’esperienza concreta vissuta dalla Weil che alla nostra.

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Una breve considerazione preliminare sui contenuti dell’articolo 2094, il quale afferma, com’è noto, che “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Si tratta di una norma che esteriorizza, come d’altro canto è comprensibile che sia, in modo vistoso, i segni, i valori ed i limiti del tempo in cui fu scritta e soltanto un pluridecennale ed intenso lavorìo giurisprudenziale e dottrinale ha consentito di fare importanti passi in avanti nell’elaborazione teorica e concreta della nozione di subordinazione, snodo fondamentale nell’ordinamento giuridico italiano in materia di lavoro (2). Il legislatore del 1942, nel delineare l’art. 2094, non sembra aver avuto, come in altre norme del Codice civile, la capacità di formulare un dato giuridico in grado di proiettarsi negli anni avvenire, in grado di essere duttile rispetto alle profonde trasformazioni che avrebbero interessato, in un futuro più lontano, la società ed il lavoro, quest’ultimo non inteso come algido ed inespressivo valore tecnico ma percepito come positivo spazio evolutivo della personalità individuale, pur non totalizzante. Quel legislatore intese, dunque, porre in risalto almeno cinque elementi, di seguito sinteticamente descritti. Il sinallagma genetico-funzionale che segna inequivocabilmente il rapporto di lavoro dipendente; la stretta relazione fra la prestazione lavorativa e l’impresa poiché la norma non indica altro che l’impresa come luogo in cui deve (o dovrebbe) prestarsi tale attività subordinata, tralasciando altri contesti; emerge poi il concetto di collaborazione nell’impresa, di per sé espressione di una volontà politica tesa a mitigare, sembrerebbe, almeno sul piano formale, le condizioni reali in cui avveniva l’inserimento lavorativo nei primi decenni del Novecento, con il fine immanente di eliminare il conflitto di classe; la distinzione netta fra lavoro intellettuale e manuale; infine, il legame della prestazione lavorativa subordinata con il potere direttivo dell’imprenditore. Fra questi dati solo la sinallagmaticità, ossia il nesso di stretta reciprocità delle prestazioni, esprime una valenza oggettiva, ben poco suscettibile d’interpretazione, mentre tutti gli altri devono essere adattati, non senza difficoltà, alle mutate e mutevoli condizioni in cui la prestazione lavorativa è svolta nella società contemporanea.

I processi lavorativi, soprattutto negli ultimi due decenni, si concretizzino in prevalenti aspetti manuali od intellettuali, hanno subito e subiscono una continua evoluzione tecnologica poiché devono rispondere ad esigenze di mercato spesso incerte, talora molto rapide nel loro manifestarsi ed altrettanto nel dissolversi. E’ del tutto naturale, quindi, che la prestazione lavorativa, in vaste aree produttive di beni o servizi, richieda una sempre più analitica specializzazione ed un continuo aggiornamento professionale. Quanto più è elevato il grado di professionalità o di abilità tecnica raggiunto dal lavoratore tanto maggiore sarà la possibilità che il datore di lavoro non debba di necessità predisporre direttive dettagliate o tali da ’scolpire’, in modo preminente, forme e modi della prestazione lavorativa.

In linea generale, ad esempio, in un’azienda che riveste forma societaria, anche se di non eccessive dimensioni, il datore di lavoro non sarà una persona fisica, ma una compagine societaria che esprimerà un consiglio di amministrazione con uno o più amministratori; di conseguenza le direttive, specie se con riferimento a prestazioni lavorative ad alto contenuto tecnico, spesso non saranno espressione diretta del patrimonio di conoscenze del datore di lavoro in quanto tale, ma potranno essere promanazione diretta dei collaboratori più stretti dell’imprenditore, a loro volta lavoratori subordinati con alte qualifiche, nel contempo preposti al controllo ed all’organizzazione dell’impresa.

Le osservazioni appena tratteggiate rilevano al fine di proporre una riflessione sugli indici rivelatori della subordinazione, così come elaborati dalla giurisprudenza di legittimità nel corso degli anni, e sulla loro configurazione, in taluni casi non infrequenti, avulsa dai contesti lavorativi reali. Parte della dottrina più avanzata (Galantino), ampiamente condivisa da chi scrive, propone, infatti, un’analisi che procede nella direzione di adottare una lettura diversa dei dati emergenti dall’art. 2094 – sempre più decontestualizzati rispetto ai modelli organizzativi e produttivi contemporanei - giungendo alla conclusione della necessità di non restare immobili nei meandri del requisito della subordinazione (ovvero eterodirezione della prestazione), almeno così come inteso per decenni. La citata dottrina ritiene più proficuo indagare sul parametro della imputazione, o riferibilità al datore di lavoro dell’attività svolta dal prestatore, nel senso che gli utili economico-finanziari e tutti gli aspetti materiali e giuridici della prestazione stessa, dovrebbero essere ricondotti unicamente alla sfera d’interesse dell’imprenditore-datore, perché possa essere apprezzata la natura subordinata di una determinata attività lavorativa. In questa prospettiva interpretativa si colloca anche parte, forse non maggioritaria, della giurisprudenza di legittimità (Cfr. Cass. civ. sez. lav. 4 marzo 1998 n. 2370, ove si pone in risalto la condizione, tuttavia non considerata in via esclusiva, dell’alienità del risultato della prestazione e dell’organizzazione produttiva, affinché possa integrarsi il requisito della subordinazione). A margine, va anche precisato che il criterio dell’imputazione dell’attività svolta consentirebbe di individuare, più correttamente, anche la natura del lavoro autonomo nel quale c’è, invece, una commistione di effetti giuridici e materiali, nonché di responsabilità e vantaggi economici, fra la sfera d’interesse del committente e quella del lavoratore autonomo, nel quadro di un’obbligazione generalmente di risultato.

Elementi sintomatici della subordinazione e limiti operativi

Nel corso del tempo la giurisprudenza, di legittimità e di merito, ha individuato diversi indici ritenuti, in linea generale, collaterali, marginali, non determinanti nell’individuazione di una prestazione di lavoro subordinata. Gli stessi vanno valutati ciascuno nella propria individualità critica:

1) le modalità di elargizione della retribuzione e la sua misura quantitativa. In linea di principio se la retribuzione (o compenso, in senso atecnico) è corrisposta con cadenza periodica mensile ed il suo quantum non è soggetto a variazioni, tale dato potrebbe essere considerato elemento rilevatore della natura subordinata del rapporto, anche se non sufficiente. Ma è necessario riflettere anche sulla possibilità di poter constatare la presenza di una retribuzione globale che, seppur data con scadenze fisse, potrebbe non essere stabile nel quantum ed avere una natura composita, per la presenza di premi di produttività o per particolare rendimento individuale, possibili partecipazioni agli utili ovvero presenza frequente di ore di straordinario, maggiorazioni per lavoro notturno o festivo, gratifiche o compensi per ferie non godute. In altre parole la retribuzione, nella sua veste formale, di fatto, potrebbe non avere una struttura stabile ed omogenea e, dunque, è chiaro che non può essere, di per sé, considerata fattore determinante ai fini dell’accertamento della subordinazione ma neppure indice sicuro di lavoro autonomo;

2) più attenzione dovrebbe, invece, essere posta sull’assenza di rischio per il prestatore di lavoro dipendente rispetto all’oggetto della sua attività nell’ambito dell’impresa, purché sia chiaro che l’assenza di rischio non può riferirsi al risultato ultimo della prestazione, essendo quest’ultima effettuata nell’ambito di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, pertanto non può esserci un risultato finale da porre in connessione con l’assenza di rischio. Quest’ultima va intesa nel senso che la prestazione lavorativa, una volta resa con le modalità previste, non si potrà tradurre, per il lavoratore, in alcun impatto negativo connesso a problemi inerenti l’attività d’impresa o riconducibili alle scelte organizzative del datore di lavoro. L’assenza di rischio è circostanza che va interpretata nella sua relazione inscindibile con l’inserimento strutturale del lavoratore nell’organizzazione imprenditoriale e con l’uso dei beni strumentali di proprietà esclusiva del datore. Pertanto, assenza di rischio, inserimento strutturale ed organizzativo del prestatore nell’impresa, uso di beni strumentali di proprietà del datore, sono spesso aspetti l’uno conseguenza dell’altro e la contiguità concreta degli stessi dovrebbe indurre la giurisprudenza, di merito soprattutto, ad attribuire ad essi un maggior peso nell’accertamento circa la natura subordinata del rapporto di lavoro. Ciò a maggior ragione se si considera la valenza spesso oggettiva ed univoca dei tre fattori sopra esaminati, molto più intensa di tante verifiche volte ad accertare astratte direttive emesse da parte del datore di lavoro;

3) in relazione alle problematiche inerenti lo svolgimento della prestazione in un determinato orario, preconfigurato dal datore di lavoro ed imposto a colui che presta attività lavorativa, va rilevato che l’osservanza di un determinato orario di lavoro non potrebbe, di per sé sola, mai essere determinante, non solo perché in tal senso è l’orientamento giurisprudenziale prevalente, ma perché anche nel lavoro autonomo o parasubordinato lo svolgimento di una prestazione lavorativa spesso richiede, pur non nel quadro di una predeterminazione assoluta, un numero di ore lavorative che possono talora coincidere con quelle di una ordinaria prestazione subordinata;

4) la sottoposizione al potere gerarchico e disciplinare dell’imprenditore è un indice difficile da riscontrare e provare oggettivamente. In sede di riqualificazione di un rapporto di lavoro autonomo o parasubordinato, in senso invece subordinato, sarà non agevole accertare l’emissione di provvedimenti disciplinari a carico del lavoratore o la sua soggezione ad una gerarchia particolarmente strutturata. Tuttavia, una volta superato l’onere della prova, in senso positivo, anche il potere gerarchico e disciplinare possono concretamente assumere valenza ben maggiore del potere direttivo e di controllo.

Il potere direttivo, gerarchico e di controllo: una lenta ma progressiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità

Il potere direttivo (e le sue varianti: gerarchia e controllo) è, dunque, il fattore sinora considerato determinante affinché un rapporto di lavoro possa essere qualificato nell’alveo della subordinazione con tutte le conseguenze in materia fiscale, previdenziale ed assicurativa. Ad ogni modo, anche in questo caso sono necessari alcuni rilievi critici tesi ad evidenziare quanto, spesso, formule quali ad esempio “l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, gerarchico e disciplinare dell’imprenditore” oppure “la subordinazione intesa come vincolo di soggezione personale del lavoratore che deve estrinsecarsi nell’emanazione di ordini specifici, oltre che nell’esercizio di un’attività di vigilanza e controllo”, ricorrenti in diverse sentenze di merito e di legittimità, corrano il rischio di divenire dati giuridici astratti e formali. Ciò non significa aprire un varco incontrollabile alla trasformazione di qualsiasi prestazione autonoma o parasubordinata in lavoro subordinato, senza un parametro selettivo di riferimento; più semplicemente vuol dire prendere atto della necessità di ridurre un contenzioso, spesso evitabile, migliorando il dato normativo da cui esso ha origine ed attribuendo a quest’ultimo la funzione principale di filtro rispetto ad aspettative talora non fondate, quelle del lavoratore, ma anche rispetto a scelte contrattuali a volte non legittime, quando non del tutto elusive, quelle del datore di lavoro.

Come già accennato nella prima parte della presente riflessione, quanto maggiore sarà la specializzazione, la professionalità e la capacità tecnica espressa sul campo dal lavoratore, tanto meno intense, continue o frequenti saranno le direttive promananti dal datore di lavoro. E’ più probabile un riscontro concreto del potere di controllo che dovrà coordinare la prestazione lavorativa con la complessiva organizzazione aziendale e con gli obiettivi prefissati. Le direttive che dovrebbero dar forma e contenuto alla prestazione lavorativa potrebbero essere talmente tenui, soprattutto in processi lavorativi complessi, disciplinati da un patrimonio di conoscenze oggettivo, da non prestarsi forse neppure ad essere oggetto di accertamento.

Negli ultimi dieci anni l’assetto di fondo della giurisprudenza di legittimità sul tema si è ampliato in misura considerevole, assumendo i tratti di una costa tortuosa e senza confini precisi. E, tuttavia, accanto a molte sentenze (3) che accentuano, in modo determinante, la necessaria presenza, continua e costante, del potere direttivo, gerarchico e di controllo, ai fini integrativi della subordinazione, ve ne sono molte altre che rapidamente hanno mutato questa prospettiva, inducendo verso una linea interpretativa più flessibile, aderente alla frantumazione dei processi lavorativi ed al non necessario e capillare intervento da parte del datore di lavoro nello svolgimento ordinario delle prestazioni lavorative dei dipendenti.

Per addentrarci sul piano concreto possiamo considerare, ad esempio, l’attività svolta in un call-center, dove la prestazione del lavoratore, cosiddetta in bound (4), è del tutto basata sull’uso della tecnologia: in tale ambito il lavoratore generalmente osserva un determinato orario, o fascia oraria flessibile, ha la sua postazione individuale, dotata di computer e cuffie, avvia la procedura d’inserimento della password, ma le chiamate che raggiungeranno i clienti - già predeterminati dall’azienda - partiranno generalmente in automatico. Con i potenziali clienti il prestatore entrerà in contatto commerciale, in nome e per conto non tanto del proprio datore di lavoro diretto e formale, quanto dell’azienda committente, ossia quella che produce il bene o servizio da collocare sul mercato. Sembra evidente che nel contesto appena descritto, le direttive continue e costanti, il controllo penetrante sulla prestazione svolta, non saranno facilmente verificabili e forse neppure tanto assidue poiché il lavoratore sa già ciò deve fare quotidianamente ed il contenuto reale e tipico della sua prestazione sarà dato piuttosto dalla sua capacità di promuovere e vendere il prodotto, ma non per tale ragione possiamo considerarlo autonomo e neppure parasubordinato, come per molti anni si è erroneamente ritenuto (5).

E’ possibile estendere i percorsi argomentativi appena delineati anche con riferimento ad altre ipotesi di inserimenti lavorativi, quali ad esempio quelli derivanti dalla stessa attività edilizia, laddove il datore di lavoro non sempre è in grado tecnicamente di dare direttive dettagliate ovvero ordini specifici in merito alla prestazione, specie quando il lavoratore possiede una capacità professionale-operativa superiore alla media o addirittura prevalente nel confronto con quella dello stesso imprenditore e dunque non necessita di ordini puntuali al riguardo (Cfr. Cass. civ. sez. lav., 13.06.2003, n. 9492, dove si confermava la riqualificazione del rapporto di lavoro in senso subordinato effettuata dal giudice di merito, ma non perché risultasse provato l’assoggettamento a direttive e ordini specifici, bensì in virtù di convergenti elementi – inserimento del lavoratore nel cantiere, mancanza di attrezzature di proprietà dello stesso, assenza del rischio d’impresa, retribuzione a cadenze fisse calcolata ad ora o a cottimo, l’osservanza del medesimo orario di lavoro degli altri operai – che sono stati letti correttamente, a parere di chi scrive, quali espressione di oggettiva subordinazione).

Nella direzione di una progressiva attenuazione dell’intensità del potere di controllo e direttiva vanno anche alcune sentenze di legittimità rese in contesti lavorativi di natura intellettuale, caratterizzati da prestazioni particolarmente tecniche, ove la Cassazione rileva, con estrema linearità logica, che le direttive, sintomo di subordinazione, non necessariamente devono riguardare la prestazione in sé stessa, ma possono estrinsecarsi con riferimento esclusivo all’osservanza dell’orario di lavoro ed alla quantità di tempo lavorato quale parametro imprescindibile per la sua traduzione in retribuzione e, dunque, assumere rilevanza esterna alle mansioni effettivamente svolte. (Cfr. Cass. sez. lav. 22.02.2006, n. 3858, la fattispecie riguardava uno studio dentistico e la qualifica del rapporto di lavoro di un odontotecnico).

Ancora in tema di profili professionali di natura elevata, risulta interessante altra decisione di legittimità, ove si afferma che, nell’ipotesi in cui sia particolarmente arduo valutare il nesso oggettivo fra le direttive emanate dal datore di lavoro e le mansioni svolte dal prestatore, subentrano, in misura determinante, i cosiddetti indici sussidiari, la lettura coordinata dei quali può essere posta a base di una riqualificazione in senso subordinato del rapporto di lavoro (Cfr. Cass. civ. sez. lav. 26 ottobre 2004, n. 8804, resa in tema di rapporto di lavoro riguardante una guardia medica presso casa di cura, affermativa della natura subordinata dello stesso; in tal senso, con analoga motivazione tesa a dare spazio determinante agli indici sussidiari, si veda anche Cass. civ. sez. lav. 29 marzo 2004, n. 6224, resa in tema di rapporto lavorativo, intercorrente fra un insegnante ed un istituto scolastico privato, riqualificato in senso subordinato, pur in presenza di una volontà contrattuale, di entrambe le parti, che deponeva nel senso di ritenere autonomo il rapporto oggetto di causa ).

Nella prospettiva di una sempre minor rilevanza della subordinazione si pone anche un’altra sentenza di legittimità che, riconoscendo il limite probatorio del potere direttivo in alcuni lavori particolari, non ha esitato nel confermare la natura subordinata del rapporto di un istruttore di nuoto, il quale prestava la sua attività tutti i giorni, nella fascia oraria pomeridiana, ma in evidente assenza di direttive da parte del datore di lavoro. La Suprema Corte ha ritenuto più che sufficiente, nella fattispecie, la messa a disposizione delle proprie capacità tecniche, la misura fissa della retribuzione e l’osservanza di un orario, oltre naturalmente all’inserimento strutturale del lavoratore nell’impianto sportivo (Cfr. Cass. civ. sez. lav. 18 giugno 1998, n. 6114).

Di particolare pregio è una recente sentenza di legittimità che percorre la linea argomentativa della progressiva attenuazione del potere direttivo quando lo stesso deve confrontarsi con mansioni di livello molto semplice, con tratti ripetitivi senza alcun profilo di complessità intellettuale; in tale fattispecie la Corte suprema, con un’interpretazione che evolve verso una diversa (e più corretta) lettura dell’art. 2094, afferma la non necessità di direttive e controlli continui da parte del committente affinché possano integrarsi i tratti della subordinazione (Cass. civ. sez. lav. 19 gennaio 2010, n. 794; si trattava di personale addetto alla bollinatura di prodotti farmaceutici, non regolarizzato come dipendente subordinato ed inquadrato, invece, in tal senso dall’Inps. Il ricorso dell’azienda, pertanto, è stato respinto).

Nella medesima linea tematica dell’appena citata sentenza, si pone anche un’altra Cassazione. civ. sez. lavoro, 30 marzo 2010, che scaturisce da un ricorso in appello dell’Inps avverso una sentenza di 1° grado che aveva annullato il provvedimento di recupero contributivo dell’Ente. Vale la pena riportare per esteso alcuni importanti passi: “Si deve premettere che non viene censurato l’accertamento di fatto compiuto dal giudice del merito nei termini seguenti: i due lavoratori(...)erano addetti all’imbottigliamento e all’imballaggio di liquori; l’amministratrice della società (...) provvedeva alla programmazione della produzione in base agli ordini, fissando le scadenze; la lavorazione consisteva in attività semplici e ripetitive, per le quali non erano richiesti interventi e indicazioni del datore di lavoro; i lavoratori osservavano un orario flessibile, ma l’attività, ai fini del rispetto delle scadenze, richiedeva di norma una prestazione di otto ore giornaliere per cinque giorni; la retribuzione aveva cadenza mensile e l’importo era fisso.(...)Nondimeno, viene altresì precisato che l’esistenza del vincolo di subordinazione va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito; e, proprio in relazione alle difficoltà che non di rado si incontrano nella distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato alla luce dei principi fondamentali ora indicati, si è ritenuto che in tale ipotesi è legittimo ricorrere a criteri distintivi sussidiari, quali la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale, ovvero l’incidenza del rischio economico, l’osservanza di un orario, la forma di retribuzione, la continuità delle prestazioni e via di seguito (v. per tutte, Cass. 27 marzo 2000, n. 3674; Cass. 3 aprile 2000, n. 4036, cit.)”.

Questo breve excursus consente di dare atto alla Corte di Cassazione, sezione lavoro, di essersi profusa in un intelligente, sebbene non agevole ed ancora in itinere, sforzo interpretativo per tentare di riavvicinare l’art. 2094 alla realtà operativa odierna.

Osservazioni sui criteri di ripartizione dell’onere della prova della subordinazione: profili amministrativi e civilistici

Sul tema dell’onere della prova è opportuno tener separati due aspetti decisivi, sebbene reciprocamente intersecantesi, ossia quello civilistico e quello amministrativo-pubblicistico. Com’è noto il rapporto di lavoro ha natura giuridica composita e non omogenea. In parte esso è fonte di obbligazioni corrispettive che traggono disciplina dalla contrattazione collettiva, integrativa – entrambe derogabili in melius dalle parti - ed individuale, in parte è disciplinato dalle leggi dello Stato che curano i profili di tutela dell’interesse generale, sino a configurare l’indisponibilità assoluta di taluni diritti, ad esempio quelli connessi alla contribuzione previdenziale. Ne deriva che in tema di ripartizione dell’onere probatorio, con particolare riferimento al requisito della subordinazione, sarebbe necessario distinguere l’ambito di natura privatistica - con le conseguenti prevalenti pretese di natura economico-contrattuale - dove datore di lavoro e lavoratore sono in posizione di parità, dal terreno più strettamente amministrativo nel quale, invece, subentra l’interesse pubblico al corretto svolgimento del rapporto di lavoro in relazione ai suoi aspetti fiscali, previdenziali ed assicurativi, per i quali sia il lavoratore e sia il datore non hanno, in linea generale, alcuna facoltà di natura negoziale o potere dispositivo.

Così, sul piano del diritto civile l’eventuale diverso inquadramento contrattuale, invocato in sede giurisdizionale dal lavoratore - nel presupposto naturalmente che vi sia stata una formale assunzione e che di essa abbiano comunque conoscenza le istituzioni - non può essere provato se non dallo stesso lavoratore, ricadendo completamente su quest’ultimo il relativo onere della prova. In sede di accertamento amministrativo, con l’emersione delle norme di diritto pubblico, invece, occorre distinguere le seguenti due ipotesi.

La prima: è l’ipotesi di un illegittimo inquadramento giuridico del lavoratore, poiché, ad esempio, quest’ultimo è stato assunto con un contratto a progetto oppure con un contratto intermittente o con altre tipologie, non corrispondenti al concreto rapporto accertato e tuttavia, sono stati assolti tutti gli obblighi di comunicazione agli enti. In tal caso l’onere della prova della subordinazione ricadrà sugli organi ispettivi, i quali dovranno far convergere gli elementi di prova nella direzione della natura subordinata del rapporto, al fine di renderla credibile. Analogo criterio deve essere adottato quando è il lavoratore a domandare una diversa qualificazione normativa del suo rapporto, come già sopra accennato. Tutto ciò in considerazione di una corretta applicazione dei principi in materia di onus probandi che fanno ricadere quest’ultimo su chi afferma (o nega) l’esistenza di una determinata situazione di fatto e di diritto.

La seconda, ben più complessa: qualora gli organi amministrativi ispettivi accertino una presenza lavorativa, non risultante da scritture o da altra documentazione obbligatoria e, soprattutto, non comunicata agli enti preposti a ricevere i dati anagrafici, previdenziali, assicurativi e fiscali della stessa – né diversamente si integri una prestazione di lavoro autonomo, dunque una soggettività fiscale con apertura di partita Iva, emissione di fatture attive e/o passive, volume d’affari ed altro – ebbene in questa ipotesi non v’é alcun onere della prova della subordinazione da assolvere da parte degli organi procedenti.

In sede giudiziaria, pertanto, dovrà ricadere esclusivamente sul datore di lavoro l’onere di dover dimostrare la legittimità della presenza lavorativa oggetto di contenzioso: in tal senso, la mera consegna al prestatore di lavoro di lettere d’incarico, la consegna della stessa lettera di assunzione ovvero di un contratto scritto - oppure di altra documentazione di natura privata - sono tutti comportamenti che restano nella linea di confine che delimita l’ambito civilistico, se non preceduti dalla comunicazione obbligatoria al Centro per l’impiego anticipata di almeno un giorno rispetto a quello del reale inizio della prestazione, quindi non legittimano alcuna presenza lavorativa. Il lavoratore che dovesse trovarsi in questa situazione deve essere, pertanto, considerato del tutto in nero o sommerso e non solo irregolare. C’è, infatti, differenza fra i due termini, anche se spesso nel linguaggio corrente vi possano essere improprie sovrapposizioni di significato. Il lavoratore considerato in nero è colui che risulta completamente al fuori della legge né i suoi dati anagrafici ed il tipo di attività che svolge (e, soprattutto a vantaggio di chi è prestata) sono conosciuti dagli enti preposti; il lavoratore irregolare è, invece, conosciuto dagli enti, ma esprime un margine più o meno grave d’illegalità, spesso reiterato nel tempo, perché ad esempio è un lavoratore intermittente mentre si reca tutti i giorni a lavorare, perché è un lavoratore a progetto ma senza progetto, perché è un lavoratore part-time, ma il suo orario effettivo è pieno, perché è un lavoratore accessorio, ma senza i presupposti di cui all’art. 70 del D.lgs 276/2003, come modificato dalla Legge n. 33/2009. Le fattispecie concrete sono talmente tante da essere vana la pretesa di confinarle in un elenco tassativo.

Le conseguenze sanzionatorie, nella prima ipotesi, sono previste e disciplinate dall’art. 36 bis DL. 223/2006, convertito in L. 248/2006 (sanzione amministrativa ridotta pari ad euro 3.000,00 più 150,00 per ogni giorno di lavoro accertato), ancora dall’art. 14 del D.lgs. 81/2008 (eventuale provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale, qualora si integri il presupposto di un numero di lavoratori non in regola pari o superiore alla percentuale del 20% del totale dei lavoratori presenti ed identificati sul luogo di lavoro) nonché dall’art. 13 del D.lgs 124/2004 (provvedimento di diffida obbligatoria finalizzato, in questo caso, alla regolarizzazione del lavoratore non conosciuto dalle istituzioni competenti), oltre alle eventuali sanzioni irrogate dagli enti previdenziali.

Il tema dell’onere probatorio va analizzato con attenzione perché talora possono determinarsi equivoci, a volte ben visibili in talune scelte giurisdizionali di merito, circa il corretto governo dei principi generali dell’ordinamento in tale materia. Di fatto, il percorso ricostruttivo che dovrebbe guidarci nel risolvere eventuali incertezze sul tema probatorio, con riguardo all’ipotesi appena descritta, può trarre origine nell’articolo 2126 del Codice civile (prestazioni di fatto con violazione di legge). Questa importantissima norma, di natura eccezionale, rende inefficaci le conseguenze della nullità o annullabilità del contratto di lavoro, (salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa) rispetto allo svolgimento concreto del rapporto stesso ed ai diritti che di fatto possono essere maturati nel frattempo. A conferma dell’assunto di cui al 1° comma, la norma, nel 2° comma, accentua tale scelta confermando che in ogni caso il prestatore ha sempre diritto alla retribuzione, pur se abbia lavorato in un contesto di violazione delle norme poste a tutela dello stesso lavoratore: si pensi, ad esempio, all’attività di lavoro svolta da un minore pur in presenza di un divieto ex legge n.977/67. L’art. 2126, quindi, supporta la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro in misura tale da non farla venir meno, a maggior ragione quando vi siano state violazioni della normativa posta a tutela non tanto (o non solo) del lavoratore in sé, quanto degli interessi generali dello Stato e dei valori costituzionalmente rilevanti, fra i quali c’è sicuramente la retribuzione ex art. 36 della Costituzione.

Pertanto, sotto il profilo logico-formale, non disgiunto da una posizione giuridica sostanziale, ne discende che i criteri di ripartizione dell’onere della prova dovrebbero declinare in favore del lavoratore, rendendone tecnicamente più leggera la posizione processuale. Nel quadro di una situazione lavorativa di fatto, con relativa illegittimità sopravvenuta degli atti negoziali presupposti (è il caso appunto dell’art. 2126), ovvero nell’ambito di una situazione d’illegittimità originaria della prestazione lavorativa effettuata, laddove sono del tutto assenti gli adempimenti obbligatori per l’avviamento al lavoro (Cfr. artt. 1 e 9 bis, comma 2 della L. 28.11.1996, n. 608, così come modificato dall’art. 1, comma 1180, della L. 27.12.2006, n. 296), è sempre il datore di lavoro a dover assolvere tale onere probatorio dimostrando che, invece, la prestazione è stata effettuata contro la sua volontà, a sua insaputa o per cause a lui non imputabili (eccezionali) ovvero dovrà provare i fatti estintivi dell’obbligazione nata dal rapporto lavorativo di fatto. Il lavoratore avrà soltanto l’onere di allegare la fonte negoziale o legale del suo diritto e nell’ipotesi di cui si discute, la fonte è legale perché è l’art. 2126, a monte, a risolvere il conflitto (6).

Generalmente un rapporto di lavoro ha ad oggetto una prestazione effettivamente resa, con i presupposti che l’ordinamento considera indefettibili, salvo circostanze che non la rendano neppure identificabile come tale ed allora ci si confronterebbe, in tal caso, con un rarissimo ed irrilevante spazio pre-giuridico: ad esempio, in un’abitazione di proprietà di tizio, quest’ultimo si fa aiutare gratuitamente (ed esclusivamente) da un amico a traslocare mobili da un’altra abitazione, ma in virtù di un rapporto di cortesia, tuttavia da accertare nella sua corrispondenza al vero. Al fine di dissolvere qualsiasi opacità di fondo su questo tema delicato, sembra evidente che quando il rapporto di lavoro si svolga al di fuori della disciplina legale e quando è assente anche il nomen iuris del rapporto che le parti avrebbero dovuto dare a termini di legge, allora la subordinazione dovrebbe considerarsi integrata e rafforzata da una presunzione relativa, seguendo i criteri di ripartizione dell’onere della prova sopra descritti. Ciò tanto nel caso in cui una delle parti in giudizio sia il lavoratore, quanto in quello in cui una delle parti sia lo Stato che agisce mediante i propri funzionari ispettivi i quali con determinati provvedimenti nominati e tipici possono dare una qualifica giuridica al rapporto di lavoro, non data dalle parti (7). La ratio di tale percorso argomentativo risiede nella esigenza di tutelare interessi superiori della collettività gravemente lesi da prestazioni lavorative rese senza copertura legale. L’art. 2126, ponendosi in un ambito civilistico puro, ad un certo momento ne esce, segnando il percorso che ci conduce nell’alveo delle norme di natura pubblica.

Pur non essendo questa la sede per analizzare i complessi profili del provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale, poco sopra marginalmente citato, ciò che interessa, in questo spazio di sintesi conclusiva, è comprendere come anche le stesse norme contenute nell’art. 14 del D.lgs. 81/2008 (8), svolgano una funzione importante nel senso dell’inversione dell’onere della prova, poiché il provvedimento di cui si discute potrà essere annullato qualora, entro le 12 del giorno successivo alla sua emissione, il datore di lavoro, talora di fatto impossibilitato nel momento dell’accesso ispettivo (ma accade molto di rado), dimostri agli organi competenti (9) che l’assunzione del lavoratore era già avvenuta a termini di legge prima del loro intervento.

Va considerato anche che il predetto articolo 14, prevede espressamente la revoca della sospensione (10), nell’ipotesi in cui il datore di lavoro versi una sanzione aggiuntiva oltre ad effettuare tutti gli adempimenti necessari ad eliminare le violazioni connesse ad una presenza lavorativa illegale, concretamente assumendo a termini di legge il lavoratore sommerso. Sembra evidente, quindi, che un conto è annullare, in autotutela, il provvedimento dopo la dimostrazione ex post di una situazione lavorativa ab origine regolare, saremmo nel quadro di un ordinario vizio di legittimità con le relative conseguenze, altro è adottare un provvedimento di revoca il quale presuppone la perfetta legittimità ed efficacia del provvedimento interdittivo adottato poiché ne sussistevano, all’atto dell’emissione, tutti i presupposti di legge. La revoca, pertanto, nel caso di cui si discute, esprime la sua ragion d’essere nella necessaria eliminazione, ma solo ex nunc, degli effetti di un provvedimento che ha modificato la realtà, determinando il ripristino della legalità. Una volta emesso il provvedimento di revoca della sospensione, quest’ultima non avrà più alcun effetto per il futuro, nel senso che si riespande il diritto soggettivo del datore di lavoro ad esercitare liberamente la propria attività d’impresa nell’unità produttiva interessata dalla sospensione, ma la revoca determinerà anche il consolidamento di posizioni giuridiche soggettive attive e passive, tanto nella sfera del lavoratore quanto in quella del datore di lavoro.

Osservazioni conclusive

Non devono essere sottovalutati i profondi mutamenti normativi intervenuti negli ultimi anni in materia di lavoro, neppure essi devono essere letti in modo non coordinato con i principi fondamentali del diritto civile e del diritto amministrativo. Non sembra essere più agevole intraprendere contenziosi giudiziari, soprattutto in tema di qualificazione del rapporto lavorativo, a volte risolti sulla base di valutazioni giurisdizionali con tratti interpretativi piuttosto soggettivi: ne è prova l’ingente numero di sentenze correttive della Cassazione, come già rilevato. La situazione è molto più chiara, oggi, nel confronto con il panorama normativo di alcuni anni fa. L’ambito delle varie tipologie di lavoro, pur restando variegato, si restringe sempre di più intorno a due macro categorie, almeno dal punto di vista della regolarità dell’avviamento al lavoro: da un lato il lavoro subordinato, nel quale vanno ricomprese, in relazione agli obblighi di comunicazione, anche le tipologie parasubordinate, o di natura intermedia, contemplate nel D.lgs 276/03 (collaborazioni a progetto, collaborazioni occasionali, lavoro accessorio, ad esempio), dall’altro lato il lavoro autonomo, per il quale sono previsti ugualmente precisi adempimenti di natura formale e sostanziale che, se non assolti, lo ricondurrebbero automaticamente al lavoro subordinato o parasubordinato. Non può né deve lasciarsi spazio all’autonomia privata nell’ambito del rapporto di lavoro, oltre i limiti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

In diversi ed importanti paesi europei non è presente una descrizione normativa e generale del rapporto di lavoro subordinato (Francia e Germania), in altri invece esiste una specifica legislativa in tal senso (Belgio, Portogallo, Austria, ad esempio). Sarebbe necessario, senza acquisire in automatico scelte legate a realtà economico-sociali diverse dalla nostra, adeguare le norme più risalenti per fare in modo da renderle più facilmente coordinabili con la vasta stratificazione normativa degli ultimi anni, con l’evidente finalità di ridurre il più possibile i margini di elusione ed evasione che traggono fonte dal lavoro irregolare e sommerso.

Dal quadro complessivo, normativo e giurisprudenziale, emerge, dunque, un progressivo superamento della tematica della subordinazione e del relativo onere probatorio, soprattutto nell’ipotesi di lavoro sommerso con scelte effettuate preliminarmente, a monte, dallo stesso legislatore.



(1) Nel noto saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale (1934) Simone Weil (1909-1943), nel quadro di un’angosciante analisi delle condizioni del lavoro del suo tempo, ebbe ad affermare “(...) un pescatore che lotta contro le onde e il vento nella sua piccola imbarcazione, benché soffra per il freddo, la fatica, la mancanza di agi e ancora per il sonno, per i pericoli e per un livello di vita così primitivo, ha un destino più invidiabile dell’operaio, che lavora alla catena, anche se meglio soddisfatto in quasi tutte le sue esigenze. E ciò perché il suo lavoro è molto più vicino al lavoro di un uomo libero”. Alla Weil dobbiamo una delle più lucide analisi del valore lavoro e della dimensione, talora drammatica, da esso manifestata nella società industriale avanzata; il suo merito fu quello di aver ricollocato l’attenzione sulla necessità di considerare il lavoro non in funzione della mera e prevaricante produzione di beni materiali, bensì in funzione della centralità dell’uomo in quanto tale. Nel lungo corso del Novecento, Hannah Arendt (1906-1975), anche lei intellettuale con origini nell’agiata borghesia, ci propone una profonda riflessione sul lavoro in una delle sue opere più rilevanti, Vita activa: la condizione umana (1958). Di quest’ultima alcuni passi, quasi profetici ad avviso di chi scrive, meritano di essere letti, proprio per comprendere meglio come il problema lavoro, durante il secolo scorso, abbia subito un’evoluzione, con accelerazioni ancora in corso:“(...) Decisivo è l’avvento dell’automazione, che in pochi decenni vuoterà probabilmente la fabbriche e libererà il genere umano da suo più antico e più naturale fardello, il giogo del lavoro e la schiavitù della necessità (...). Tuttavia è così solo in apparenza. L’età moderna ha comportato (...) una glorificazione teoretica del lavoro, e di fatto è sfociata in una trasformazione dell’intera società in una società di lavoro. La realizzazione del desiderio, però, come avviene nelle fiabe, giunge al momento in cui può essere solo una delusione. E’ una società di lavoratori quella che sta per essere liberata dalla pastoie del lavoro, ed è una società che non conosce più quelle attività superiori e più significative in nome delle quali tale libertà meriterebbe di essere conquistata”.

(2) Nei tre articoli riportati di seguito, inseriti nel Codice civile del 1865, il legislatore evitò di descrivere, sia pur sommariamente, la nozione di subordinazione ed il punto n. 1 dell’art. 1627 ne è in particolare la prova oggettiva, esprimendo la volontà di ricondurre la generalità delle prestazioni lavorative al concetto di obligatio est iuris vinculum, ma senza la fissità normativa della struttura e del modo di configurarsi di tale obbligazione.

Art. 1570 “ La locazione delle opere è un contratto, per cui una delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante la pattuita mercede”.

Art. 1627 “ Vi sono tre principali specie di locazioni di opere e d’industria:

1) quella per cui le persone obbligano la propria opera all’altrui servizio;

2) quella de’ vetturini sì per terra come per acqua, che si incaricano del trasporto delle persone o delle cose;

3) quella degli imprenditori di opere ad appalto o cottimo”.

Art. 1628 “Nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo, o per una determinata impresa”.

(3) ex plurimis, fra le altre (Corte di Cassazione, sez. lav. – sentenza n. 11936 del 11 settembre 2000, Corte di Cassazione, sez. lav. – sentenza n. 15001 del 21 novembre 2000, nonché Corte di Cassazione, sez. lav. – sentenza n. 9151 del 13 maggio 2004).

(4) Cfr. Circolare n. 17/2006 del Ministero del lavoro nella quale si specifica l’identità dell’attività in bound: “Nelle attività in bound l’operatore non gestisce, come nel caso dell’out bound, la propria attività, né può in alcun modo pianificarla giacché la stessa consiste prevalentemente nel rispondere alle chiamate dell’utenza, limitandosi a mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie psicofisiche per un dato periodo di tempo”.

(5) Corte di Cassazione, sez. lav. sentenza n. 9812 del 14 aprile 2008, dando una svolta ad annosa problematica, afferma “(...) Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte l’elemento decisivo che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato dal lavoro autonomo è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro ed il conseguente inserimento del lavoratore in modo stabile ed esclusivo nell’organizzazione aziendale. Costituiscono poi indici sintomatici della subordinazione, valutabili dal giudice del merito sia singolarmente che complessivamente, l’assenza del rischio di impresa, la continuità della prestazione, l’obbligo di osservare un orario di lavoro, la cadenza e la forma della retribuzione, l’utilizzazione di strumenti di lavoro e lo svolgimento della prestazione in ambienti messi a disposizione dal datore di lavoro (vedi tra le tante Cass. n. 21028/2006, n. 4171/2006, n. 20669/2004). (...)La Corte territoriale, pertanto, ha fatto buon governo delle prove fondando il proprio convincimento sul verbale ispettivo e sulle dichiarazioni rese dalla dipendente al pubblico ufficiale. D’altro canto non si può dimenticare che la società, la quale ha agito in giudizio per l’accertamento della natura autonoma del rapporto di Lavoro, non ha fornito alcuna prova al riguardo. (...) Il giudice del gravame ha preso in esame le numerose testimonianze raccolte ed i verbali ispettivi ed ha ritenuto elementi qualificanti della subordinazione delle dipendenti con mansioni di telefoniste le circostanze che seguivano le direttive impartite dall’azienda in relazione ad ogni telefonata da svolgere prendendo nota dell’esito e del numero di telefonate, che avevano un preciso orario di lavoro e che utilizzavano attrezzature e materiali di proprietà della società”.

(6) Cfr. Cassazione Sez. Unite, sent. n. 13533/2001: è la più importante sentenza in materia di ripartizione dell’onere della prova degli ultimi dieci anni, poiché risolve, in modo esauriente, il pluriennale dibattito in materia di inadempimento dell’obbligazione e ciò sia quando si agisce per ottenere l’esatto adempimento ex art. 1218 cod. civ. e sia quando l’inadempimento riguardi le obbligazioni negative. Il principio formulato in questa sentenza può risolvere, a parere di chi scrive, anche la fattispecie dell’art. 2126 cod. civ., poiché questa contempla l’inadempimento derivante dal rapporto obbligatorio di fatto, dal quale, come sappiamo, derivano conseguenze per il debitore (datore di lavoro) e per il creditore (lavoratore), laddove il primo agisce per ottenere l’adempimento o l’esatto adempimento, il secondo è citato per rispondere delle conseguenze del suo inadempimento. La sopra citata sentenza, dunque, chiarisce nel modo seguente il problema, affermando “In conclusione, deve affermarsi che il creditore, sia che agisca per l’adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte: sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento”.

(7) Sul tema, del tutto particolare, relativo all’onere della prova nell’accertamento negativo sembra essere degna di nota anche Cassazione civile, sez. lav., 13 dicembre 2004, n. 23229, in Giust. Civ. Mass. 2005, che afferma “l’onere probatorio gravante, a norma dell’art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l’estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto "fatti negativi", in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude nè inverte il relativo onere, gravando esso pur sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costitutivo; tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può esser data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, od anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo”. Nella specie, la Corte di Cassazione confermava la sentenza di merito con la quale si rigettava la domanda di accertamento negativo circa la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato poiché il ricorrente non aveva provato né chiesto di provare alcun fatto positivo antitetico con quanto, invece, emergeva dal provvedimento ispettivo.

Ad ulteriore conferma della linea argomentativa seguita nel presente contributo, non può trascurarsi neppure la decisione della Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza n. 23206/2009, resa con riguardo alla pregressa normativa sanzionatoria del lavoro irregolare (in ’nero’), già oggetto di intervento della Corte costituzionale con sentenza n. 144 del 2005, con dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3, del D.L. n. 12 del 2002, convertito nella Legge n. 73 del 2002, nella parte in cui non prevedeva la possibilità, per il datore di lavoro, di provare che il rapporto di lavoro irregolare avesse avuto inizio successivamente al 1° gennaio dell’anno nel quale è stata elevata contestazione della violazione. Le Sezioni unite civili confermano, dunque, che nell’ipotesi di prestazione lavorativa ’in nero’, l’onere della prova, circa l’esatto inizio della stessa, ricade esclusivamente sul datore di lavoro, in tal modo superando qualsiasi problematica derivante dalla prova della subordinazione.

(8) L’art. 14 del D.lgs 81/2008, come modificato dal D.lgs. 106/2009, afferma quanto segue (si omettono per ragioni di spazio, le parti interessanti la sospensione emessa per violazione delle norme sulla sicurezza) : “Al fine di far cessare il pericolo per la tutela della salute e la sicurezza dei lavoratori, nonché di contrastare il fenomeno del lavoro sommerso e irregolare, ferme restando le attribuzioni del coordinatore per l’esecuzione dei lavori di cui all’articolo 92, comma 1, lettera e), gli organi di vigilanza del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, anche su segnalazione delle amministrazioni pubbliche secondo le rispettive competenze, possono adottare provvedimenti di sospensione in relazione alla parte dell’attività imprenditoriale interessata dalle violazioni quando riscontrano l’impiego di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20 per cento del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro(...).

Il provvedimento di sospensione può essere revocato da parte dell’organo di vigilanza che lo ha adottato.

E’ condizione per la revoca del provvedimento da parte dell’organo di vigilanza del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali di cui al comma 1:

a) la regolarizzazione dei lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra

documentazione obbligatoria;

b) l’accertamento del ripristino delle regolari condizioni di lavoro nelle ipotesi di

gravi e reiterate violazioni della disciplina in materia di tutela della salute e della

sicurezza sul lavoro;

c) il pagamento di una somma aggiuntiva rispetto a quelle di cui al comma 6, pari a 1.500,00 euro nell’ipotesi di sospensione del lavoro irregolare (...)”.

(9) Gli ispettori del lavoro, in servizio presso le Direzioni Provinciali del Lavoro, uffici territoriali del Ministero del lavoro, sono funzionari con responsabilità esterna le cui diverse competenze a rilevanza esterna, descritte dalla legge (Cfr. ad es. il D.lgs 124/2004, art. 7) e dal CCNL di riferimento, li configurano, a parere di chi scrive e per una maggior precisione, come organi amministrativi posti alla base dell’organizzazione. Essi adottano – nell’attenta osservanza di circolari, note e direttive emesse della Direzione Generale dell’Attività Ispettiva del Ministero - diversi tipi di provvedimenti amministrativi (oltre agli atti connessi alla qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria) e, fra gli altri, nel caso di cui si discorre, emettono il provvedimento di sospensione valutandone, durante l’accesso e sotto la propria responsabilità, tutti i presupposti di fatto e di diritto, motivandone altresì accuratamente le ragioni. Gli ispettori del lavoro agiscono nell’ambito di un rapporto d’immedesimazione organica (oggi considerato prevalente anche in dottrina: Sandulli, Virga, Quaranta) con l’Ente-persona giuridica, di conseguenza gli atti da essi emessi sono imputabili direttamente a quest’ultimo, salvo, tuttavia, l’art. 28 della Costituzione in ordine alla responsabilità diretta del funzionario per violazione di diritti, che trova riscontro nel D.P.R.n. 3/57. L’ispettore del lavoro è, inoltre, inserito strutturalmente in un rapporto di gerarchia esterna ed in parte interna – espressione tipica del rapporto interorganico - con il Direttore della Direzione Prov.le del Lavoro, organo amministrativo a sua volta e ad esso sovraordinato, al quale la legge in taluni casi, puntualmente previsti, attribuisce, di conseguenza, competenza per ricevere e decidere ricorsi avverso i provvedimenti adottati dall’ispettore (Cfr. ad esempio gli artt. 12 e 14 del D.lgs. 124/04).

Sul rapporto, inoltre, d’immedesimazione organica particolarmente chiara è Cass. Civile, Sez. III, 08/10/2007, sentenza n. 20986, che così si esprime “Affinché ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente - responsabilità il cui fondamento risiede nel rapporto di immedesimazione organica - deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso, anche la riferibilità all’amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l’attività posta in essere dal dipendente sia e si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico, e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto. Tale rifèribilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico che si riveli assolutamente estraneo all’amministrazione - o addirittura contrario ai fini che essa persegue - ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l’attività del dipendente e la P.A.. (Cass. Sentenza n. 24744 del 21/11/2006; cfr. anche Cass. n. 10803 del 12 .08.2000)”.

(10) la revoca, com’è noto, è un provvedimento amministrativo di secondo grado collocabile nel più ampio genus dei provvedimenti di revisione (Galli, Corso di Diritto amministrativo, Cedam 2001). La necessità della revoca ha la sua origine nel mutamento della situazione di fatto oppure in una nuova valutazione dell’interesse pubblico, già oggetto del provvedimento amministrativo interessato; il provvedimento revocatorio ha efficacia ex nunc, a differenza dell’annullamento, ne restano, dunque, confermati gli effetti.

Ai sensi della Circolare del 18 Marzo 2004 del Ministero del Lavoro si precisa che le considerazioni contenute nel presente articolo sono frutto esclusivo del pensiero dell’autore e non hanno carattere impegnativo per l’Amministrazione di appartenenza.

Abstract

La nozione giuridica di prestatore di lavoro subordinato, delineata molti decenni fa nel nostro Codice civile, rischia trasformarsi in un involucro vuoto. Nella breve analisi che si propone si cercherà di far emergere una sintesi delle ragioni che potrebbero rendere necessaria una ridefinizione dell’art. 2094, in funzione non di un pedissequo ed acritico adattamento a qualsiasi evoluzione dei rapporti di lavoro dipendente, bensì nel segno di una maggiore incisività normativa che disciplini il lavoro subordinato nella sua identità, talora proteiforme, tipica di una società tecnologicamente instabile quale quella che viviamo: il fine non può essere altro che la tutela delle condizioni obiettive e generali del lavoro e del suo valore sociale ed individuale, ma senza indulgere nella tutela di interessi particolari, soggettivi e dogmatici.

Sono lontanissimi gli anni di una subordinazione intesa quale reale e totale assoggettamento personale del lavoratore all’impresa ed all’imprenditore. Lontanissimi gli anni ’30, quando Simone Weil, illuminata intellettuale di agiata famiglia borghese, ebbe una volontaria e diretta esperienza di lavoro nelle fabbriche francesi della Renault, con la qualifica operaia di base, toccando con mano la vera condizione subordinata del lavoratore e le sue devastanti conseguenze esistenziali, poste ben al di là dell’orario di lavoro quotidiano (1). Nel nostro tempo le condizioni di lavoro di quegli anni sono state - o dovrebbero essere state, ci si augura - superate: non esiste più ’la catena di montaggio’ oggetto di brillante ironia nel bellissimo Tempi moderni di Charlie Chaplin, ma resta, tuttavia, il problema di evitare che essa possa oggi assumere altre forme insidiose e sinistre, certo più difficilmente identificabili. Potrebbe essere utile, quindi, adeguare quelle norme che furono scritte proprio in periodi storici molto più vicini all’esperienza concreta vissuta dalla Weil che alla nostra.

*

Una breve considerazione preliminare sui contenuti dell’articolo 2094, il quale afferma, com’è noto, che “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Si tratta di una norma che esteriorizza, come d’altro canto è comprensibile che sia, in modo vistoso, i segni, i valori ed i limiti del tempo in cui fu scritta e soltanto un pluridecennale ed intenso lavorìo giurisprudenziale e dottrinale ha consentito di fare importanti passi in avanti nell’elaborazione teorica e concreta della nozione di subordinazione, snodo fondamentale nell’ordinamento giuridico italiano in materia di lavoro (2). Il legislatore del 1942, nel delineare l’art. 2094, non sembra aver avuto, come in altre norme del Codice civile, la capacità di formulare un dato giuridico in grado di proiettarsi negli anni avvenire, in grado di essere duttile rispetto alle profonde trasformazioni che avrebbero interessato, in un futuro più lontano, la società ed il lavoro, quest’ultimo non inteso come algido ed inespressivo valore tecnico ma percepito come positivo spazio evolutivo della personalità individuale, pur non totalizzante. Quel legislatore intese, dunque, porre in risalto almeno cinque elementi, di seguito sinteticamente descritti. Il sinallagma genetico-funzionale che segna inequivocabilmente il rapporto di lavoro dipendente; la stretta relazione fra la prestazione lavorativa e l’impresa poiché la norma non indica altro che l’impresa come luogo in cui deve (o dovrebbe) prestarsi tale attività subordinata, tralasciando altri contesti; emerge poi il concetto di collaborazione nell’impresa, di per sé espressione di una volontà politica tesa a mitigare, sembrerebbe, almeno sul piano formale, le condizioni reali in cui avveniva l’inserimento lavorativo nei primi decenni del Novecento, con il fine immanente di eliminare il conflitto di classe; la distinzione netta fra lavoro intellettuale e manuale; infine, il legame della prestazione lavorativa subordinata con il potere direttivo dell’imprenditore. Fra questi dati solo la sinallagmaticità, ossia il nesso di stretta reciprocità delle prestazioni, esprime una valenza oggettiva, ben poco suscettibile d’interpretazione, mentre tutti gli altri devono essere adattati, non senza difficoltà, alle mutate e mutevoli condizioni in cui la prestazione lavorativa è svolta nella società contemporanea.

I processi lavorativi, soprattutto negli ultimi due decenni, si concretizzino in prevalenti aspetti manuali od intellettuali, hanno subito e subiscono una continua evoluzione tecnologica poiché devono rispondere ad esigenze di mercato spesso incerte, talora molto rapide nel loro manifestarsi ed altrettanto nel dissolversi. E’ del tutto naturale, quindi, che la prestazione lavorativa, in vaste aree produttive di beni o servizi, richieda una sempre più analitica specializzazione ed un continuo aggiornamento professionale. Quanto più è elevato il grado di professionalità o di abilità tecnica raggiunto dal lavoratore tanto maggiore sarà la possibilità che il datore di lavoro non debba di necessità predisporre direttive dettagliate o tali da ’scolpire’, in modo preminente, forme e modi della prestazione lavorativa.

In linea generale, ad esempio, in un’azienda che riveste forma societaria, anche se di non eccessive dimensioni, il datore di lavoro non sarà una persona fisica, ma una compagine societaria che esprimerà un consiglio di amministrazione con uno o più amministratori; di conseguenza le direttive, specie se con riferimento a prestazioni lavorative ad alto contenuto tecnico, spesso non saranno espressione diretta del patrimonio di conoscenze del datore di lavoro in quanto tale, ma potranno essere promanazione diretta dei collaboratori più stretti dell’imprenditore, a loro volta lavoratori subordinati con alte qualifiche, nel contempo preposti al controllo ed all’organizzazione dell’impresa.

Le osservazioni appena tratteggiate rilevano al fine di proporre una riflessione sugli indici rivelatori della subordinazione, così come elaborati dalla giurisprudenza di legittimità nel corso degli anni, e sulla loro configurazione, in taluni casi non infrequenti, avulsa dai contesti lavorativi reali. Parte della dottrina più avanzata (Galantino), ampiamente condivisa da chi scrive, propone, infatti, un’analisi che procede nella direzione di adottare una lettura diversa dei dati emergenti dall’art. 2094 – sempre più decontestualizzati rispetto ai modelli organizzativi e produttivi contemporanei - giungendo alla conclusione della necessità di non restare immobili nei meandri del requisito della subordinazione (ovvero eterodirezione della prestazione), almeno così come inteso per decenni. La citata dottrina ritiene più proficuo indagare sul parametro della imputazione, o riferibilità al datore di lavoro dell’attività svolta dal prestatore, nel senso che gli utili economico-finanziari e tutti gli aspetti materiali e giuridici della prestazione stessa, dovrebbero essere ricondotti unicamente alla sfera d’interesse dell’imprenditore-datore, perché possa essere apprezzata la natura subordinata di una determinata attività lavorativa. In questa prospettiva interpretativa si colloca anche parte, forse non maggioritaria, della giurisprudenza di legittimità (Cfr. Cass. civ. sez. lav. 4 marzo 1998 n. 2370, ove si pone in risalto la condizione, tuttavia non considerata in via esclusiva, dell’alienità del risultato della prestazione e dell’organizzazione produttiva, affinché possa integrarsi il requisito della subordinazione). A margine, va anche precisato che il criterio dell’imputazione dell’attività svolta consentirebbe di individuare, più correttamente, anche la natura del lavoro autonomo nel quale c’è, invece, una commistione di effetti giuridici e materiali, nonché di responsabilità e vantaggi economici, fra la sfera d’interesse del committente e quella del lavoratore autonomo, nel quadro di un’obbligazione generalmente di risultato.

Elementi sintomatici della subordinazione e limiti operativi

Nel corso del tempo la giurisprudenza, di legittimità e di merito, ha individuato diversi indici ritenuti, in linea generale, collaterali, marginali, non determinanti nell’individuazione di una prestazione di lavoro subordinata. Gli stessi vanno valutati ciascuno nella propria individualità critica:

1) le modalità di elargizione della retribuzione e la sua misura quantitativa. In linea di principio se la retribuzione (o compenso, in senso atecnico) è corrisposta con cadenza periodica mensile ed il suo quantum non è soggetto a variazioni, tale dato potrebbe essere considerato elemento rilevatore della natura subordinata del rapporto, anche se non sufficiente. Ma è necessario riflettere anche sulla possibilità di poter constatare la presenza di una retribuzione globale che, seppur data con scadenze fisse, potrebbe non essere stabile nel quantum ed avere una natura composita, per la presenza di premi di produttività o per particolare rendimento individuale, possibili partecipazioni agli utili ovvero presenza frequente di ore di straordinario, maggiorazioni per lavoro notturno o festivo, gratifiche o compensi per ferie non godute. In altre parole la retribuzione, nella sua veste formale, di fatto, potrebbe non avere una struttura stabile ed omogenea e, dunque, è chiaro che non può essere, di per sé, considerata fattore determinante ai fini dell’accertamento della subordinazione ma neppure indice sicuro di lavoro autonomo;

2) più attenzione dovrebbe, invece, essere posta sull’assenza di rischio per il prestatore di lavoro dipendente rispetto all’oggetto della sua attività nell’ambito dell’impresa, purché sia chiaro che l’assenza di rischio non può riferirsi al risultato ultimo della prestazione, essendo quest’ultima effettuata nell’ambito di un’obbligazione di mezzi e non di risultato, pertanto non può esserci un risultato finale da porre in connessione con l’assenza di rischio. Quest’ultima va intesa nel senso che la prestazione lavorativa, una volta resa con le modalità previste, non si potrà tradurre, per il lavoratore, in alcun impatto negativo connesso a problemi inerenti l’attività d’impresa o riconducibili alle scelte organizzative del datore di lavoro. L’assenza di rischio è circostanza che va interpretata nella sua relazione inscindibile con l’inserimento strutturale del lavoratore nell’organizzazione imprenditoriale e con l’uso dei beni strumentali di proprietà esclusiva del datore. Pertanto, assenza di rischio, inserimento strutturale ed organizzativo del prestatore nell’impresa, uso di beni strumentali di proprietà del datore, sono spesso aspetti l’uno conseguenza dell’altro e la contiguità concreta degli stessi dovrebbe indurre la giurisprudenza, di merito soprattutto, ad attribuire ad essi un maggior peso nell’accertamento circa la natura subordinata del rapporto di lavoro. Ciò a maggior ragione se si considera la valenza spesso oggettiva ed univoca dei tre fattori sopra esaminati, molto più intensa di tante verifiche volte ad accertare astratte direttive emesse da parte del datore di lavoro;

3) in relazione alle problematiche inerenti lo svolgimento della prestazione in un determinato orario, preconfigurato dal datore di lavoro ed imposto a colui che presta attività lavorativa, va rilevato che l’osservanza di un determinato orario di lavoro non potrebbe, di per sé sola, mai essere determinante, non solo perché in tal senso è l’orientamento giurisprudenziale prevalente, ma perché anche nel lavoro autonomo o parasubordinato lo svolgimento di una prestazione lavorativa spesso richiede, pur non nel quadro di una predeterminazione assoluta, un numero di ore lavorative che possono talora coincidere con quelle di una ordinaria prestazione subordinata;

4) la sottoposizione al potere gerarchico e disciplinare dell’imprenditore è un indice difficile da riscontrare e provare oggettivamente. In sede di riqualificazione di un rapporto di lavoro autonomo o parasubordinato, in senso invece subordinato, sarà non agevole accertare l’emissione di provvedimenti disciplinari a carico del lavoratore o la sua soggezione ad una gerarchia particolarmente strutturata. Tuttavia, una volta superato l’onere della prova, in senso positivo, anche il potere gerarchico e disciplinare possono concretamente assumere valenza ben maggiore del potere direttivo e di controllo.

Il potere direttivo, gerarchico e di controllo: una lenta ma progressiva evoluzione della giurisprudenza di legittimità

Il potere direttivo (e le sue varianti: gerarchia e controllo) è, dunque, il fattore sinora considerato determinante affinché un rapporto di lavoro possa essere qualificato nell’alveo della subordinazione con tutte le conseguenze in materia fiscale, previdenziale ed assicurativa. Ad ogni modo, anche in questo caso sono necessari alcuni rilievi critici tesi ad evidenziare quanto, spesso, formule quali ad esempio “l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, gerarchico e disciplinare dell’imprenditore” oppure “la subordinazione intesa come vincolo di soggezione personale del lavoratore che deve estrinsecarsi nell’emanazione di ordini specifici, oltre che nell’esercizio di un’attività di vigilanza e controllo”, ricorrenti in diverse sentenze di merito e di legittimità, corrano il rischio di divenire dati giuridici astratti e formali. Ciò non significa aprire un varco incontrollabile alla trasformazione di qualsiasi prestazione autonoma o parasubordinata in lavoro subordinato, senza un parametro selettivo di riferimento; più semplicemente vuol dire prendere atto della necessità di ridurre un contenzioso, spesso evitabile, migliorando il dato normativo da cui esso ha origine ed attribuendo a quest’ultimo la funzione principale di filtro rispetto ad aspettative talora non fondate, quelle del lavoratore, ma anche rispetto a scelte contrattuali a volte non legittime, quando non del tutto elusive, quelle del datore di lavoro.

Come già accennato nella prima parte della presente riflessione, quanto maggiore sarà la specializzazione, la professionalità e la capacità tecnica espressa sul campo dal lavoratore, tanto meno intense, continue o frequenti saranno le direttive promananti dal datore di lavoro. E’ più probabile un riscontro concreto del potere di controllo che dovrà coordinare la prestazione lavorativa con la complessiva organizzazione aziendale e con gli obiettivi prefissati. Le direttive che dovrebbero dar forma e contenuto alla prestazione lavorativa potrebbero essere talmente tenui, soprattutto in processi lavorativi complessi, disciplinati da un patrimonio di conoscenze oggettivo, da non prestarsi forse neppure ad essere oggetto di accertamento.

Negli ultimi dieci anni l’assetto di fondo della giurisprudenza di legittimità sul tema si è ampliato in misura considerevole, assumendo i tratti di una costa tortuosa e senza confini precisi. E, tuttavia, accanto a molte sentenze (3) che accentuano, in modo determinante, la necessaria presenza, continua e costante, del potere direttivo, gerarchico e di controllo, ai fini integrativi della subordinazione, ve ne sono molte altre che rapidamente hanno mutato questa prospettiva, inducendo verso una linea interpretativa più flessibile, aderente alla frantumazione dei processi lavorativi ed al non necessario e capillare intervento da parte del datore di lavoro nello svolgimento ordinario delle prestazioni lavorative dei dipendenti.

Per addentrarci sul piano concreto possiamo considerare, ad esempio, l’attività svolta in un call-center, dove la prestazione del lavoratore, cosiddetta in bound (4), è del tutto basata sull’uso della tecnologia: in tale ambito il lavoratore generalmente osserva un determinato orario, o fascia oraria flessibile, ha la sua postazione individuale, dotata di computer e cuffie, avvia la procedura d’inserimento della password, ma le chiamate che raggiungeranno i clienti - già predeterminati dall’azienda - partiranno generalmente in automatico. Con i potenziali clienti il prestatore entrerà in contatto commerciale, in nome e per conto non tanto del proprio datore di lavoro diretto e formale, quanto dell’azienda committente, ossia quella che produce il bene o servizio da collocare sul mercato. Sembra evidente che nel contesto appena descritto, le direttive continue e costanti, il controllo penetrante sulla prestazione svolta, non saranno facilmente verificabili e forse neppure tanto assidue poiché il lavoratore sa già ciò deve fare quotidianamente ed il contenuto reale e tipico della sua prestazione sarà dato piuttosto dalla sua capacità di promuovere e vendere il prodotto, ma non per tale ragione possiamo considerarlo autonomo e neppure parasubordinato, come per molti anni si è erroneamente ritenuto (5).

E’ possibile estendere i percorsi argomentativi appena delineati anche con riferimento ad altre ipotesi di inserimenti lavorativi, quali ad esempio quelli derivanti dalla stessa attività edilizia, laddove il datore di lavoro non sempre è in grado tecnicamente di dare direttive dettagliate ovvero ordini specifici in merito alla prestazione, specie quando il lavoratore possiede una capacità professionale-operativa superiore alla media o addirittura prevalente nel confronto con quella dello stesso imprenditore e dunque non necessita di ordini puntuali al riguardo (Cfr. Cass. civ. sez. lav., 13.06.2003, n. 9492, dove si confermava la riqualificazione del rapporto di lavoro in senso subordinato effettuata dal giudice di merito, ma non perché risultasse provato l’assoggettamento a direttive e ordini specifici, bensì in virtù di convergenti elementi – inserimento del lavoratore nel cantiere, mancanza di attrezzature di proprietà dello stesso, assenza del rischio d’impresa, retribuzione a cadenze fisse calcolata ad ora o a cottimo, l’osservanza del medesimo orario di lavoro degli altri operai – che sono stati letti correttamente, a parere di chi scrive, quali espressione di oggettiva subordinazione).

Nella direzione di una progressiva attenuazione dell’intensità del potere di controllo e direttiva vanno anche alcune sentenze di legittimità rese in contesti lavorativi di natura intellettuale, caratterizzati da prestazioni particolarmente tecniche, ove la Cassazione rileva, con estrema linearità logica, che le direttive, sintomo di subordinazione, non necessariamente devono riguardare la prestazione in sé stessa, ma possono estrinsecarsi con riferimento esclusivo all’osservanza dell’orario di lavoro ed alla quantità di tempo lavorato quale parametro imprescindibile per la sua traduzione in retribuzione e, dunque, assumere rilevanza esterna alle mansioni effettivamente svolte. (Cfr. Cass. sez. lav. 22.02.2006, n. 3858, la fattispecie riguardava uno studio dentistico e la qualifica del rapporto di lavoro di un odontotecnico).

Ancora in tema di profili professionali di natura elevata, risulta interessante altra decisione di legittimità, ove si afferma che, nell’ipotesi in cui sia particolarmente arduo valutare il nesso oggettivo fra le direttive emanate dal datore di lavoro e le mansioni svolte dal prestatore, subentrano, in misura determinante, i cosiddetti indici sussidiari, la lettura coordinata dei quali può essere posta a base di una riqualificazione in senso subordinato del rapporto di lavoro (Cfr. Cass. civ. sez. lav. 26 ottobre 2004, n. 8804, resa in tema di rapporto di lavoro riguardante una guardia medica presso casa di cura, affermativa della natura subordinata dello stesso; in tal senso, con analoga motivazione tesa a dare spazio determinante agli indici sussidiari, si veda anche Cass. civ. sez. lav. 29 marzo 2004, n. 6224, resa in tema di rapporto lavorativo, intercorrente fra un insegnante ed un istituto scolastico privato, riqualificato in senso subordinato, pur in presenza di una volontà contrattuale, di entrambe le parti, che deponeva nel senso di ritenere autonomo il rapporto oggetto di causa ).

Nella prospettiva di una sempre minor rilevanza della subordinazione si pone anche un’altra sentenza di legittimità che, riconoscendo il limite probatorio del potere direttivo in alcuni lavori particolari, non ha esitato nel confermare la natura subordinata del rapporto di un istruttore di nuoto, il quale prestava la sua attività tutti i giorni, nella fascia oraria pomeridiana, ma in evidente assenza di direttive da parte del datore di lavoro. La Suprema Corte ha ritenuto più che sufficiente, nella fattispecie, la messa a disposizione delle proprie capacità tecniche, la misura fissa della retribuzione e l’osservanza di un orario, oltre naturalmente all’inserimento strutturale del lavoratore nell’impianto sportivo (Cfr. Cass. civ. sez. lav. 18 giugno 1998, n. 6114).

Di particolare pregio è una recente sentenza di legittimità che percorre la linea argomentativa della progressiva attenuazione del potere direttivo quando lo stesso deve confrontarsi con mansioni di livello molto semplice, con tratti ripetitivi senza alcun profilo di complessità intellettuale; in tale fattispecie la Corte suprema, con un’interpretazione che evolve verso una diversa (e più corretta) lettura dell’art. 2094, afferma la non necessità di direttive e controlli continui da parte del committente affinché possano integrarsi i tratti della subordinazione (Cass. civ. sez. lav. 19 gennaio 2010, n. 794; si trattava di personale addetto alla bollinatura di prodotti farmaceutici, non regolarizzato come dipendente subordinato ed inquadrato, invece, in tal senso dall’Inps. Il ricorso dell’azienda, pertanto, è stato respinto).

Nella medesima linea tematica dell’appena citata sentenza, si pone anche un’altra Cassazione. civ. sez. lavoro, 30 marzo 2010, che scaturisce da un ricorso in appello dell’Inps avverso una sentenza di 1° grado che aveva annullato il provvedimento di recupero contributivo dell’Ente. Vale la pena riportare per esteso alcuni importanti passi: “Si deve premettere che non viene censurato l’accertamento di fatto compiuto dal giudice del merito nei termini seguenti: i due lavoratori(...)erano addetti all’imbottigliamento e all’imballaggio di liquori; l’amministratrice della società (...) provvedeva alla programmazione della produzione in base agli ordini, fissando le scadenze; la lavorazione consisteva in attività semplici e ripetitive, per le quali non erano richiesti interventi e indicazioni del datore di lavoro; i lavoratori osservavano un orario flessibile, ma l’attività, ai fini del rispetto delle scadenze, richiedeva di norma una prestazione di otto ore giornaliere per cinque giorni; la retribuzione aveva cadenza mensile e l’importo era fisso.(...)Nondimeno, viene altresì precisato che l’esistenza del vincolo di subordinazione va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito; e, proprio in relazione alle difficoltà che non di rado si incontrano nella distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato alla luce dei principi fondamentali ora indicati, si è ritenuto che in tale ipotesi è legittimo ricorrere a criteri distintivi sussidiari, quali la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale, ovvero l’incidenza del rischio economico, l’osservanza di un orario, la forma di retribuzione, la continuità delle prestazioni e via di seguito (v. per tutte, Cass. 27 marzo 2000, n. 3674; Cass. 3 aprile 2000, n. 4036, cit.)”.

Questo breve excursus consente di dare atto alla Corte di Cassazione, sezione lavoro, di essersi profusa in un intelligente, sebbene non agevole ed ancora in itinere, sforzo interpretativo per tentare di riavvicinare l’art. 2094 alla realtà operativa odierna.

Osservazioni sui criteri di ripartizione dell’onere della prova della subordinazione: profili amministrativi e civilistici

Sul tema dell’onere della prova è opportuno tener separati due aspetti decisivi, sebbene reciprocamente intersecantesi, ossia quello civilistico e quello amministrativo-pubblicistico. Com’è noto il rapporto di lavoro ha natura giuridica composita e non omogenea. In parte esso è fonte di obbligazioni corrispettive che traggono disciplina dalla contrattazione collettiva, integrativa – entrambe derogabili in melius dalle parti - ed individuale, in parte è disciplinato dalle leggi dello Stato che curano i profili di tutela dell’interesse generale, sino a configurare l’indisponibilità assoluta di taluni diritti, ad esempio quelli connessi alla contribuzione previdenziale. Ne deriva che in tema di ripartizione dell’onere probatorio, con particolare riferimento al requisito della subordinazione, sarebbe necessario distinguere l’ambito di natura privatistica - con le conseguenti prevalenti pretese di natura economico-contrattuale - dove datore di lavoro e lavoratore sono in posizione di parità, dal terreno più strettamente amministrativo nel quale, invece, subentra l’interesse pubblico al corretto svolgimento del rapporto di lavoro in relazione ai suoi aspetti fiscali, previdenziali ed assicurativi, per i quali sia il lavoratore e sia il datore non hanno, in linea generale, alcuna facoltà di natura negoziale o potere dispositivo.

Così, sul piano del diritto civile l’eventuale diverso inquadramento contrattuale, invocato in sede giurisdizionale dal lavoratore - nel presupposto naturalmente che vi sia stata una formale assunzione e che di essa abbiano comunque conoscenza le istituzioni - non può essere provato se non dallo stesso lavoratore, ricadendo completamente su quest’ultimo il relativo onere della prova. In sede di accertamento amministrativo, con l’emersione delle norme di diritto pubblico, invece, occorre distinguere le seguenti due ipotesi.

La prima: è l’ipotesi di un illegittimo inquadramento giuridico del lavoratore, poiché, ad esempio, quest’ultimo è stato assunto con un contratto a progetto oppure con un contratto intermittente o con altre tipologie, non corrispondenti al concreto rapporto accertato e tuttavia, sono stati assolti tutti gli obblighi di comunicazione agli enti. In tal caso l’onere della prova della subordinazione ricadrà sugli organi ispettivi, i quali dovranno far convergere gli elementi di prova nella direzione della natura subordinata del rapporto, al fine di renderla credibile. Analogo criterio deve essere adottato quando è il lavoratore a domandare una diversa qualificazione normativa del suo rapporto, come già sopra accennato. Tutto ciò in considerazione di una corretta applicazione dei principi in materia di onus probandi che fanno ricadere quest’ultimo su chi afferma (o nega) l’esistenza di una determinata situazione di fatto e di diritto.

La seconda, ben più complessa: qualora gli organi amministrativi ispettivi accertino una presenza lavorativa, non risultante da scritture o da altra documentazione obbligatoria e, soprattutto, non comunicata agli enti preposti a ricevere i dati anagrafici, previdenziali, assicurativi e fiscali della stessa – né diversamente si integri una prestazione di lavoro autonomo, dunque una soggettività fiscale con apertura di partita Iva, emissione di fatture attive e/o passive, volume d’affari ed altro – ebbene in questa ipotesi non v’é alcun onere della prova della subordinazione da assolvere da parte degli organi procedenti.

In sede giudiziaria, pertanto, dovrà ricadere esclusivamente sul datore di lavoro l’onere di dover dimostrare la legittimità della presenza lavorativa oggetto di contenzioso: in tal senso, la mera consegna al prestatore di lavoro di lettere d’incarico, la consegna della stessa lettera di assunzione ovvero di un contratto scritto - oppure di altra documentazione di natura privata - sono tutti comportamenti che restano nella linea di confine che delimita l’ambito civilistico, se non preceduti dalla comunicazione obbligatoria al Centro per l’impiego anticipata di almeno un giorno rispetto a quello del reale inizio della prestazione, quindi non legittimano alcuna presenza lavorativa. Il lavoratore che dovesse trovarsi in questa situazione deve essere, pertanto, considerato del tutto in nero o sommerso e non solo irregolare. C’è, infatti, differenza fra i due termini, anche se spesso nel linguaggio corrente vi possano essere improprie sovrapposizioni di significato. Il lavoratore considerato in nero è colui che risulta completamente al fuori della legge né i suoi dati anagrafici ed il tipo di attività che svolge (e, soprattutto a vantaggio di chi è prestata) sono conosciuti dagli enti preposti; il lavoratore irregolare è, invece, conosciuto dagli enti, ma esprime un margine più o meno grave d’illegalità, spesso reiterato nel tempo, perché ad esempio è un lavoratore intermittente mentre si reca tutti i giorni a lavorare, perché è un lavoratore a progetto ma senza progetto, perché è un lavoratore part-time, ma il suo orario effettivo è pieno, perché è un lavoratore accessorio, ma senza i presupposti di cui all’art. 70 del D.lgs 276/2003, come modificato dalla Legge n. 33/2009. Le fattispecie concrete sono talmente tante da essere vana la pretesa di confinarle in un elenco tassativo.

Le conseguenze sanzionatorie, nella prima ipotesi, sono previste e disciplinate dall’art. 36 bis DL. 223/2006, convertito in L. 248/2006 (sanzione amministrativa ridotta pari ad euro 3.000,00 più 150,00 per ogni giorno di lavoro accertato), ancora dall’art. 14 del D.lgs. 81/2008 (eventuale provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale, qualora si integri il presupposto di un numero di lavoratori non in regola pari o superiore alla percentuale del 20% del totale dei lavoratori presenti ed identificati sul luogo di lavoro) nonché dall’art. 13 del D.lgs 124/2004 (provvedimento di diffida obbligatoria finalizzato, in questo caso, alla regolarizzazione del lavoratore non conosciuto dalle istituzioni competenti), oltre alle eventuali sanzioni irrogate dagli enti previdenziali.

Il tema dell’onere probatorio va analizzato con attenzione perché talora possono determinarsi equivoci, a volte ben visibili in talune scelte giurisdizionali di merito, circa il corretto governo dei principi generali dell’ordinamento in tale materia. Di fatto, il percorso ricostruttivo che dovrebbe guidarci nel risolvere eventuali incertezze sul tema probatorio, con riguardo all’ipotesi appena descritta, può trarre origine nell’articolo 2126 del Codice civile (prestazioni di fatto con violazione di legge). Questa importantissima norma, di natura eccezionale, rende inefficaci le conseguenze della nullità o annullabilità del contratto di lavoro, (salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa) rispetto allo svolgimento concreto del rapporto stesso ed ai diritti che di fatto possono essere maturati nel frattempo. A conferma dell’assunto di cui al 1° comma, la norma, nel 2° comma, accentua tale scelta confermando che in ogni caso il prestatore ha sempre diritto alla retribuzione, pur se abbia lavorato in un contesto di violazione delle norme poste a tutela dello stesso lavoratore: si pensi, ad esempio, all’attività di lavoro svolta da un minore pur in presenza di un divieto ex legge n.977/67. L’art. 2126, quindi, supporta la natura sinallagmatica del rapporto di lavoro in misura tale da non farla venir meno, a maggior ragione quando vi siano state violazioni della normativa posta a tutela non tanto (o non solo) del lavoratore in sé, quanto degli interessi generali dello Stato e dei valori costituzionalmente rilevanti, fra i quali c’è sicuramente la retribuzione ex art. 36 della Costituzione.

Pertanto, sotto il profilo logico-formale, non disgiunto da una posizione giuridica sostanziale, ne discende che i criteri di ripartizione dell’onere della prova dovrebbero declinare in favore del lavoratore, rendendone tecnicamente più leggera la posizione processuale. Nel quadro di una situazione lavorativa di fatto, con relativa illegittimità sopravvenuta degli atti negoziali presupposti (è il caso appunto dell’art. 2126), ovvero nell’ambito di una situazione d’illegittimità originaria della prestazione lavorativa effettuata, laddove sono del tutto assenti gli adempimenti obbligatori per l’avviamento al lavoro (Cfr. artt. 1 e 9 bis, comma 2 della L. 28.11.1996, n. 608, così come modificato dall’art. 1, comma 1180, della L. 27.12.2006, n. 296), è sempre il datore di lavoro a dover assolvere tale onere probatorio dimostrando che, invece, la prestazione è stata effettuata contro la sua volontà, a sua insaputa o per cause a lui non imputabili (eccezionali) ovvero dovrà provare i fatti estintivi dell’obbligazione nata dal rapporto lavorativo di fatto. Il lavoratore avrà soltanto l’onere di allegare la fonte negoziale o legale del suo diritto e nell’ipotesi di cui si discute, la fonte è legale perché è l’art. 2126, a monte, a risolvere il conflitto (6).

Generalmente un rapporto di lavoro ha ad oggetto una prestazione effettivamente resa, con i presupposti che l’ordinamento considera indefettibili, salvo circostanze che non la rendano neppure identificabile come tale ed allora ci si confronterebbe, in tal caso, con un rarissimo ed irrilevante spazio pre-giuridico: ad esempio, in un’abitazione di proprietà di tizio, quest’ultimo si fa aiutare gratuitamente (ed esclusivamente) da un amico a traslocare mobili da un’altra abitazione, ma in virtù di un rapporto di cortesia, tuttavia da accertare nella sua corrispondenza al vero. Al fine di dissolvere qualsiasi opacità di fondo su questo tema delicato, sembra evidente che quando il rapporto di lavoro si svolga al di fuori della disciplina legale e quando è assente anche il nomen iuris del rapporto che le parti avrebbero dovuto dare a termini di legge, allora la subordinazione dovrebbe considerarsi integrata e rafforzata da una presunzione relativa, seguendo i criteri di ripartizione dell’onere della prova sopra descritti. Ciò tanto nel caso in cui una delle parti in giudizio sia il lavoratore, quanto in quello in cui una delle parti sia lo Stato che agisce mediante i propri funzionari ispettivi i quali con determinati provvedimenti nominati e tipici possono dare una qualifica giuridica al rapporto di lavoro, non data dalle parti (7). La ratio di tale percorso argomentativo risiede nella esigenza di tutelare interessi superiori della collettività gravemente lesi da prestazioni lavorative rese senza copertura legale. L’art. 2126, ponendosi in un ambito civilistico puro, ad un certo momento ne esce, segnando il percorso che ci conduce nell’alveo delle norme di natura pubblica.

Pur non essendo questa la sede per analizzare i complessi profili del provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale, poco sopra marginalmente citato, ciò che interessa, in questo spazio di sintesi conclusiva, è comprendere come anche le stesse norme contenute nell’art. 14 del D.lgs. 81/2008 (8), svolgano una funzione importante nel senso dell’inversione dell’onere della prova, poiché il provvedimento di cui si discute potrà essere annullato qualora, entro le 12 del giorno successivo alla sua emissione, il datore di lavoro, talora di fatto impossibilitato nel momento dell’accesso ispettivo (ma accade molto di rado), dimostri agli organi competenti (9) che l’assunzione del lavoratore era già avvenuta a termini di legge prima del loro intervento.

Va considerato anche che il predetto articolo 14, prevede espressamente la revoca della sospensione (10), nell’ipotesi in cui il datore di lavoro versi una sanzione aggiuntiva oltre ad effettuare tutti gli adempimenti necessari ad eliminare le violazioni connesse ad una presenza lavorativa illegale, concretamente assumendo a termini di legge il lavoratore sommerso. Sembra evidente, quindi, che un conto è annullare, in autotutela, il provvedimento dopo la dimostrazione ex post di una situazione lavorativa ab origine regolare, saremmo nel quadro di un ordinario vizio di legittimità con le relative conseguenze, altro è adottare un provvedimento di revoca il quale presuppone la perfetta legittimità ed efficacia del provvedimento interdittivo adottato poiché ne sussistevano, all’atto dell’emissione, tutti i presupposti di legge. La revoca, pertanto, nel caso di cui si discute, esprime la sua ragion d’essere nella necessaria eliminazione, ma solo ex nunc, degli effetti di un provvedimento che ha modificato la realtà, determinando il ripristino della legalità. Una volta emesso il provvedimento di revoca della sospensione, quest’ultima non avrà più alcun effetto per il futuro, nel senso che si riespande il diritto soggettivo del datore di lavoro ad esercitare liberamente la propria attività d’impresa nell’unità produttiva interessata dalla sospensione, ma la revoca determinerà anche il consolidamento di posizioni giuridiche soggettive attive e passive, tanto nella sfera del lavoratore quanto in quella del datore di lavoro.

Osservazioni conclusive

Non devono essere sottovalutati i profondi mutamenti normativi intervenuti negli ultimi anni in materia di lavoro, neppure essi devono essere letti in modo non coordinato con i principi fondamentali del diritto civile e del diritto amministrativo. Non sembra essere più agevole intraprendere contenziosi giudiziari, soprattutto in tema di qualificazione del rapporto lavorativo, a volte risolti sulla base di valutazioni giurisdizionali con tratti interpretativi piuttosto soggettivi: ne è prova l’ingente numero di sentenze correttive della Cassazione, come già rilevato. La situazione è molto più chiara, oggi, nel confronto con il panorama normativo di alcuni anni fa. L’ambito delle varie tipologie di lavoro, pur restando variegato, si restringe sempre di più intorno a due macro categorie, almeno dal punto di vista della regolarità dell’avviamento al lavoro: da un lato il lavoro subordinato, nel quale vanno ricomprese, in relazione agli obblighi di comunicazione, anche le tipologie parasubordinate, o di natura intermedia, contemplate nel D.lgs 276/03 (collaborazioni a progetto, collaborazioni occasionali, lavoro accessorio, ad esempio), dall’altro lato il lavoro autonomo, per il quale sono previsti ugualmente precisi adempimenti di natura formale e sostanziale che, se non assolti, lo ricondurrebbero automaticamente al lavoro subordinato o parasubordinato. Non può né deve lasciarsi spazio all’autonomia privata nell’ambito del rapporto di lavoro, oltre i limiti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

In diversi ed importanti paesi europei non è presente una descrizione normativa e generale del rapporto di lavoro subordinato (Francia e Germania), in altri invece esiste una specifica legislativa in tal senso (Belgio, Portogallo, Austria, ad esempio). Sarebbe necessario, senza acquisire in automatico scelte legate a realtà economico-sociali diverse dalla nostra, adeguare le norme più risalenti per fare in modo da renderle più facilmente coordinabili con la vasta stratificazione normativa degli ultimi anni, con l’evidente finalità di ridurre il più possibile i margini di elusione ed evasione che traggono fonte dal lavoro irregolare e sommerso.

Dal quadro complessivo, normativo e giurisprudenziale, emerge, dunque, un progressivo superamento della tematica della subordinazione e del relativo onere probatorio, soprattutto nell’ipotesi di lavoro sommerso con scelte effettuate preliminarmente, a monte, dallo stesso legislatore.



(1) Nel noto saggio Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale (1934) Simone Weil (1909-1943), nel quadro di un’angosciante analisi delle condizioni del lavoro del suo tempo, ebbe ad affermare “(...) un pescatore che lotta contro le onde e il vento nella sua piccola imbarcazione, benché soffra per il freddo, la fatica, la mancanza di agi e ancora per il sonno, per i pericoli e per un livello di vita così primitivo, ha un destino più invidiabile dell’operaio, che lavora alla catena, anche se meglio soddisfatto in quasi tutte le sue esigenze. E ciò perché il suo lavoro è molto più vicino al lavoro di un uomo libero”. Alla Weil dobbiamo una delle più lucide analisi del valore lavoro e della dimensione, talora drammatica, da esso manifestata nella società industriale avanzata; il suo merito fu quello di aver ricollocato l’attenzione sulla necessità di considerare il lavoro non in funzione della mera e prevaricante produzione di beni materiali, bensì in funzione della centralità dell’uomo in quanto tale. Nel lungo corso del Novecento, Hannah Arendt (1906-1975), anche lei intellettuale con origini nell’agiata borghesia, ci propone una profonda riflessione sul lavoro in una delle sue opere più rilevanti, Vita activa: la condizione umana (1958). Di quest’ultima alcuni passi, quasi profetici ad avviso di chi scrive, meritano di essere letti, proprio per comprendere meglio come il problema lavoro, durante il secolo scorso, abbia subito un’evoluzione, con accelerazioni ancora in corso:“(...) Decisivo è l’avvento dell’automazione, che in pochi decenni vuoterà probabilmente la fabbriche e libererà il genere umano da suo più antico e più naturale fardello, il giogo del lavoro e la schiavitù della necessità (...). Tuttavia è così solo in apparenza. L’età moderna ha comportato (...) una glorificazione teoretica del lavoro, e di fatto è sfociata in una trasformazione dell’intera società in una società di lavoro. La realizzazione del desiderio, però, come avviene nelle fiabe, giunge al momento in cui può essere solo una delusione. E’ una società di lavoratori quella che sta per essere liberata dalla pastoie del lavoro, ed è una società che non conosce più quelle attività superiori e più significative in nome delle quali tale libertà meriterebbe di essere conquistata”.

(2) Nei tre articoli riportati di seguito, inseriti nel Codice civile del 1865, il legislatore evitò di descrivere, sia pur sommariamente, la nozione di subordinazione ed il punto n. 1 dell’art. 1627 ne è in particolare la prova oggettiva, esprimendo la volontà di ricondurre la generalità delle prestazioni lavorative al concetto di obligatio est iuris vinculum, ma senza la fissità normativa della struttura e del modo di configurarsi di tale obbligazione.

Art. 1570 “ La locazione delle opere è un contratto, per cui una delle parti si obbliga a fare per l’altra una cosa mediante la pattuita mercede”.

Art. 1627 “ Vi sono tre principali specie di locazioni di opere e d’industria:

1) quella per cui le persone obbligano la propria opera all’altrui servizio;

2) quella de’ vetturini sì per terra come per acqua, che si incaricano del trasporto delle persone o delle cose;

3) quella degli imprenditori di opere ad appalto o cottimo”.

Art. 1628 “Nessuno può obbligare la propria opera all’altrui servizio che a tempo, o per una determinata impresa”.

(3) ex plurimis, fra le altre (Corte di Cassazione, sez. lav. – sentenza n. 11936 del 11 settembre 2000, Corte di Cassazione, sez. lav. – sentenza n. 15001 del 21 novembre 2000, nonché Corte di Cassazione, sez. lav. – sentenza n. 9151 del 13 maggio 2004).

(4) Cfr. Circolare n. 17/2006 del Ministero del lavoro nella quale si specifica l’identità dell’attività in bound: “Nelle attività in bound l’operatore non gestisce, come nel caso dell’out bound, la propria attività, né può in alcun modo pianificarla giacché la stessa consiste prevalentemente nel rispondere alle chiamate dell’utenza, limitandosi a mettere a disposizione del datore di lavoro le proprie energie psicofisiche per un dato periodo di tempo”.

(5) Corte di Cassazione, sez. lav. sentenza n. 9812 del 14 aprile 2008, dando una svolta ad annosa problematica, afferma “(...) Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte l’elemento decisivo che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato dal lavoro autonomo è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro ed il conseguente inserimento del lavoratore in modo stabile ed esclusivo nell’organizzazione aziendale. Costituiscono poi indici sintomatici della subordinazione, valutabili dal giudice del merito sia singolarmente che complessivamente, l’assenza del rischio di impresa, la continuità della prestazione, l’obbligo di osservare un orario di lavoro, la cadenza e la forma della retribuzione, l’utilizzazione di strumenti di lavoro e lo svolgimento della prestazione in ambienti messi a disposizione dal datore di lavoro (vedi tra le tante Cass. n. 21028/2006, n. 4171/2006, n. 20669/2004). (...)La Corte territoriale, pertanto, ha fatto buon governo delle prove fondando il proprio convincimento sul verbale ispettivo e sulle dichiarazioni rese dalla dipendente al pubblico ufficiale. D’altro canto non si può dimenticare che la società, la quale ha agito in giudizio per l’accertamento della natura autonoma del rapporto di Lavoro, non ha fornito alcuna prova al riguardo. (...) Il giudice del gravame ha preso in esame le numerose testimonianze raccolte ed i verbali ispettivi ed ha ritenuto elementi qualificanti della subordinazione delle dipendenti con mansioni di telefoniste le circostanze che seguivano le direttive impartite dall’azienda in relazione ad ogni telefonata da svolgere prendendo nota dell’esito e del numero di telefonate, che avevano un preciso orario di lavoro e che utilizzavano attrezzature e materiali di proprietà della società”.

(6) Cfr. Cassazione Sez. Unite, sent. n. 13533/2001: è la più importante sentenza in materia di ripartizione dell’onere della prova degli ultimi dieci anni, poiché risolve, in modo esauriente, il pluriennale dibattito in materia di inadempimento dell’obbligazione e ciò sia quando si agisce per ottenere l’esatto adempimento ex art. 1218 cod. civ. e sia quando l’inadempimento riguardi le obbligazioni negative. Il principio formulato in questa sentenza può risolvere, a parere di chi scrive, anche la fattispecie dell’art. 2126 cod. civ., poiché questa contempla l’inadempimento derivante dal rapporto obbligatorio di fatto, dal quale, come sappiamo, derivano conseguenze per il debitore (datore di lavoro) e per il creditore (lavoratore), laddove il primo agisce per ottenere l’adempimento o l’esatto adempimento, il secondo è citato per rispondere delle conseguenze del suo inadempimento. La sopra citata sentenza, dunque, chiarisce nel modo seguente il problema, affermando “In conclusione, deve affermarsi che il creditore, sia che agisca per l’adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte: sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento”.

(7) Sul tema, del tutto particolare, relativo all’onere della prova nell’accertamento negativo sembra essere degna di nota anche Cassazione civile, sez. lav., 13 dicembre 2004, n. 23229, in Giust. Civ. Mass. 2005, che afferma “l’onere probatorio gravante, a norma dell’art. 2697 c.c., su chi intende far valere in giudizio un diritto, ovvero su chi eccepisce la modifica o l’estinzione del diritto da altri vantato, non subisce deroga neanche quando abbia ad oggetto "fatti negativi", in quanto la negatività dei fatti oggetto della prova non esclude nè inverte il relativo onere, gravando esso pur sempre sulla parte che fa valere il diritto di cui il fatto, pur se negativo, ha carattere costitutivo; tuttavia, non essendo possibile la materiale dimostrazione di un fatto non avvenuto, la relativa prova può esser data mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, od anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo”. Nella specie, la Corte di Cassazione confermava la sentenza di merito con la quale si rigettava la domanda di accertamento negativo circa la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato poiché il ricorrente non aveva provato né chiesto di provare alcun fatto positivo antitetico con quanto, invece, emergeva dal provvedimento ispettivo.

Ad ulteriore conferma della linea argomentativa seguita nel presente contributo, non può trascurarsi neppure la decisione della Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza n. 23206/2009, resa con riguardo alla pregressa normativa sanzionatoria del lavoro irregolare (in ’nero’), già oggetto di intervento della Corte costituzionale con sentenza n. 144 del 2005, con dichiarazione d’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 3, del D.L. n. 12 del 2002, convertito nella Legge n. 73 del 2002, nella parte in cui non prevedeva la possibilità, per il datore di lavoro, di provare che il rapporto di lavoro irregolare avesse avuto inizio successivamente al 1° gennaio dell’anno nel quale è stata elevata contestazione della violazione. Le Sezioni unite civili confermano, dunque, che nell’ipotesi di prestazione lavorativa ’in nero’, l’onere della prova, circa l’esatto inizio della stessa, ricade esclusivamente sul datore di lavoro, in tal modo superando qualsiasi problematica derivante dalla prova della subordinazione.

(8) L’art. 14 del D.lgs 81/2008, come modificato dal D.lgs. 106/2009, afferma quanto segue (si omettono per ragioni di spazio, le parti interessanti la sospensione emessa per violazione delle norme sulla sicurezza) : “Al fine di far cessare il pericolo per la tutela della salute e la sicurezza dei lavoratori, nonché di contrastare il fenomeno del lavoro sommerso e irregolare, ferme restando le attribuzioni del coordinatore per l’esecuzione dei lavori di cui all’articolo 92, comma 1, lettera e), gli organi di vigilanza del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali, anche su segnalazione delle amministrazioni pubbliche secondo le rispettive competenze, possono adottare provvedimenti di sospensione in relazione alla parte dell’attività imprenditoriale interessata dalle violazioni quando riscontrano l’impiego di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al 20 per cento del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro(...).

Il provvedimento di sospensione può essere revocato da parte dell’organo di vigilanza che lo ha adottato.

E’ condizione per la revoca del provvedimento da parte dell’organo di vigilanza del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali di cui al comma 1:

a) la regolarizzazione dei lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra

documentazione obbligatoria;

b) l’accertamento del ripristino delle regolari condizioni di lavoro nelle ipotesi di

gravi e reiterate violazioni della disciplina in materia di tutela della salute e della

sicurezza sul lavoro;

c) il pagamento di una somma aggiuntiva rispetto a quelle di cui al comma 6, pari a 1.500,00 euro nell’ipotesi di sospensione del lavoro irregolare (...)”.

(9) Gli ispettori del lavoro, in servizio presso le Direzioni Provinciali del Lavoro, uffici territoriali del Ministero del lavoro, sono funzionari con responsabilità esterna le cui diverse competenze a rilevanza esterna, descritte dalla legge (Cfr. ad es. il D.lgs 124/2004, art. 7) e dal CCNL di riferimento, li configurano, a parere di chi scrive e per una maggior precisione, come organi amministrativi posti alla base dell’organizzazione. Essi adottano – nell’attenta osservanza di circolari, note e direttive emesse della Direzione Generale dell’Attività Ispettiva del Ministero - diversi tipi di provvedimenti amministrativi (oltre agli atti connessi alla qualifica di ufficiali di polizia giudiziaria) e, fra gli altri, nel caso di cui si discorre, emettono il provvedimento di sospensione valutandone, durante l’accesso e sotto la propria responsabilità, tutti i presupposti di fatto e di diritto, motivandone altresì accuratamente le ragioni. Gli ispettori del lavoro agiscono nell’ambito di un rapporto d’immedesimazione organica (oggi considerato prevalente anche in dottrina: Sandulli, Virga, Quaranta) con l’Ente-persona giuridica, di conseguenza gli atti da essi emessi sono imputabili direttamente a quest’ultimo, salvo, tuttavia, l’art. 28 della Costituzione in ordine alla responsabilità diretta del funzionario per violazione di diritti, che trova riscontro nel D.P.R.n. 3/57. L’ispettore del lavoro è, inoltre, inserito strutturalmente in un rapporto di gerarchia esterna ed in parte interna – espressione tipica del rapporto interorganico - con il Direttore della Direzione Prov.le del Lavoro, organo amministrativo a sua volta e ad esso sovraordinato, al quale la legge in taluni casi, puntualmente previsti, attribuisce, di conseguenza, competenza per ricevere e decidere ricorsi avverso i provvedimenti adottati dall’ispettore (Cfr. ad esempio gli artt. 12 e 14 del D.lgs. 124/04).

Sul rapporto, inoltre, d’immedesimazione organica particolarmente chiara è Cass. Civile, Sez. III, 08/10/2007, sentenza n. 20986, che così si esprime “Affinché ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente - responsabilità il cui fondamento risiede nel rapporto di immedesimazione organica - deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso, anche la riferibilità all’amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l’attività posta in essere dal dipendente sia e si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico, e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto. Tale rifèribilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico che si riveli assolutamente estraneo all’amministrazione - o addirittura contrario ai fini che essa persegue - ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l’attività del dipendente e la P.A.. (Cass. Sentenza n. 24744 del 21/11/2006; cfr. anche Cass. n. 10803 del 12 .08.2000)”.

(10) la revoca, com’è noto, è un provvedimento amministrativo di secondo grado collocabile nel più ampio genus dei provvedimenti di revisione (Galli, Corso di Diritto amministrativo, Cedam 2001). La necessità della revoca ha la sua origine nel mutamento della situazione di fatto oppure in una nuova valutazione dell’interesse pubblico, già oggetto del provvedimento amministrativo interessato; il provvedimento revocatorio ha efficacia ex nunc, a differenza dell’annullamento, ne restano, dunque, confermati gli effetti.