Le pratiche commerciali scorrette tra potere sanzionatorio dell’Autorità Garante e potere repressivo del giudice civile
Il Codice al Consumo (d. lgs. 2005/206) nel recepire al suo interno la Direttiva 2005/29/CE in tema di pratiche commerciali scorrette per una più efficace tutela del consumatore ha inevitabilmente portato delle ricadute in punto di disciplina del mercato e della concorrenza.
Tra queste alcune per il giudice civile in tema di rimedi esperibili avverso la pratica commerciale scorretta (rimedio risarcitorio e/o annullamento del contratto per vizio del consenso?), in tema di disciplina applicabile e infine in tema di coordinamento tra il suo potere repressivo e quello sanzionatorio dell’Autorità Garante della concorrenza [su questo ultimo punto si ripropone in ogni caso la vexata quaestio relativa al ruolo delle authorities e alla loro discussa configurazione quali “magistrature economiche”. Sebbene alcuni ritengano differente il giudizio sulla concorrenza sleale rispetto a quello dell’Antitrust, le norme sostanziali sono da ritenersi identiche, quel che varia o può variare sono le norme processuali e l’interesse tutelato].
Altrettanto rilievo va poi dato alla possibilità di applicare in questo ambito il meccanismo della class action, come regolato dall’art. 140bis del Codice al Consumo.
Una prima difficoltà che l’ordinamento interno presenta riguarda il bene giuridico tutelato: non vi è definizione espressa della concorrenza, si dà il concetto per scontato e si operano una serie di presunzioni (relative) di liceità e illiceità. Se per secoli essa ha significato libertà di vendere e comprare nei mercati, nel tempo si è trasformata in modello antitetico al regime di monopolio quale comportamento artificioso di singoli e gruppi che alterano il mercato (ad oggi l’art. 501bis del cod. pen. sembra essere un reato pressoché dimenticato). Il termine attrae più aggettivi: sleale, scorretta, restrittiva, limitata, illecita, ecc.
La questione quindi si incentra sul “riparto”, anzi per meglio dire sulla “sovrapponibilità” degli interventi tra l’Autorità Garante e il giudice ordinario sia in tema di pratiche commerciali scorrette, quali sono disciplinate dal Codice al Consumo sia in tema di tutela dei segni distintivi (titolati o meno).
Più di preciso, le nuove disposizioni in tema di pratiche commerciali scorrette (e di pubblicità) codificano una sorta di codice di condotta che assume rilievo anche per determinare lo standard della correttezza professionale di tutti gli operatori, sicché rilevano anche ai fini della concorrenza sleale.
L’interferenza tra le norme dei d. lgs. 145 e 146/2007 e quelle in tema di concorrenza e di segni distintivi non viene peraltro ridimensionata neanche dalla circostanza che, mentre la direttiva 2005/29/CE fa riferimento a pratiche commerciali “sleali”, l’attuazione da parte dell’ordinamento italiano fa riferimento al termine “scorrette”, mutuandolo dall’art. 2598 cod. civ. e ciò ha grande rilievo sistematico nonché si presta ad un’ampia sovrapponibilità tra più fattispecie tradizionali di concorrenza sleale che vanno coordinate con i principi di utilità sociale di cui all’art. 41 Cost.
La Direttiva 2005/29/CE all’art. 11 dispone che gli Stati membri “assicurano che esistano mezzi adeguati per combattere le pratiche commerciali sleali” facultando gli Stati stessi di scegliere al riguardo un sistema sia di giurisdizione ordinaria sia di controllo di tipo amministrativo.
Vi è quindi una grande discrezionalità nella scelta dei profili rimediali, che si contrappone al contempo ad una disciplina sostanziale molto analitica. Una norma analoga era già contenuta nella Direttiva CEE 84/450 nella quale il legislatore italiano aveva optato per la soluzione “amministrativa” prevedendo al riguardo – e ampiamente – la competenza dell’AGCM.
Tale scelta ha avuto una ricaduta sulla Direttiva del 2005 sicchè per le pratiche commerciali scorrette si è adottata la suddetta soluzione: il controllo è devoluto all’Autorità Garante della Concorrenza e Mercato, cui è affiancata la possibilita di un controllo contrattualistico di autodisciplina (art. 27ter Cod. Cons.). Si è osservato che la missione dell’AGCM è ormai divenuta proprio la tutela dei consumatori vedendosi ormai diluita la sua configurazione originaria di potere neutrale di garanzia.
Ciò è ancora più vero dopo l’introduzione, ad opera della legge di conversione del d.l. 2012/1, dell’art. 37bis Cod. Cons. “Tutela amministrativa contro le clausole vessatorie”, norma che devolve alla’AGCM la competenza tra la declaratoria di vessatorietà delle clausole inserite nei contratti tra professionisti e consumatori che si concludono tramite adesione o sottoscrizione di contratti, moduli, modelli e formulari.
E’ fatta salva (comma 4) la giurisdizione del giudice ordinario sulla validità delle clausole vessatorie e sul risarcimento del danno, pur restando nell’ambito dell’a.g.o. tutte le garanzie sottese alla fattsispecie. Nella prassi la tutela amministrativa resta “allettante” per le imprese in termini di facilitazioni di costi, rapidità di tempi, ampiezza dei poteriinquisitori della stessa autorità (fino alla possibilità di adottare misure di urgenza da parte della stessa).
Tale scelta non è stata però esente da critiche e perplessità: ci si è chiesti se la tutela rafforzata anche dal punto di vista processuale non perda i vantaggi propri della tutela giurisdizionale ordinaria, con particolare riferimento alla tutela cautelare, alle sanzioni e sul pèiano delle garanzie istruttorie, data la sostanziale estraneità del soggetto denunciante al procedimento nel procedimento amministrativo stesso.
Vi sono state critiche anche verso l’approccio rigido e schematico dell’AGCM e circa la sua obiettività o terzietà, atteso il suo interesse alla irrogazione di sanzioni pecuniarie che in parte ridondano a suo beneficio.
Infine, alcuni ritengono del tutto ingiustificata la generale competenza in materia di pubblicità comparativa.
Tutte queste argomentazioni hanno portato la dottrina ad invocare un controllo “forte” e non “debole” del giudice amministrativo sulle decisioni dell’AGCM, in virtù del dato statistico sui procedimenti quasi sempre conclusi con condanne significative e pesanti che stravolgono la stessa funzione dell’AGCM in paragiurisdizionale e attiva, quale giudice ultimo della tutela concorrenziale.
La concorrenza tra tutele infatti si giustifica solo se il ruolo dell’AGCM resta fermo sulla tutela dei soli interessi generali e diffusi alla correttezza della lotta all’anticoncorrenza, senza trasformarsi in strumento di conflitti interindividuali o tra gruppi determinati. Deve quindi restare questa sorta di “doppio binario” (co-regulation) delle due tutele amministrativa e giurisdizionale, alternative e/o cumulabili.
Il Codice al Consumo (d. lgs. 2005/206) nel recepire al suo interno la Direttiva 2005/29/CE in tema di pratiche commerciali scorrette per una più efficace tutela del consumatore ha inevitabilmente portato delle ricadute in punto di disciplina del mercato e della concorrenza.
Tra queste alcune per il giudice civile in tema di rimedi esperibili avverso la pratica commerciale scorretta (rimedio risarcitorio e/o annullamento del contratto per vizio del consenso?), in tema di disciplina applicabile e infine in tema di coordinamento tra il suo potere repressivo e quello sanzionatorio dell’Autorità Garante della concorrenza [su questo ultimo punto si ripropone in ogni caso la vexata quaestio relativa al ruolo delle authorities e alla loro discussa configurazione quali “magistrature economiche”. Sebbene alcuni ritengano differente il giudizio sulla concorrenza sleale rispetto a quello dell’Antitrust, le norme sostanziali sono da ritenersi identiche, quel che varia o può variare sono le norme processuali e l’interesse tutelato].
Altrettanto rilievo va poi dato alla possibilità di applicare in questo ambito il meccanismo della class action, come regolato dall’art. 140bis del Codice al Consumo.
Una prima difficoltà che l’ordinamento interno presenta riguarda il bene giuridico tutelato: non vi è definizione espressa della concorrenza, si dà il concetto per scontato e si operano una serie di presunzioni (relative) di liceità e illiceità. Se per secoli essa ha significato libertà di vendere e comprare nei mercati, nel tempo si è trasformata in modello antitetico al regime di monopolio quale comportamento artificioso di singoli e gruppi che alterano il mercato (ad oggi l’art. 501bis del cod. pen. sembra essere un reato pressoché dimenticato). Il termine attrae più aggettivi: sleale, scorretta, restrittiva, limitata, illecita, ecc.
La questione quindi si incentra sul “riparto”, anzi per meglio dire sulla “sovrapponibilità” degli interventi tra l’Autorità Garante e il giudice ordinario sia in tema di pratiche commerciali scorrette, quali sono disciplinate dal Codice al Consumo sia in tema di tutela dei segni distintivi (titolati o meno).
Più di preciso, le nuove disposizioni in tema di pratiche commerciali scorrette (e di pubblicità) codificano una sorta di codice di condotta che assume rilievo anche per determinare lo standard della correttezza professionale di tutti gli operatori, sicché rilevano anche ai fini della concorrenza sleale.
L’interferenza tra le norme dei d. lgs. 145 e 146/2007 e quelle in tema di concorrenza e di segni distintivi non viene peraltro ridimensionata neanche dalla circostanza che, mentre la direttiva 2005/29/CE fa riferimento a pratiche commerciali “sleali”, l’attuazione da parte dell’ordinamento italiano fa riferimento al termine “scorrette”, mutuandolo dall’art. 2598 cod. civ. e ciò ha grande rilievo sistematico nonché si presta ad un’ampia sovrapponibilità tra più fattispecie tradizionali di concorrenza sleale che vanno coordinate con i principi di utilità sociale di cui all’art. 41 Cost.
La Direttiva 2005/29/CE all’art. 11 dispone che gli Stati membri “assicurano che esistano mezzi adeguati per combattere le pratiche commerciali sleali” facultando gli Stati stessi di scegliere al riguardo un sistema sia di giurisdizione ordinaria sia di controllo di tipo amministrativo.
Vi è quindi una grande discrezionalità nella scelta dei profili rimediali, che si contrappone al contempo ad una disciplina sostanziale molto analitica. Una norma analoga era già contenuta nella Direttiva CEE 84/450 nella quale il legislatore italiano aveva optato per la soluzione “amministrativa” prevedendo al riguardo – e ampiamente – la competenza dell’AGCM.
Tale scelta ha avuto una ricaduta sulla Direttiva del 2005 sicchè per le pratiche commerciali scorrette si è adottata la suddetta soluzione: il controllo è devoluto all’Autorità Garante della Concorrenza e Mercato, cui è affiancata la possibilita di un controllo contrattualistico di autodisciplina (art. 27ter Cod. Cons.). Si è osservato che la missione dell’AGCM è ormai divenuta proprio la tutela dei consumatori vedendosi ormai diluita la sua configurazione originaria di potere neutrale di garanzia.
Ciò è ancora più vero dopo l’introduzione, ad opera della legge di conversione del d.l. 2012/1, dell’art. 37bis Cod. Cons. “Tutela amministrativa contro le clausole vessatorie”, norma che devolve alla’AGCM la competenza tra la declaratoria di vessatorietà delle clausole inserite nei contratti tra professionisti e consumatori che si concludono tramite adesione o sottoscrizione di contratti, moduli, modelli e formulari.
E’ fatta salva (comma 4) la giurisdizione del giudice ordinario sulla validità delle clausole vessatorie e sul risarcimento del danno, pur restando nell’ambito dell’a.g.o. tutte le garanzie sottese alla fattsispecie. Nella prassi la tutela amministrativa resta “allettante” per le imprese in termini di facilitazioni di costi, rapidità di tempi, ampiezza dei poteriinquisitori della stessa autorità (fino alla possibilità di adottare misure di urgenza da parte della stessa).
Tale scelta non è stata però esente da critiche e perplessità: ci si è chiesti se la tutela rafforzata anche dal punto di vista processuale non perda i vantaggi propri della tutela giurisdizionale ordinaria, con particolare riferimento alla tutela cautelare, alle sanzioni e sul pèiano delle garanzie istruttorie, data la sostanziale estraneità del soggetto denunciante al procedimento nel procedimento amministrativo stesso.
Vi sono state critiche anche verso l’approccio rigido e schematico dell’AGCM e circa la sua obiettività o terzietà, atteso il suo interesse alla irrogazione di sanzioni pecuniarie che in parte ridondano a suo beneficio.
Infine, alcuni ritengono del tutto ingiustificata la generale competenza in materia di pubblicità comparativa.
Tutte queste argomentazioni hanno portato la dottrina ad invocare un controllo “forte” e non “debole” del giudice amministrativo sulle decisioni dell’AGCM, in virtù del dato statistico sui procedimenti quasi sempre conclusi con condanne significative e pesanti che stravolgono la stessa funzione dell’AGCM in paragiurisdizionale e attiva, quale giudice ultimo della tutela concorrenziale.
La concorrenza tra tutele infatti si giustifica solo se il ruolo dell’AGCM resta fermo sulla tutela dei soli interessi generali e diffusi alla correttezza della lotta all’anticoncorrenza, senza trasformarsi in strumento di conflitti interindividuali o tra gruppi determinati. Deve quindi restare questa sorta di “doppio binario” (co-regulation) delle due tutele amministrativa e giurisdizionale, alternative e/o cumulabili.