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Legittimità del licenziamento per giusta causa: violazione del rapporto fiduciario nei confronti del datore di lavoro per comportamenti estranei al lavoro

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 18 settembre 2012, n.15654

Con sentenza n° 15654 del 18 settembre 2012, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che è legittimo il licenziamento per giusta causa (ex art. 2119 c.c. e art. 1 L. 604/1966) basato su un comportamento, quand’anche compiuto al di fuori della prestazione lavorativa, di una gravità tale da violare il rapporto fiduciario nei confronti del datore di lavoro e comportare notevoli pregiudizi per gli scopi aziendali.

Con ricorso al Tribunale di Napoli, il lavoratore aveva impugnato il licenziamento intimatogli in data 17.07.2005 dal datore di lavoro, a conclusione di un procedimento disciplinare nel quale gli venivano contestate diverse irregolarità riferite ad operazioni compiute sul conto corrente a lui intestato: nello specifico, al dipendente bancario era stato contestato di aver incassato diversi assegni non trasferibili, di cui alcuni intestati alla madre, e sottoscritti dallo stesso, falsificando la firma del genitore; in aggiunta, secondo le verifiche effettuate dalla Banca, sul conto corrente del dipendente era emersa una movimentazione incoerente con il suo status, significativamente rilevante anche ai sensi della normativa antiriciclaggio.

In primo grado la domanda era stata rigettata; tuttavia la sentenza è stata successivamente riformata in secondo grado dalla Corte d’Appello di Napoli, che ha dichiarato illegittimo il licenziamento e ha ordinato la reintegrazione del lavoratore (ex art. 18 della L. 300/1970) ritenendo i comportamenti suddetti non giustificativi dell’irrogazione della massima sanzione disciplinare.

Contro quest’ultimo provvedimento, hanno proposto ricorso per cassazione il datore di lavoro (Banca) in via principale e il lavoratore, chiamato in causa, in via incidentale.

Entrando nel merito del ricorso in via principale, sono tre i motivi che vale la pena esaminare in questa sede:

1) Nel primo, si ravvisa violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata relativamente all’affermazione della Corte d’Appello, secondo la quale i comportamenti contestati al lavoratore, riferibili alla posizione di cliente/correntista, non incidevano sull’obbligo di diligenza e di fedeltà all’azienda in qualità di dipendente. Nello specifico si ravvisa che tale giudizio sia erroneo e affetto da vizio logico, dato che l’utilizzo anomalo del conto corrente in violazione della normativa antiriciclaggio e del codice di comportamento interno della Banca costituisce uno specifico inadempimento contrattuale.

2) Nel secondo, si ravvisa violazione di legge e vizio di motivazione su fatti controversi e decisivi ai fini del giudizio, per avere la Corte d’Appello omesso di considerare che la normativa della Banca d’Italia in materia di antiriciclaggio e il codice di comportamento interno della ricorrente costituivano fonti di precisi obblighi per il dipendente da osservare in sé e

a prescindere dall’accertamento.

3) Nel terzo, si ravvisa error in iudicando e vizio di motivazione, sostenendo che la Corte d’Appello non aveva debitamente valutato, ai fini della compromissione dell’elemento fiduciario, la rilevanza di due tipologie di infrazioni come l’apposizione di firme false su una pluralità di assegni bancari e l’irregolare negoziazione degli stessi. Infatti nello specifico si ritiene che la Corte abbia omesso di considerare che non è consentito ad un dipendente bancario, la cui condotta deve essere improntata a criteri di trasparenza, apporre firme false e compiere a proprio vantaggio operazioni irregolari.

La Suprema Corte ha dichiarato fondati tutti i motivi (compresi quelli citati) evidenziando il principio, più volte affermato dalla stessa, che nel settore del credito, l’elemento fiduciario assume particolare rilievo in quanto assicura la lealtà e la correttezza dei funzionari nei confronti del datore di lavoro; nell’ipotesi del dipendente di un istituto di credito, l’idoneità del comportamento atto a ledere il rapporto fiduciario deve essere valutata con particolare rigore, anche a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro.

Da ciò si evince come, in caso di licenziamento per giusta causa, debba essere considerato ogni comportamento che, per la sua gravità, sia idoneo a compromettere la fiducia nei confronti del datore di lavoro e sia pregiudizievole per il perseguimento degli scopi aziendali a causa di una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti (Cass. 17514/2010); in tale contesto può assumere rilievo disciplinare anche una condotta che, seppure compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia idonea ad arrecare un pregiudizio non necessariamente di ordine economico, tra cui rientra sicuramente l’obbligo istituzionale dell’azienda di osservare e applicare la normativa della Banca d’Italia in materia di antiriciclaggio.

Alla luce di queste considerazioni, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata e rinviato per la decisione alla stessa Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione.

Con sentenza n° 15654 del 18 settembre 2012, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che è legittimo il licenziamento per giusta causa (ex art. 2119 c.c. e art. 1 L. 604/1966) basato su un comportamento, quand’anche compiuto al di fuori della prestazione lavorativa, di una gravità tale da violare il rapporto fiduciario nei confronti del datore di lavoro e comportare notevoli pregiudizi per gli scopi aziendali.

Con ricorso al Tribunale di Napoli, il lavoratore aveva impugnato il licenziamento intimatogli in data 17.07.2005 dal datore di lavoro, a conclusione di un procedimento disciplinare nel quale gli venivano contestate diverse irregolarità riferite ad operazioni compiute sul conto corrente a lui intestato: nello specifico, al dipendente bancario era stato contestato di aver incassato diversi assegni non trasferibili, di cui alcuni intestati alla madre, e sottoscritti dallo stesso, falsificando la firma del genitore; in aggiunta, secondo le verifiche effettuate dalla Banca, sul conto corrente del dipendente era emersa una movimentazione incoerente con il suo status, significativamente rilevante anche ai sensi della normativa antiriciclaggio.

In primo grado la domanda era stata rigettata; tuttavia la sentenza è stata successivamente riformata in secondo grado dalla Corte d’Appello di Napoli, che ha dichiarato illegittimo il licenziamento e ha ordinato la reintegrazione del lavoratore (ex art. 18 della L. 300/1970) ritenendo i comportamenti suddetti non giustificativi dell’irrogazione della massima sanzione disciplinare.

Contro quest’ultimo provvedimento, hanno proposto ricorso per cassazione il datore di lavoro (Banca) in via principale e il lavoratore, chiamato in causa, in via incidentale.

Entrando nel merito del ricorso in via principale, sono tre i motivi che vale la pena esaminare in questa sede:

1) Nel primo, si ravvisa violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza impugnata relativamente all’affermazione della Corte d’Appello, secondo la quale i comportamenti contestati al lavoratore, riferibili alla posizione di cliente/correntista, non incidevano sull’obbligo di diligenza e di fedeltà all’azienda in qualità di dipendente. Nello specifico si ravvisa che tale giudizio sia erroneo e affetto da vizio logico, dato che l’utilizzo anomalo del conto corrente in violazione della normativa antiriciclaggio e del codice di comportamento interno della Banca costituisce uno specifico inadempimento contrattuale.

2) Nel secondo, si ravvisa violazione di legge e vizio di motivazione su fatti controversi e decisivi ai fini del giudizio, per avere la Corte d’Appello omesso di considerare che la normativa della Banca d’Italia in materia di antiriciclaggio e il codice di comportamento interno della ricorrente costituivano fonti di precisi obblighi per il dipendente da osservare in sé e

a prescindere dall’accertamento.

3) Nel terzo, si ravvisa error in iudicando e vizio di motivazione, sostenendo che la Corte d’Appello non aveva debitamente valutato, ai fini della compromissione dell’elemento fiduciario, la rilevanza di due tipologie di infrazioni come l’apposizione di firme false su una pluralità di assegni bancari e l’irregolare negoziazione degli stessi. Infatti nello specifico si ritiene che la Corte abbia omesso di considerare che non è consentito ad un dipendente bancario, la cui condotta deve essere improntata a criteri di trasparenza, apporre firme false e compiere a proprio vantaggio operazioni irregolari.

La Suprema Corte ha dichiarato fondati tutti i motivi (compresi quelli citati) evidenziando il principio, più volte affermato dalla stessa, che nel settore del credito, l’elemento fiduciario assume particolare rilievo in quanto assicura la lealtà e la correttezza dei funzionari nei confronti del datore di lavoro; nell’ipotesi del dipendente di un istituto di credito, l’idoneità del comportamento atto a ledere il rapporto fiduciario deve essere valutata con particolare rigore, anche a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro.

Da ciò si evince come, in caso di licenziamento per giusta causa, debba essere considerato ogni comportamento che, per la sua gravità, sia idoneo a compromettere la fiducia nei confronti del datore di lavoro e sia pregiudizievole per il perseguimento degli scopi aziendali a causa di una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti (Cass. 17514/2010); in tale contesto può assumere rilievo disciplinare anche una condotta che, seppure compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia idonea ad arrecare un pregiudizio non necessariamente di ordine economico, tra cui rientra sicuramente l’obbligo istituzionale dell’azienda di osservare e applicare la normativa della Banca d’Italia in materia di antiriciclaggio.

Alla luce di queste considerazioni, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata e rinviato per la decisione alla stessa Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione.