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L’evoluzione giurisprudenziale in materia di colpa medica

Il testo ripercorre brevemente le tappe fondamentali dell’evoluzione della giurisprudenza nel settore della responsabilità medica, con particolare riferimento alle condotte colpose.

Il tema della responsabilità in ambito sanitario non è solo di natura giuridica ma rappresenta un problema di carattere sociale. Sin dalle origini il rapporto medico-paziente è stato caratterizzato da un’ambivalenza di fondo: si assiste infatti, da un lato, ad un atteggiamento positivo e fiducioso nei confronti della medicina, dall’altro, si rileva una sorta di riprovazione di fronte all’insuccesso di una terapia che si finisce con l’addebitare, sempre e comunque, al sanitario.

Negli ultimi anni si è assistito, in questo settore, ad un notevole aumento del contenzioso, sia civile che penale, dovuto, per un verso, alla presa di coscienza da parte della collettività del diritto alla salute (grazie anche all’attività di sensibilizzazione da parte di molteplici associazioni tra cui il “Tribunale dei diritti del malato”), per altro verso, all’aumento delle patologie curabili e alla c.d. ipermedicalizzazione della società, ovvero al diffondersi di terapie in realtà poco utili ma ugualmente rischiose.

Sul versante civilistico la responsabilità del medico è stata originariamente inquadrata nel modello della responsabiltà aquiliana ex art. 2043 c.c., per poi passare, dapprima, ad un regime in cui responsabiltà contrattuale ed extracontrattuale si cumulavano e approdare, infine, all’attuale modello della responsabiltà contrattuale.

Sul versante penalistico la giurisprudenza ha seguito due linee di tendenza: il fondamento della liceità dell’attività medica (e quindi il consenso informato) e il rapporto tra medico e paziente, con particolare riferimento alla colpa professionale e al nesso di causalità e alla posizione di garanzia rispetto alle condotte omissive dei sanitari.

Riguardo alla colpa medica l’evoluzione giurisprudenziale si è orientata ad una tutela dei diritti del paziente sempre più incisiva, assumendo un atteggiamento di maggior rigore nei confronti dei medici, venendo, in tal modo a svolgere un ruolo suppletivo rispetto alla carenza di specifici riferimenti normativi all’attività medica.

Prima di esaminare le principali tappe del suddetto percorso evolutivo della giurisprudenza occorre premettere alcuni cenni sulle peculiarità che caratterizzano le condotte colpose nell’ambito delle attività medico-chirurgiche.

Nel nostro ordinamento la condotta colposa è connotata da due requisiti essenziali: uno di carattere negativo, ovvero la non volontà dell’evento (o assenza di dolo); l’altro di carattere positivo, che ricollega la verificazione dell’evento ad una condotta colposa in quanto negligente, imprudente o imperita (colpa generica) ovvero posta in essere non osservando leggi, regolamenti, ordini e discipline (colpa specifica). Le fonti delle regole cautelari, che vanno individuate all’interno di un sistema normativo di riferimento a cui la disposizione rinvia, sono accomunate dallo scopo che le caratterizza: si tratta della finalità cautelare, ovvero il rispetto delle stesse serve ad evitare la realizzazione di eventi dannosi o pericolosi. Quindi la tipicità della colpa si connota come realizzazione di un fatto che, alla luce delle regole cautelari, doveva essere evitato.

L’attività medico-chirurgica è caratterizzata dalla presenza, oltre che di regole di comune diligenza e prudenza, di regole tecniche in prevalenza non scritte, la cui violazione è fonte di imperizia e per la cui individuazione la giurisprudenza e la dottrina utilizzano i criteri della prevedibilità ed evitabilità dell’evento, a loro volta rapportati al parametro dell’agente modello (il c.d. homo eiusdem professionis et condicionis). Occorre precisare che, accanto a regole tecniche di natura consuetudinaria, esistono regole di valenza ancora sperimentale: in questi casi l’individuazione della regola cautelare è tutt’altro che agevole. Con riferimento al contenuto delle regole cautelari queste possono imporre al medico un dovere di astenersi ovvero un dovere di attivarsi: nell’ambito di queste ultime la condotta può avere anche natura omissiva. Fra l’altro bisogna sottolineare la tendenza a “formalizzare” le regole dell’arte medica attraverso l’individuazione delle c.d. linee guida o protocolli diagnostici e terapeutici. Il dibattito sulla natura ed efficacia giuridica delle stesse è ancora aperto: esse potrebbero rientrare nel concetto di discipline di cui all’art. 43 c.p. e costituire quindi il presupposto per un addebito di colpa specifica oppure costituire dei criteri per valutare l’esistenza della colpa generica. In dottrina e in giurisprudenza prevale, in proposito, un atteggiamento piuttosto equilibrato affermandosi che, tenuto conto delle peculiarità del caso singolo e delle differenti caratteristiche di ogni paziente, le linee guida, per quanto specifiche e dettagliate, non possono essere considerate del tutto esaustive con la conseguenza della irrinunciabilità al paradigma dell’agente modello. Naturalmente ai fini del rimprovero colposo non è sufficiente la violazione della regola cautelare ma occorre accertare che l’agente avesse la possibilità e la capacità di osservarla: occorre quindi la rappresentabilità ed evitabilità dell’evento da accertare in concreto alla luce del parametro dell’ homo eiusdem professionis et condicionis.

Esaminiamo adesso analiticamente le fasi dell’anzidetto percorso evolutivo.

1. In una prima fase (prima metà del secolo scorso) la responsabilità del medico veniva circoscritta ai soli casi di condotta grossolanamente erronea, ritenendo che la colpa del sanitario fosse ravvisabile soltanto nell’errore inescusabile ovvero nella mancanza delle generali cognizioni della scienza medica, nel difetto della necessaria abilità tecnica, nella banale trasgressione alle norme che presiedono l’ars medica, etc. L’inaccettabilità di tale impostazione è desumibile non solo dal fatto che essa finisce per introdurre, in ambito sanitario, un criterio di valutazione della condotta colposa differente rispetto a quella dell’agente modello, ma anche dalla circostanza che, aderendo alla suddetta tesi, verrebbero avallate condotte superficiali o non improntate al necessario rigore scientifico.

2. La seconda fase evolutiva è caratterizzata dalla introduzione del concetto di colpa grave desunto dall’art. 2236 c.c.: la giurisprudenza dando una lettura estensiva della norma in questione applicava il suddetto concetto, oltre che alle ipotesi di imperizia, anche a quelle di negligenza e imprudenza. La dottrina, dal canto suo, obiettava che con l’art. 2236 c.c. il legislatore, lungi dal voler introdurre una zona franca a vantaggio dei professionisti o a giustificarne l’errore da incuria, disattenzione o negligenza, si è posto l’obiettivo di formulare un parametro o direttiva, essenzialmente rivolta al giudice, per valutare la conformità della prestazione alle regole dell’arte sotto il profilo della perizia (intesa come diligenza in senso tecnico).

3. La terza fase si caratterizza per l’accoglimento giurisprudenziale della suesposta interpretazione dottrinale dell’art. 2236 c.c. La Corte Costituzionale con sentenza 28.11.73 n. 166 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 42 e 589 c.p. in relazione all’art. 3 Cost.: tali norme avrebbero realizzato, secondo il Tribunale di Varese, una indebita disparità di trattamento tra chi era medico e chi non lo era, essendo il primo chiamato a rispondere (ad. es. di omicidio colposo) solo per colpa grave a differenza di qualunque cittadino che avrebbe dovuto risponderne anche per colpa lieve. La Corte ha osservato che l’esenzione o limitazione di responsabilità di cui all’art. 2236 c.c. trova giustificazione nei caratteri oggettivi dell’attività svolta dal professionista, nei confronti del quale la responsabilità colposa derivante da imperizia viene limitata, in relazione alle prestazioni comportanti problemi tecnici di speciale difficoltà, alle sole ipotesi di colpa grave; mentre le condotte colpose negligenti o imprudenti rimangono ancorate a criteri di normale severità. Questa decisione influenzò, per circa un decennio, le pronunce della giurisprudenza di legittimità che seguì, ai fini dell’operatività in sede penale dell’art. 2236 c.c., la distinzione tra errore dovuto ad imperizia ed errore determinato da negligenza e/o imprudenza.

4. A partire dagli anni Ottanta nella giurisprudenza di legittimità si afferma un indirizzo improntato ad una maggiore severità nella valutazione della condotta del medico: attestatasi su una interpretazione rigoristica del criterio di assoluta autonomia ed impermeabilità del sistema penale, la Corte nega la validità del richiamo a principi enucleati in altri rami dell’ordinamento, tra cui quello dell’art. 2236. Tale indirizzo ha peraltro ricevuto l’adesione da parte di autorevole dottrina, la quale ha ritenuto che la graduazione del parametro alla cui stregua valutare la colpa del sanitario dev’essere fatta discendere dalla individuazione di differenziate figure di homo ejusdem condicionis et professionis (Mantovani). Non sono mancate tuttavia, proprio in questo periodo, pronunce della Corte di Cassazione che, sottolineando la peculiarità dei problemi inerenti la colpa professionale medica e pur continuando a negare la valenza in sede penale dell’art. 2236 c.c., hanno precisato che la regola di esonero della responsabilità risarcitoria contenuta nella suddetta norma può ben essere utilizzata dal giudice come parametro legale nella valutazione della condotta colposa del sanitario (ovverosia può valere come massima di esperienza).

5. L’orientamento attuale, abbandonate le posizioni più intransigenti e meno garantiste nei confronti dei medici, afferma, a partire dalla nota sentenza Franzese (che fa luce fra l’altro sul controverso problema del nesso di causalità nel reato omissivo), che nell’ambito della responsabilità medica il parametro di riferimento su cui graduare il concetto di colpa va individuato in concreto e in relazione al livello di professionalità e di conoscenze del medico. Vanno inoltre segnalati i più recenti indirizzi in materia di colpa nell’attività medica svolta in equipe: ferma restando la posizione di garanzia riservata al primario o comunque al soggetto in posizione apicale, si sottolinea che il medico in posizione subordinata non è un mero esecutore di ordini, ma gode comunque di una certa autonomia, per cui egli può e deve manifestare al sanitario sovraordinato le eventuali riserve o se occorre il proprio dissenso rispetto a scelte terapeutiche da lui non condivise altrimenti potrà essere ritenuto personalmente responsabile degli esiti infausti che ne derivino per il paziente. Infine, tra le decisioni più significative in tema di colpa medica occorre mettere in rilievo Cass. Sez. V 21.04.1992 (c.d. caso Massimo) che si occupa del caso di un chirurgo chiamato a rispondere del delitto di omicidio preterintenzionale in quanto aveva sottoposto un paziente ad un intervento più invasivo e più grave rispetto a quello di cui lo stesso era stato preventivamente informato, in assenza, peraltro, di necessità ed urgenza terapeutiche. La Corte ha ritenuto di dover qualificare volontarie le lesioni provocate al paziente: da qui l’imputazione per omicidio preterintenzionale a seguito della morte cagionata dalle suddette lesioni. Tale orientamento interpretativo è stato di recente smentito da Cass. sez. IV 16.01.2008 n. 11335 nella quale si afferma che qualora in mancanza di un valido consenso informato ovvero in presenza di un consenso prestato per un trattamento diverso il chirurgo esegua un intervento da cui derivi la morte del paziente, non è configurabile il delitto di omicidio preterintenzionale poiché la finalità curativa perseguita dal medico deve ritenersi incompatibile con la volontà di provocare un’alterazione lesiva dell’integrità fisica del soggetto, condizione quest’ultima necessaria per integrare il reato di cui all’art. 584 c.p.

Il testo ripercorre brevemente le tappe fondamentali dell’evoluzione della giurisprudenza nel settore della responsabilità medica, con particolare riferimento alle condotte colpose.

Il tema della responsabilità in ambito sanitario non è solo di natura giuridica ma rappresenta un problema di carattere sociale. Sin dalle origini il rapporto medico-paziente è stato caratterizzato da un’ambivalenza di fondo: si assiste infatti, da un lato, ad un atteggiamento positivo e fiducioso nei confronti della medicina, dall’altro, si rileva una sorta di riprovazione di fronte all’insuccesso di una terapia che si finisce con l’addebitare, sempre e comunque, al sanitario.

Negli ultimi anni si è assistito, in questo settore, ad un notevole aumento del contenzioso, sia civile che penale, dovuto, per un verso, alla presa di coscienza da parte della collettività del diritto alla salute (grazie anche all’attività di sensibilizzazione da parte di molteplici associazioni tra cui il “Tribunale dei diritti del malato”), per altro verso, all’aumento delle patologie curabili e alla c.d. ipermedicalizzazione della società, ovvero al diffondersi di terapie in realtà poco utili ma ugualmente rischiose.

Sul versante civilistico la responsabilità del medico è stata originariamente inquadrata nel modello della responsabiltà aquiliana ex art. 2043 c.c., per poi passare, dapprima, ad un regime in cui responsabiltà contrattuale ed extracontrattuale si cumulavano e approdare, infine, all’attuale modello della responsabiltà contrattuale.

Sul versante penalistico la giurisprudenza ha seguito due linee di tendenza: il fondamento della liceità dell’attività medica (e quindi il consenso informato) e il rapporto tra medico e paziente, con particolare riferimento alla colpa professionale e al nesso di causalità e alla posizione di garanzia rispetto alle condotte omissive dei sanitari.

Riguardo alla colpa medica l’evoluzione giurisprudenziale si è orientata ad una tutela dei diritti del paziente sempre più incisiva, assumendo un atteggiamento di maggior rigore nei confronti dei medici, venendo, in tal modo a svolgere un ruolo suppletivo rispetto alla carenza di specifici riferimenti normativi all’attività medica.

Prima di esaminare le principali tappe del suddetto percorso evolutivo della giurisprudenza occorre premettere alcuni cenni sulle peculiarità che caratterizzano le condotte colpose nell’ambito delle attività medico-chirurgiche.

Nel nostro ordinamento la condotta colposa è connotata da due requisiti essenziali: uno di carattere negativo, ovvero la non volontà dell’evento (o assenza di dolo); l’altro di carattere positivo, che ricollega la verificazione dell’evento ad una condotta colposa in quanto negligente, imprudente o imperita (colpa generica) ovvero posta in essere non osservando leggi, regolamenti, ordini e discipline (colpa specifica). Le fonti delle regole cautelari, che vanno individuate all’interno di un sistema normativo di riferimento a cui la disposizione rinvia, sono accomunate dallo scopo che le caratterizza: si tratta della finalità cautelare, ovvero il rispetto delle stesse serve ad evitare la realizzazione di eventi dannosi o pericolosi. Quindi la tipicità della colpa si connota come realizzazione di un fatto che, alla luce delle regole cautelari, doveva essere evitato.

L’attività medico-chirurgica è caratterizzata dalla presenza, oltre che di regole di comune diligenza e prudenza, di regole tecniche in prevalenza non scritte, la cui violazione è fonte di imperizia e per la cui individuazione la giurisprudenza e la dottrina utilizzano i criteri della prevedibilità ed evitabilità dell’evento, a loro volta rapportati al parametro dell’agente modello (il c.d. homo eiusdem professionis et condicionis). Occorre precisare che, accanto a regole tecniche di natura consuetudinaria, esistono regole di valenza ancora sperimentale: in questi casi l’individuazione della regola cautelare è tutt’altro che agevole. Con riferimento al contenuto delle regole cautelari queste possono imporre al medico un dovere di astenersi ovvero un dovere di attivarsi: nell’ambito di queste ultime la condotta può avere anche natura omissiva. Fra l’altro bisogna sottolineare la tendenza a “formalizzare” le regole dell’arte medica attraverso l’individuazione delle c.d. linee guida o protocolli diagnostici e terapeutici. Il dibattito sulla natura ed efficacia giuridica delle stesse è ancora aperto: esse potrebbero rientrare nel concetto di discipline di cui all’art. 43 c.p. e costituire quindi il presupposto per un addebito di colpa specifica oppure costituire dei criteri per valutare l’esistenza della colpa generica. In dottrina e in giurisprudenza prevale, in proposito, un atteggiamento piuttosto equilibrato affermandosi che, tenuto conto delle peculiarità del caso singolo e delle differenti caratteristiche di ogni paziente, le linee guida, per quanto specifiche e dettagliate, non possono essere considerate del tutto esaustive con la conseguenza della irrinunciabilità al paradigma dell’agente modello. Naturalmente ai fini del rimprovero colposo non è sufficiente la violazione della regola cautelare ma occorre accertare che l’agente avesse la possibilità e la capacità di osservarla: occorre quindi la rappresentabilità ed evitabilità dell’evento da accertare in concreto alla luce del parametro dell’ homo eiusdem professionis et condicionis.

Esaminiamo adesso analiticamente le fasi dell’anzidetto percorso evolutivo.

1. In una prima fase (prima metà del secolo scorso) la responsabilità del medico veniva circoscritta ai soli casi di condotta grossolanamente erronea, ritenendo che la colpa del sanitario fosse ravvisabile soltanto nell’errore inescusabile ovvero nella mancanza delle generali cognizioni della scienza medica, nel difetto della necessaria abilità tecnica, nella banale trasgressione alle norme che presiedono l’ars medica, etc. L’inaccettabilità di tale impostazione è desumibile non solo dal fatto che essa finisce per introdurre, in ambito sanitario, un criterio di valutazione della condotta colposa differente rispetto a quella dell’agente modello, ma anche dalla circostanza che, aderendo alla suddetta tesi, verrebbero avallate condotte superficiali o non improntate al necessario rigore scientifico.

2. La seconda fase evolutiva è caratterizzata dalla introduzione del concetto di colpa grave desunto dall’art. 2236 c.c.: la giurisprudenza dando una lettura estensiva della norma in questione applicava il suddetto concetto, oltre che alle ipotesi di imperizia, anche a quelle di negligenza e imprudenza. La dottrina, dal canto suo, obiettava che con l’art. 2236 c.c. il legislatore, lungi dal voler introdurre una zona franca a vantaggio dei professionisti o a giustificarne l’errore da incuria, disattenzione o negligenza, si è posto l’obiettivo di formulare un parametro o direttiva, essenzialmente rivolta al giudice, per valutare la conformità della prestazione alle regole dell’arte sotto il profilo della perizia (intesa come diligenza in senso tecnico).

3. La terza fase si caratterizza per l’accoglimento giurisprudenziale della suesposta interpretazione dottrinale dell’art. 2236 c.c. La Corte Costituzionale con sentenza 28.11.73 n. 166 ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 42 e 589 c.p. in relazione all’art. 3 Cost.: tali norme avrebbero realizzato, secondo il Tribunale di Varese, una indebita disparità di trattamento tra chi era medico e chi non lo era, essendo il primo chiamato a rispondere (ad. es. di omicidio colposo) solo per colpa grave a differenza di qualunque cittadino che avrebbe dovuto risponderne anche per colpa lieve. La Corte ha osservato che l’esenzione o limitazione di responsabilità di cui all’art. 2236 c.c. trova giustificazione nei caratteri oggettivi dell’attività svolta dal professionista, nei confronti del quale la responsabilità colposa derivante da imperizia viene limitata, in relazione alle prestazioni comportanti problemi tecnici di speciale difficoltà, alle sole ipotesi di colpa grave; mentre le condotte colpose negligenti o imprudenti rimangono ancorate a criteri di normale severità. Questa decisione influenzò, per circa un decennio, le pronunce della giurisprudenza di legittimità che seguì, ai fini dell’operatività in sede penale dell’art. 2236 c.c., la distinzione tra errore dovuto ad imperizia ed errore determinato da negligenza e/o imprudenza.

4. A partire dagli anni Ottanta nella giurisprudenza di legittimità si afferma un indirizzo improntato ad una maggiore severità nella valutazione della condotta del medico: attestatasi su una interpretazione rigoristica del criterio di assoluta autonomia ed impermeabilità del sistema penale, la Corte nega la validità del richiamo a principi enucleati in altri rami dell’ordinamento, tra cui quello dell’art. 2236. Tale indirizzo ha peraltro ricevuto l’adesione da parte di autorevole dottrina, la quale ha ritenuto che la graduazione del parametro alla cui stregua valutare la colpa del sanitario dev’essere fatta discendere dalla individuazione di differenziate figure di homo ejusdem condicionis et professionis (Mantovani). Non sono mancate tuttavia, proprio in questo periodo, pronunce della Corte di Cassazione che, sottolineando la peculiarità dei problemi inerenti la colpa professionale medica e pur continuando a negare la valenza in sede penale dell’art. 2236 c.c., hanno precisato che la regola di esonero della responsabilità risarcitoria contenuta nella suddetta norma può ben essere utilizzata dal giudice come parametro legale nella valutazione della condotta colposa del sanitario (ovverosia può valere come massima di esperienza).

5. L’orientamento attuale, abbandonate le posizioni più intransigenti e meno garantiste nei confronti dei medici, afferma, a partire dalla nota sentenza Franzese (che fa luce fra l’altro sul controverso problema del nesso di causalità nel reato omissivo), che nell’ambito della responsabilità medica il parametro di riferimento su cui graduare il concetto di colpa va individuato in concreto e in relazione al livello di professionalità e di conoscenze del medico. Vanno inoltre segnalati i più recenti indirizzi in materia di colpa nell’attività medica svolta in equipe: ferma restando la posizione di garanzia riservata al primario o comunque al soggetto in posizione apicale, si sottolinea che il medico in posizione subordinata non è un mero esecutore di ordini, ma gode comunque di una certa autonomia, per cui egli può e deve manifestare al sanitario sovraordinato le eventuali riserve o se occorre il proprio dissenso rispetto a scelte terapeutiche da lui non condivise altrimenti potrà essere ritenuto personalmente responsabile degli esiti infausti che ne derivino per il paziente. Infine, tra le decisioni più significative in tema di colpa medica occorre mettere in rilievo Cass. Sez. V 21.04.1992 (c.d. caso Massimo) che si occupa del caso di un chirurgo chiamato a rispondere del delitto di omicidio preterintenzionale in quanto aveva sottoposto un paziente ad un intervento più invasivo e più grave rispetto a quello di cui lo stesso era stato preventivamente informato, in assenza, peraltro, di necessità ed urgenza terapeutiche. La Corte ha ritenuto di dover qualificare volontarie le lesioni provocate al paziente: da qui l’imputazione per omicidio preterintenzionale a seguito della morte cagionata dalle suddette lesioni. Tale orientamento interpretativo è stato di recente smentito da Cass. sez. IV 16.01.2008 n. 11335 nella quale si afferma che qualora in mancanza di un valido consenso informato ovvero in presenza di un consenso prestato per un trattamento diverso il chirurgo esegua un intervento da cui derivi la morte del paziente, non è configurabile il delitto di omicidio preterintenzionale poiché la finalità curativa perseguita dal medico deve ritenersi incompatibile con la volontà di provocare un’alterazione lesiva dell’integrità fisica del soggetto, condizione quest’ultima necessaria per integrare il reato di cui all’art. 584 c.p.