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Libertà di espressione e motori di ricerca: nessun limite alla “manipolazione” dei risultati?

Sommario: 1.La libertà di informazione e l’evoluzione tecnologica. - 2. I motori di ricerca. - 3. I risultati di ricerca come “manifestazione del pensiero”. - 4. La decisione della San Francisco Superior Court del 13 novembre 2014. - 5. Un possibile diverso approccio: la “manipolazione” dei risultati come “pubblicità occulta”.

 

1. La libertà di informazione e l’evoluzione tecnologica

È opinione diffusa che la libertà di informazione costituisca il metro con il quale misurare il grado di democraticità di uno Stato: senza la libertà di manifestare agli altri il proprio pensiero e la possibilità di accedere alle fonti di informazione sarebbe difficile esercitare il diritto di partecipare alla vita politica, economica e sociale del proprio Paese[1].

In Italia, come noto, l’articolo 21 della Costituzione tutela espressamente il «diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

A partire dai primi anni settanta, la Corte Costituzionale ha riconosciuto come necessario corollario della libertà di manifestazione del pensiero, l’interesse generale all’informazione che, in un regime democratico, implica pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, ancorché temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee (Corte Costituzionale, 15 giugno 1972, n. 105; Corte Costituzionale, 10 luglio 1974 n. 225; Corte Costituzionale, 30 maggio 1977, n. 94). In particolare, nella sentenza 30 maggio 1977, n. 94 la Consulta ha sinteticamente, ma univocamente dichiarato che «non è dubitabile che sussista e sia implicitamente tutelato dall’articolo 21 della Costituzione, un interesse generale della collettività all’informazione».

In alcune carte costituzionali di più recente emanazione rispetto alla nostra, il diritto di divulgare informazioni o, quantomeno, di accedere liberamente alle fonti di informazione è stato enunciato espressamente. La Costituzione spagnola del 1978, ad esempio, riconosce e tutela il diritto «a esprimere e diffondere liberamente pensieri, idee e opinioni con la parola, per iscritto o con qualunque altro mezzo; […] a trasmettere o ricevere liberamente informazioni veritiere con qualunque mezzo di diffusione» [traduzione dell’autore, n.d.r.] (articolo 20), mentre la Costituzione portoghese del 1976 sancisce che «Ogni individuo ha il diritto di esprimere e diffondere liberamente il suo pensiero con parole, immagini o con qualsiasi altro mezzo, nonché il diritto di informare, di informarsi e di essere informato, senza ostacoli o discriminazioni» [traduzione dell’autore, n.d.r.] (articolo 37).

Nel recente passato, tuttavia, l’accesso ai mezzi di comunicazione di massa per la diffusione delle proprie idee era riservato a pochi, tanto che la Corte Costituzionale italiana, con particolare riferimento alla stampa, ha affermato che il principio secondo cui tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero con ogni mezzo «non può significare che tutti debbano avere, di fatto, la materiale disponibilità di tutti i possibili mezzi di diffusione» (Corte Costituzionale, 15 giugno 1972, n. 105).

Oggi questo orientamento pare dover essere riconsiderato alla luce dello sviluppo tecnologico che consente di fatto a tutti di far conoscere il proprio pensiero a livello potenzialmente globale.

Internet offre a chiunque la possibilità di “comunicare” un’informazione ad uno o più soggetti determinati (si pensi all’uso dell’e-mail o dei forum) o “diffondere” le proprie idee ad un pubblico indeterminato (si pensi ad una pagina web accessibile a tutti) e, al tempo stesso, di ricercare dati da elaborare, notizie sulle quali poter meditare e formarsi un’opinione.

I motori di ricerca (si pensi a Google, Bing, Yahoo!, Ask, ecc.) sono divenuti, in breve tempo, i principali strumenti di accesso alle informazioni e i loro risultati sono capaci di guidare le scelte di milioni di utenti[2].

Alla facilità di scovare l’informazione desiderata si contrappone però il rischio di un controllo sui risultati delle ricerche ad opera di chi presta tale servizio. Apparire tra i primi risultati garantisce, infatti, una visibilità tale da poter fare la fortuna di un’impresa. Gli interessi in gioco non sono solo di carattere economico, in quanto i risultati potrebbero essere falsati anche per scelta “politica” o “ragion di stato”[3]. Filtri alla ricerca sia di parole che di immagini sono, ad esempio, imposti, per “motivi di sicurezza nazionale”, dal governo cinese alle società che operano sul suo territorio[4].

2. I motori di ricerca

I motori di ricerca, come noto, offrono risposte alle interrogazioni (o query) degli utenti attingendo da proprie banche dati, le quali vengono alimentate e aggiornate costantemente a mezzo di programmi (detti crawler o spider o robot) che “scandagliano” periodicamente tutti (o quasi) i contenuti presenti sul web[5]. Quando un navigatore attiva una ricerca, è all’interno del data base che il motore va a cercare le risposte, cioè all’interno dei suoi indici automatizzati. Il risultato fornito è un elenco di link ordinati in base a criteri di rilevanza che variano a seconda della formula di ranking utilizzata, ovvero, dell’algoritmo di analisi adottato dal singolo motore di ricerca per valutare, quantificandola, l’importanza del singolo risultato rispetto alla ricerca effettuata[6].

La formula di ranking costituisce lo strumento principale di concorrenza tra gli operatori del settore. Un motore di ricerca, infatti, sarà tanto più apprezzato dal mercato quanto più i risultati da esso forniti saranno vicini alle aspettative e alle esigenze degli utenti. Per questo motivo, non stupisce né che l’algoritmo adoperato sia coperto dalla più assoluta segretezza né che sia possibile ravvisare, nel posizionamento dei risultati, una certa tendenza commerciale ed un pregiudizio significativo e sistematico in favore delle preferenze di maggioranza. Per cogliere la portata di tale affermazione è sufficiente aver riguardo ad un semplice esempio: per la maggior parte delle enciclopedie la parola “Nike” sta ad indicare la «Divinità greca, personificazione della Vittoria»[7], mentre i primi risultati ottenuti digitando il medesimo termine all’interno di un motore di ricerca fanno riferimento ad una nota società che produce abbigliamento sportivo.

La ragione risiede principalmente nella scelta dei parametri (id est, dei fattori dell’algoritmo) impiegati per determinare il ranking: uno degli elementi che, ad esempio, viene preso in considerazione è la c.d. link popularity ovvero il numero complessivo dei collegamenti ipertestuali che indirizzano ad una determinata pagina web[8]. Ne consegue che l’ordine dei risultati non è dettato tanto dalla “pertinenza” rispetto all’interrogazione, quanto piuttosto dal livello di “popolarità” raggiunto dal singolo risultato. Per ovviare a questo inconveniente, alcune società hanno intrapreso una duplice via: da un lato, personalizzano il servizio tenendo conto dei dati relativi al singolo utente quali, ad esempio, la sua posizione geografica e le ricerche effettuate in precedenza; dall’altro, non svolgono più una ricerca basata su parole testuali, ma su parole concettuali. La ricerca diviene, cioè, “semantica”, in grado di interpretare i “contenuti” dei documenti, non fermandosi alla mera corrispondenza testuale tra quanto digitato e quanto presente sul Web[9].

3. I risultati di ricerca come “manifestazione del pensiero”

I titolari dei motori di ricerca hanno la possibilità, scegliendo opportunamente i parametri da impiegare o assegnando loro un diverso peso specifico, sia di influire sull’ordine di visualizzazione dei risultati sia, eventualmente, di escluderne alcuni. Tale circostanza – non di poco conto, potendo penalizzare alcune aziende e favorirne altre – ha dato luogo ad un vivace dibattito, ancora in corso, circa la necessità o meno di un intervento pubblico che regolamenti i risultati di ricerca o che, comunque, imponga ai motori di ricerca di rivelare gli algoritmi adoperati.

L’opportunità di adottare tali tipi di strumenti è sostenuta, in particolare, da chi ritiene che nei risultati dei motori di ricerca risieda un “interesse pubblico” da salvaguardare, stante la capacità di questi di influenzare le scelte economiche, e non solo, di milioni di persone[10].

Di diverso avviso è chi, prediligendo le regole del mercato, fa notare come quello dei motori di ricerca sia un business che si nutre della propria credibilità: saranno i consumatori a punire gli eventuali comportamenti opportunistici di qualcuno, rivolgendosi ad altri[11]. La convinzione è quella che le regole della concorrenza e del libero mercato siano da sole sufficienti ad escludere che i risultati di ricerca vengano “aggiustati”. Vi è di più, un intervento legislativo, volto ad imporre determinati criteri o a divulgare gli algoritmi impiegati, otterrebbe un effetto opposto a quello desiderato, in quanto renderebbe il processo di definizione dei risultati conosciuto, dunque, addomesticabile e, per questo, inaffidabile.

Le due argomentazioni, com’è evidente, muovono entrambe dal presupposto che il servizio offerto dai motori di ricerca sia da considerarsi “attività economica” e, come tale, bisognevole di un controllo pubblico, secondo gli uni, o da svolgersi in piena libertà, secondo gli altri.

La questione è stata affrontata diversamente dalla giurisprudenza statunitense, secondo la quale i risultati delle ricerche costituiscono “opinioni personali” e per questo sono tutelati dalla “libertà di parola”[12].

La “libertà di espressione” è riconosciuta dal Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America del 15 settembre 1787, il quale recita: «Il Congresso non potrà approvare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibire il libero culto; o per limitare la libertà di parola o di stampa, o il diritto che hanno i cittadini di riunirsi in forma pacifica e di inoltrare petizioni al Governo per la riparazione di torti subiti» [traduzione dell’autore, n.d.r.].

Secondo le Corti nord-americane ogni motore di ricerca esprime “opinioni diverse”, così come diversi sono i risultati che ciascuno di essi restituisce, in quanto frutto di metodi di risposta unici[13]: non esiste, dunque, una lista di risultati “corretta” (o “naturale”, o “neutrale”) di cui lamentare la diversità rispetto a quella visualizzata[14]. Per questo motivo, i motori di ricerca non possono essere considerati responsabili per gli eventuali danni derivanti da una “cattiva” collocazione di un sito all’interno della lista dei risultati; e ciò, anche qualora il titolare del sito dimostrasse in giudizio di aver subito una riduzione del volume di affari quale conseguenza diretta della mutata posizione della propria pagina web all’interno della lista dei risultati.

L’idea che i risultati della ricerca siano espressione della “libertà di parola” viene ripresa anche nel Libro bianco, First Amendment Protection for Search Engine Search Results, del 20 aprile 2012 commissionato dalla società Google[15]. Nel documento si afferma che i motori di ricerca sono degli «speakers» (poiché “parlano con gli utenti”) e che la selezione dei materiali, “scovati” in Rete e forniti come risposta alle query, è un «mix of science and art». Il “giudizio” sulla pertinenza dei risultati viene considerato una scelta di natura “editoriale”, al pari di quello espresso dalle testate giornalistiche o dalle tante “guide” che suggeriscono locali, musei, ristoranti, ecc. L’attività di raccolta, selezione e organizzazione delle informazioni svolta da queste ultime è ritenuta del tutto simile a quella dei motori di ricerca, anche se effettuata con l’ausilio di strumenti tecnologici.

4. La decisione della San Francisco Superior Court del 13 novembre 2014 

L’idea che l’ordine dei risultati di ricerca sia manifestazione della “libertà di parola” viene sostenuta da tempo dalla società Google, la quale l’ha “utilizzata” anche recentemente per rispondere in giudizio alle accuse che le erano state mosse da un sito web che lamentava di essere stato ingiustamente spinto in basso nei risultati di ricerca di Google, mentre risultava in cima a quelli di Bing e Yahoo!.

La società di Mountain View si è difesa presentando una mozione nella quale ha sostenuto che «i risultati di ricerca di Google esprimono l’opinione di Google su quali siti web siano più probabilmente utili per l’utente in risposta alla sua query e rientrano, pertanto e interamente, sotto la protezione del Primo Emendamento. Le decisioni di Google sul collocare o meno annunci pubblicitari su un particolare sito web riguardano la discrezionalità dell’editore e rientrano, pertanto, anch’esse sotto la protezione del Primo Emendamento. […] L’azione legale dell’attore è tesa a minare la libertà di espressione di Google per favorire i propri interessi a discapito di quelli della generalità degli utenti di Google. In altre parole, se si desse seguito alle pretese dell’attore, ogni sito web potrebbe intentare causa contro un motore di ricerca sostenendo che le decisioni editoriali del motore stesso non rispondano al suo interesse, chiedendo l’alterazione dei risultati di ricerca che hanno servito l’interesse di milioni di utenti» [traduzione dell’autore, n.d.r.][16].

La San Francisco Superior Court, investita della controversia, con provvedimento del 13 novembre 2014 si è pronunciata a favore di Google affermando, in poche righe, che i motori di ricerca svolgono «attività costituzionalmente protetta» [traduzione dell’autore, n.d.r.][17], la qual cosa implica il diritto di organizzare liberamente i risultati forniti agli utenti.

La decisione de qua ha sicuramente deluso i titolari dei siti web che si sentono – o forse sono – per la gran parte del loro traffico in balìa di Google e, più in generale, dei motori di ricerca poiché questi costituiscono ad oggi il principale strumento di accesso alle informazioni commerciali adoperato dai consumatori nonostante l’esistenza di siti di vendita al dettaglio come Amazon e eBay o dei social network.

5. Un possibile diverso approccio: la “manipolazione” dei risultati come “pubblicità occulta” 

Ritenere i risultati di ricerca espressione della libertà di manifestazione del pensiero, a mio parere, non implica una totale assenza di tutela contro una “manipolazione” del loro ordine di visualizzazione, in quanto ciò potrebbe costituire “pubblicità occulta”.

La differenza tra manifestazione del pensiero tout court e comunicazione commerciale (commercial speech) risiede, infatti, esclusivamente nello “scopo” economico delle affermazioni espresse.

La Corte costituzionale italiana è ferma nel ricondurre l’attività promozionale all’articolo 41 della Costituzione e nell’escludere che possa, invece, essere qualificata come «manifestazione del pensiero» in ragione dello scopo imprenditoriale che la caratterizza. La Consulta ha, in particolare, affermato che la pubblicità commerciale è da considerarsi «una componente dell’attività delle imprese, come tale assistita dalle garanzie di cui all’articolo 41 della Costituzione, e assoggettabile, in ipotesi, alle limitazioni ivi previste al secondo e terzo comma»[18]; ed, ancora, che la disposizione a tutela della libertà di espressione (articolo 21 della Costituzione) è finalizzata a garantire il libero dibattito su tematiche di interesse politico e culturale e non, invece, indirizzata ad invogliare il pubblico a determinati comportamenti e a precise scelte di mercato[19].

La comunicazione commerciale, in quanto sottoposta alle restrizioni previste dalla Carta costituzionale per l’iniziativa economica privata, risulta essere, pertanto, libera nell’an, ma vincolata nel quomodo, non potendo svolgersi «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (articolo 41, comma 2, Costituzione) e potendo «la legge» determinare «i programmi e i controlli opportuni perché […] possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali» (articolo 41, comma 3, Costituzione).

Tale impostazione è stata ribadita anche dalla Corte di Cassazione, la quale ha chiarito che «La “pubblicità commerciale” […] si pone […] fuori dell’area di protezione della garanzia su invocata [id est, dell’articolo 21 della Costituzione, n.d.r.], in quanto, pur estrinsecandosi anche attraverso elementi informativi è ontologicamente comunque caratterizzata dallo scopo ultimo (non di trasmettere il pensiero bensì) di promuovere comportamenti e scelte di modelli imitativi sul piano dell’attività quotidiana»[20].

A livello europeo, l’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconduce, invece, l’attività pubblicitaria alla libertà di parola[21]. Tale norma afferma, infatti, che: «Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera» (articolo 10, comma 1)[22].

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha, tuttavia, da sempre ritenuto legittime le restrizioni alla libertà di espressione nel settore commerciale dettate dalla necessità di bilanciare questa con altri interessi di rango pari o superiore[23]. Tale orientamento muove dall’interpretazione della seconda parte dell’articolo 10, secondo la quale l’esercizio della libertà d’espressione «poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario» (articolo 10, comma 2).

Del medesimo avviso risulta essere anche la Corte di giustizia dell’Unione europea secondo la quale la difesa dei consumatori e la lealtà nei rapporti commerciali giustificano la restrizione, purché ragionevole e proporzionata, della libertà d’espressione nel settore commerciale[24].

Di fatto, quindi, sia la Corte europea dei diritti dell’uomo che la Corte di giustizia, pur riconducendo la pubblicità commerciale nell’alveo della libertà di manifestazione del pensiero, sono giunti a riconoscerle un livello di protezione non assoluto, bensì caratterizzato da vincoli e limiti imposti dalla finalità economica perseguita dal messaggio e dalla conseguente contemporanea presenza di ulteriori interessi (dei consumatori, dei professionisti e dei concorrenti) altrettanto meritevoli di tutela[25].

Ciò detto, va evidenziato come sia la disciplina italiana che la normativa comunitaria in materia di pubblicità ingannevole e comparativa accolgano una definizione di pubblicità improntata proprio sullo “scopo” del messaggio e non sulla forma utilizzata o sul mezzo di diffusione adoperato.

Per limitare l’analisi alla disciplina italiana, la nozione di «pubblicità» dettata dal Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 145 comprende «qualsiasi forma di messaggio che è diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere il trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di opere o di servizi oppure la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi» (articolo 2, comma 1, lett. a)[26].

Ebbene, la posizione di “favore” assunta da un indirizzo web nell’ordine dei risultati restituiti da un motore di ricerca, può essere qualificata, a mio avviso, proprio come “pubblicità” qualora ricorrano due condizioni: (i)il sito a cui rinvia il link risultato della ricerca deve avere natura – anche solo latamente – commerciale; (ii) vi deve essere un accordo di tipo economico tra il motore di ricerca e l’impresa titolare del sito. L’apparire agli occhi dell’utente come risultato “neutrale” della ricerca ne denota, poi, l’ingannevolezza in ragione della mancanza di “riconoscibilità” del messaggio pubblicitario.

La presenza di un “rapporto di committenza” è richiesta dalla normativa in materia di e-commerce al fine di distinguere la comunicazione commerciale dalle mere “opinioni personali” caratterizzate, queste ultime, dall’essere «elaborate in modo indipendente, in particolare senza alcun corrispettivo» (articolo 2, comma 1, lett. f), n. 2, Decreto Legislativo 9 aprile 2003, n. 70).

Il verificarsi di entrambe le condizioni – natura commerciale del sito promosso e accordo sottostante – consente di qualificare come pubblicità non riconoscibile e, quindi, «ingannevole» l’eventuale alterazione dei risultati forniti da un motore di ricerca posta in essere al precipuo scopo di attribuire maggiore visibilità ad un sito web a discapito di altri, poiché tali risultati vengono presentati come risultati “neutrali” della ricerca.

Ne consegue che sia i professionisti e/o concorrenti sia i consumatori (e le microimprese) potranno invocare gli strumenti di tutela approntati dalla disciplina in materia di comunicazioni commerciali, di cui rispettivamente al Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 145 e agli articoli 18 e seguenti del Codice del consumo.

Avv. Italo Cerno

 

[1] G. De Vergottini, Diritto costituzionale, Cedam, Padova, 2010, p. 333; T. Martines, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 2010, p. 565.

[2] Secondo il Parere 1/2008 sugli aspetti della protezione dei dati connessi ai motori di ricerca, adottato il 4 aprile 2008 dal Gruppo di lavoro ex articolo 29 per la protezione dei dati personali, i motori di ricerca sono «servizi che aiutano gli utenti a reperire informazioni sul web. Si differenziano in funzione dei diversi tipi di dati che mirano a recuperare, compresi immagini e/o video e/o suoni o altri tipi di formati. […] Nella direttiva sul commercio elettronico (2000/31/CE) i motori di ricerca sono stati definiti servizi della società dell’informazione, cioè strumenti per la localizzazione delle informazioni».

[3] D.M. Falk-E. Volokh, First Amendment Protection for Search Engine Search Results, Google, 2012, pp. 12 e ss. Nel white paper, commissionato dalla società Google, si sottolinea come ogni forma di ingerenza governativa sui risultati della ricerca sia da ritenersi lesiva della libertà di espressione e per questo inaccettabile. Il testo del report è disponibile all’URL: http://www.volokh.com/wp-content/uploads/2012/05/SearchEngineFirstAmendment.pdf (ultima consultazione il 26 novembre 2014).

[4] E. Bertolini, L’“apertura sorveglia”: la via cinese alla governance e alla censura di Internet, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2008, fascicolo 3, pp. 1063-1097.

[5] Il compito degli spider è quello di esplorare ogni angolo del Web alla ricerca dei siti dai quali estraggono intere colonne di testo che vengono poi inserite nei data base del motore di ricerca. È tecnicamente possibile impedire ad un motore di ricerca di “leggere” e, quindi, scansionare i contenuti di un sito, utilizzando file appositi da posizionare nella directory principale del server. La possibilità di un’analisi automatizzata dei contenuti presenti sul Web consente di realizzare anche servizi diversi rispetto a quello di ricerca. È, ad esempio, il caso del progetto scientifico “Voices from the Blogs” che, attraverso l’esame a mezzo software delle opinioni espresse su Internet, riesce a vagliare su singoli temi gli “umori” degli utenti più efficacemente di quanto riescano a fare i tradizionali sondaggi. Le informazioni e i risultati del progetto sono disponibili all’URL: http://voicesfromtheblogs.com/ (ultima consultazione il 26 novembre 2014).

[6] Sul funzionamento dei motori di ricerca, E.M. Tripodi, Gli strumenti del commercio elettronico: i motori di ricerca, in Disciplina del commercio e dei servizi, 2007, fascicolo 2, pp. 77 e ss.; P. Sammarco, Il motore di ricerca, nuovo bene della società dell’informazione: funzionamento, responsabilità e tutela della persona, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2006, fascicoli 4-5, pp. 621 e ss.; G. Cassano, Internet, meta-tag e concorrenza sleale, in Danno e responsabilità, 2002, fascicolo 5, pp. 546 e ss.; G. Cassano, Orientamento dei motori di ricerca, concorrenza sleale e meta-tag, in Il diritto di autore, 2001, fascicolo 4, pp. 435 e ss.

[7] Così Enciclopedia Treccani, voce Nike. Consultabile all’URL: http://www.treccani.it/enciclopedia/nike_res-3eb8aea1-e19d-11df-9ef0-d5ce3506d72e/ (ultima consultazione il 26 novembre 2014).

[8] I motori di ricerca trattano i link come dei “consigli” che un sito web offre ai propri visitatori. Un link ad un sito esterno è considerato come un “invito” per l’utente a visitare il sito che beneficia del collegamento ipertestuale. Ne consegue che i siti che ricevono un numero di link maggiore rispetto agli altri avranno una posizione migliore all’interno dei risultati dei motori di ricerca che si basano (anche se parzialmente) su tale criterio. La link popularity è uno degli indicatori presi in considerazione dai motori di ricerca che solitamente adottano alcuni correttivi volti ad evitare sia la penalizzazione dei siti nati da poco (che necessitano, pertanto, di molto tempo prima di ottenere una buona quantità di link) sia le distorsioni determinate dalle pratiche di search engine optimization finalizzate a posizionare un sito tra i primi risultati della ricerca.

[9] L’approccio “semantico” è adottato, ad esempio, dal 2012 dalla società Google. Sul “Web semantico”, T. Berneers-Lee-J. Hendler-O. Lassilla, The Semantic Web, in Scientific American, 284(5), 2001, pp. 34 e ss. Per una breve introduzione ai principi del “Web semantico”, R. Brighi, Norme e conoscenza: dal testo giuridico al metadato, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 98 e ss.

[10] O. Bracha-F.A. Pasquale, Federal Search Commission? Access, Fairness, and Accountability in the Law of Search, in Cornell Law Review, 2008, pp. 1149 e ss.

[11] E. Goldman, Search Engine Bias and the Demise of Search Engine Utopianism, in Yale Journal of Law & Technology, 2006, pp. 188 e ss., il quale afferma: «[S]earchers will shop around if they do not get the results they want, and this competitive pressure constrains search engine bias» (p. 197).

[12] Northern District of California, 26 giugno 2006, Kinderstart.com vs. Google Inc.; Western District of Oklahoma, 23 maggio 2003, Search King vs. Google Inc.

[13] In Western District of Oklahoma, 23 maggio 2003, Search King vs. Google Inc., viene affermato che: «PageRanks are opinions – opinions of the significance of particular web sites as they correspond to a search query. Other search engines express different opinions, as each search engine’s method of determining relative significance is unique».

[14] In Northern District of California, 26 giugno 2006, Kinderstart.com vs. Google Inc., viene dichiarato che: «PageRank is a creature of Google’s invention and does not constitute an independently-discoverable value. In fact, Google might choose to assign PageRanks randomly, whether as whole numbers or with many decimal places, but this would not create “incorrect” PageRanks».

[15] D.M. Falk-E. Volokh, First Amendment Protection for Search Engine Search Results, Google, 2012.

[16]Memorandum of points and authorities in support of defendant Google Inc. to strike Plaintiff’s complaint pursuant to civ. proc. code § 425.16, 29 agosto 2014. Il testo della mozione è disponibile all’URL: http://www.scribd.com/doc/246883191/Google-SLAPP-Suit (ultima consultazione il 26 novembre 2014).

[17] Superior Court of the State of California – County of San Francisco, 13 novembre 2014, S. Louis Martin vs. Google Inc. Il testo della decisione è disponibile all’URL: http://digitalcommons.law.scu.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1875&context=historical (ultima consultazione il 26 novembre 2014)

[18]Corte Costituzionale, 17 ottobre 1985, n. 231.

[19] In senso conforme, P. Auteri, La disciplina della pubblicità, in Aa.Vv., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, Giappichelli, Torino, 2009, p. 374, il quale afferma che in materia pubblicitaria la libertà di iniziativa economica prevale su quella di espressione, ma precisa che le opinioni o le informazioni non strettamente funzionali alla promozione di prodotti o servizi, pur veicolate dalla pubblicità, godono della garanzia offerta dall’articolo 21 della Costituzione; E. Roppo, Pubblicità televisiva ed emittenti private. A proposito di “spots”, di diritto morale d’autore e di qualche altra cosa, in Il foro italiano, 1983, fascicolo 4, p. 1144; G. Ghidini, Introduzione allo studio della pubblicità commerciale, Giuffrè, Milano, 1968, p. 229. Contra: R. Zaccaria, Diritto dell’informazione e della comunicazione, Cedam, Padova, 2004, p. 9, il quale ritiene che i messaggi promozionali vadano ricondotti all’articolo 21 della Costituzione in quanto non sempre risultano essere strumentali all’iniziativa economica, come nel caso delle campagne pubblicitarie dei partiti politici; L. Principato, Il fondamento costituzionale della libertà di comunicazione pubblicitaria, in Giurisprudenza costituzionale, 2003, fascicolo 1, p. 546, secondo il quale la pubblicità commerciale è una comunicazione oggetto della libertà di manifestazione del pensiero, che può anche rilevare come strumento dell’attività economica; R. Pardolesi, Ripetitori esteri e pubblicità: dall’oscuramento all’oscurantismo?, in Il foro italiano, 1985, fascicolo 11, p. 2830, il quale sostiene che bisognerebbe guardare alla pubblicità non alla stregua di attività organizzata di promozione commerciale, bensì quale comunicazione al pubblico di contenuti informativi, sia pure diretti ad un risultato lucrativo.

[20] Cassazione, Sezione Prima, 23 novembre 1999, n. 12993. Per un commento della sentenza, F. Rampone, La pubblicità commerciale tra libertà di manifestazione del pensiero e libertà di iniziativa economica, in Giustizia civile, 2000, fascicolo 1, pp. 31-40.

[21] P. Sammarco, Libertà di espressione, comunicazioni pubblicitarie e loro restrizioni nella giurisprudenza comunitaria, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2009, fascicolo 3, pp. 479 e ss.

[22] La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, è stata ratificata dal Presidente della Repubblica italiana in seguito ad autorizzazione conferitagli dalla Legge 4 agosto 1955, n. 848, in Gazzetta Ufficiale 24 settembre 1955, n. 221.

[23] Ex multis, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 28 giugno 2001, VGT Verein gegen Tierfabriken c. Svizzera, punti 69 e 70; Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 20 novembre 1989, Markt intern Verlag GmbH e Klaus Beermann c. Germania, punti 33 e 35.

[24] Ex multis, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 25 marzo 2004, C-71/02, Karner, punto 51; Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 23 ottobre 2003, C‑245/01, RTL Television, punto 73.

[25] C. Berti, Pubblicità scorretta e diritto dei terzi, Giuffrè, Milano, 2000, pp. 105-106.

[26] Il Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 145 ha dato attuazione alla Direttiva 2006/114/CE concernente la pubblicità ingannevole e comparativa, già Direttiva 84/450/CE come modificata dall’articolo 14 della Direttiva 2005/29/CE. Per un commento, L.C. Ubertazzi (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Cedam, Padova, 2012, pp. 2299 e ss.

Sommario: 1.La libertà di informazione e l’evoluzione tecnologica. - 2. I motori di ricerca. - 3. I risultati di ricerca come “manifestazione del pensiero”. - 4. La decisione della San Francisco Superior Court del 13 novembre 2014. - 5. Un possibile diverso approccio: la “manipolazione” dei risultati come “pubblicità occulta”.

 

1. La libertà di informazione e l’evoluzione tecnologica

È opinione diffusa che la libertà di informazione costituisca il metro con il quale misurare il grado di democraticità di uno Stato: senza la libertà di manifestare agli altri il proprio pensiero e la possibilità di accedere alle fonti di informazione sarebbe difficile esercitare il diritto di partecipare alla vita politica, economica e sociale del proprio Paese[1].

In Italia, come noto, l’articolo 21 della Costituzione tutela espressamente il «diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione».

A partire dai primi anni settanta, la Corte Costituzionale ha riconosciuto come necessario corollario della libertà di manifestazione del pensiero, l’interesse generale all’informazione che, in un regime democratico, implica pluralità di fonti di informazione, libero accesso alle medesime, assenza di ingiustificati ostacoli legali, ancorché temporanei, alla circolazione delle notizie e delle idee (Corte Costituzionale, 15 giugno 1972, n. 105; Corte Costituzionale, 10 luglio 1974 n. 225; Corte Costituzionale, 30 maggio 1977, n. 94). In particolare, nella sentenza 30 maggio 1977, n. 94 la Consulta ha sinteticamente, ma univocamente dichiarato che «non è dubitabile che sussista e sia implicitamente tutelato dall’articolo 21 della Costituzione, un interesse generale della collettività all’informazione».

In alcune carte costituzionali di più recente emanazione rispetto alla nostra, il diritto di divulgare informazioni o, quantomeno, di accedere liberamente alle fonti di informazione è stato enunciato espressamente. La Costituzione spagnola del 1978, ad esempio, riconosce e tutela il diritto «a esprimere e diffondere liberamente pensieri, idee e opinioni con la parola, per iscritto o con qualunque altro mezzo; […] a trasmettere o ricevere liberamente informazioni veritiere con qualunque mezzo di diffusione» [traduzione dell’autore, n.d.r.] (articolo 20), mentre la Costituzione portoghese del 1976 sancisce che «Ogni individuo ha il diritto di esprimere e diffondere liberamente il suo pensiero con parole, immagini o con qualsiasi altro mezzo, nonché il diritto di informare, di informarsi e di essere informato, senza ostacoli o discriminazioni» [traduzione dell’autore, n.d.r.] (articolo 37).

Nel recente passato, tuttavia, l’accesso ai mezzi di comunicazione di massa per la diffusione delle proprie idee era riservato a pochi, tanto che la Corte Costituzionale italiana, con particolare riferimento alla stampa, ha affermato che il principio secondo cui tutti hanno diritto di manifestare il proprio pensiero con ogni mezzo «non può significare che tutti debbano avere, di fatto, la materiale disponibilità di tutti i possibili mezzi di diffusione» (Corte Costituzionale, 15 giugno 1972, n. 105).

Oggi questo orientamento pare dover essere riconsiderato alla luce dello sviluppo tecnologico che consente di fatto a tutti di far conoscere il proprio pensiero a livello potenzialmente globale.

Internet offre a chiunque la possibilità di “comunicare” un’informazione ad uno o più soggetti determinati (si pensi all’uso dell’e-mail o dei forum) o “diffondere” le proprie idee ad un pubblico indeterminato (si pensi ad una pagina web accessibile a tutti) e, al tempo stesso, di ricercare dati da elaborare, notizie sulle quali poter meditare e formarsi un’opinione.

I motori di ricerca (si pensi a Google, Bing, Yahoo!, Ask, ecc.) sono divenuti, in breve tempo, i principali strumenti di accesso alle informazioni e i loro risultati sono capaci di guidare le scelte di milioni di utenti[2].

Alla facilità di scovare l’informazione desiderata si contrappone però il rischio di un controllo sui risultati delle ricerche ad opera di chi presta tale servizio. Apparire tra i primi risultati garantisce, infatti, una visibilità tale da poter fare la fortuna di un’impresa. Gli interessi in gioco non sono solo di carattere economico, in quanto i risultati potrebbero essere falsati anche per scelta “politica” o “ragion di stato”[3]. Filtri alla ricerca sia di parole che di immagini sono, ad esempio, imposti, per “motivi di sicurezza nazionale”, dal governo cinese alle società che operano sul suo territorio[4].

2. I motori di ricerca

I motori di ricerca, come noto, offrono risposte alle interrogazioni (o query) degli utenti attingendo da proprie banche dati, le quali vengono alimentate e aggiornate costantemente a mezzo di programmi (detti crawler o spider o robot) che “scandagliano” periodicamente tutti (o quasi) i contenuti presenti sul web[5]. Quando un navigatore attiva una ricerca, è all’interno del data base che il motore va a cercare le risposte, cioè all’interno dei suoi indici automatizzati. Il risultato fornito è un elenco di link ordinati in base a criteri di rilevanza che variano a seconda della formula di ranking utilizzata, ovvero, dell’algoritmo di analisi adottato dal singolo motore di ricerca per valutare, quantificandola, l’importanza del singolo risultato rispetto alla ricerca effettuata[6].

La formula di ranking costituisce lo strumento principale di concorrenza tra gli operatori del settore. Un motore di ricerca, infatti, sarà tanto più apprezzato dal mercato quanto più i risultati da esso forniti saranno vicini alle aspettative e alle esigenze degli utenti. Per questo motivo, non stupisce né che l’algoritmo adoperato sia coperto dalla più assoluta segretezza né che sia possibile ravvisare, nel posizionamento dei risultati, una certa tendenza commerciale ed un pregiudizio significativo e sistematico in favore delle preferenze di maggioranza. Per cogliere la portata di tale affermazione è sufficiente aver riguardo ad un semplice esempio: per la maggior parte delle enciclopedie la parola “Nike” sta ad indicare la «Divinità greca, personificazione della Vittoria»[7], mentre i primi risultati ottenuti digitando il medesimo termine all’interno di un motore di ricerca fanno riferimento ad una nota società che produce abbigliamento sportivo.

La ragione risiede principalmente nella scelta dei parametri (id est, dei fattori dell’algoritmo) impiegati per determinare il ranking: uno degli elementi che, ad esempio, viene preso in considerazione è la c.d. link popularity ovvero il numero complessivo dei collegamenti ipertestuali che indirizzano ad una determinata pagina web[8]. Ne consegue che l’ordine dei risultati non è dettato tanto dalla “pertinenza” rispetto all’interrogazione, quanto piuttosto dal livello di “popolarità” raggiunto dal singolo risultato. Per ovviare a questo inconveniente, alcune società hanno intrapreso una duplice via: da un lato, personalizzano il servizio tenendo conto dei dati relativi al singolo utente quali, ad esempio, la sua posizione geografica e le ricerche effettuate in precedenza; dall’altro, non svolgono più una ricerca basata su parole testuali, ma su parole concettuali. La ricerca diviene, cioè, “semantica”, in grado di interpretare i “contenuti” dei documenti, non fermandosi alla mera corrispondenza testuale tra quanto digitato e quanto presente sul Web[9].

3. I risultati di ricerca come “manifestazione del pensiero”

I titolari dei motori di ricerca hanno la possibilità, scegliendo opportunamente i parametri da impiegare o assegnando loro un diverso peso specifico, sia di influire sull’ordine di visualizzazione dei risultati sia, eventualmente, di escluderne alcuni. Tale circostanza – non di poco conto, potendo penalizzare alcune aziende e favorirne altre – ha dato luogo ad un vivace dibattito, ancora in corso, circa la necessità o meno di un intervento pubblico che regolamenti i risultati di ricerca o che, comunque, imponga ai motori di ricerca di rivelare gli algoritmi adoperati.

L’opportunità di adottare tali tipi di strumenti è sostenuta, in particolare, da chi ritiene che nei risultati dei motori di ricerca risieda un “interesse pubblico” da salvaguardare, stante la capacità di questi di influenzare le scelte economiche, e non solo, di milioni di persone[10].

Di diverso avviso è chi, prediligendo le regole del mercato, fa notare come quello dei motori di ricerca sia un business che si nutre della propria credibilità: saranno i consumatori a punire gli eventuali comportamenti opportunistici di qualcuno, rivolgendosi ad altri[11]. La convinzione è quella che le regole della concorrenza e del libero mercato siano da sole sufficienti ad escludere che i risultati di ricerca vengano “aggiustati”. Vi è di più, un intervento legislativo, volto ad imporre determinati criteri o a divulgare gli algoritmi impiegati, otterrebbe un effetto opposto a quello desiderato, in quanto renderebbe il processo di definizione dei risultati conosciuto, dunque, addomesticabile e, per questo, inaffidabile.

Le due argomentazioni, com’è evidente, muovono entrambe dal presupposto che il servizio offerto dai motori di ricerca sia da considerarsi “attività economica” e, come tale, bisognevole di un controllo pubblico, secondo gli uni, o da svolgersi in piena libertà, secondo gli altri.

La questione è stata affrontata diversamente dalla giurisprudenza statunitense, secondo la quale i risultati delle ricerche costituiscono “opinioni personali” e per questo sono tutelati dalla “libertà di parola”[12].

La “libertà di espressione” è riconosciuta dal Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America del 15 settembre 1787, il quale recita: «Il Congresso non potrà approvare alcuna legge per il riconoscimento di qualsiasi religione, o per proibire il libero culto; o per limitare la libertà di parola o di stampa, o il diritto che hanno i cittadini di riunirsi in forma pacifica e di inoltrare petizioni al Governo per la riparazione di torti subiti» [traduzione dell’autore, n.d.r.].

Secondo le Corti nord-americane ogni motore di ricerca esprime “opinioni diverse”, così come diversi sono i risultati che ciascuno di essi restituisce, in quanto frutto di metodi di risposta unici[13]: non esiste, dunque, una lista di risultati “corretta” (o “naturale”, o “neutrale”) di cui lamentare la diversità rispetto a quella visualizzata[14]. Per questo motivo, i motori di ricerca non possono essere considerati responsabili per gli eventuali danni derivanti da una “cattiva” collocazione di un sito all’interno della lista dei risultati; e ciò, anche qualora il titolare del sito dimostrasse in giudizio di aver subito una riduzione del volume di affari quale conseguenza diretta della mutata posizione della propria pagina web all’interno della lista dei risultati.

L’idea che i risultati della ricerca siano espressione della “libertà di parola” viene ripresa anche nel Libro bianco, First Amendment Protection for Search Engine Search Results, del 20 aprile 2012 commissionato dalla società Google[15]. Nel documento si afferma che i motori di ricerca sono degli «speakers» (poiché “parlano con gli utenti”) e che la selezione dei materiali, “scovati” in Rete e forniti come risposta alle query, è un «mix of science and art». Il “giudizio” sulla pertinenza dei risultati viene considerato una scelta di natura “editoriale”, al pari di quello espresso dalle testate giornalistiche o dalle tante “guide” che suggeriscono locali, musei, ristoranti, ecc. L’attività di raccolta, selezione e organizzazione delle informazioni svolta da queste ultime è ritenuta del tutto simile a quella dei motori di ricerca, anche se effettuata con l’ausilio di strumenti tecnologici.

4. La decisione della San Francisco Superior Court del 13 novembre 2014 

L’idea che l’ordine dei risultati di ricerca sia manifestazione della “libertà di parola” viene sostenuta da tempo dalla società Google, la quale l’ha “utilizzata” anche recentemente per rispondere in giudizio alle accuse che le erano state mosse da un sito web che lamentava di essere stato ingiustamente spinto in basso nei risultati di ricerca di Google, mentre risultava in cima a quelli di Bing e Yahoo!.

La società di Mountain View si è difesa presentando una mozione nella quale ha sostenuto che «i risultati di ricerca di Google esprimono l’opinione di Google su quali siti web siano più probabilmente utili per l’utente in risposta alla sua query e rientrano, pertanto e interamente, sotto la protezione del Primo Emendamento. Le decisioni di Google sul collocare o meno annunci pubblicitari su un particolare sito web riguardano la discrezionalità dell’editore e rientrano, pertanto, anch’esse sotto la protezione del Primo Emendamento. […] L’azione legale dell’attore è tesa a minare la libertà di espressione di Google per favorire i propri interessi a discapito di quelli della generalità degli utenti di Google. In altre parole, se si desse seguito alle pretese dell’attore, ogni sito web potrebbe intentare causa contro un motore di ricerca sostenendo che le decisioni editoriali del motore stesso non rispondano al suo interesse, chiedendo l’alterazione dei risultati di ricerca che hanno servito l’interesse di milioni di utenti» [traduzione dell’autore, n.d.r.][16].

La San Francisco Superior Court, investita della controversia, con provvedimento del 13 novembre 2014 si è pronunciata a favore di Google affermando, in poche righe, che i motori di ricerca svolgono «attività costituzionalmente protetta» [traduzione dell’autore, n.d.r.][17], la qual cosa implica il diritto di organizzare liberamente i risultati forniti agli utenti.

La decisione de qua ha sicuramente deluso i titolari dei siti web che si sentono – o forse sono – per la gran parte del loro traffico in balìa di Google e, più in generale, dei motori di ricerca poiché questi costituiscono ad oggi il principale strumento di accesso alle informazioni commerciali adoperato dai consumatori nonostante l’esistenza di siti di vendita al dettaglio come Amazon e eBay o dei social network.

5. Un possibile diverso approccio: la “manipolazione” dei risultati come “pubblicità occulta” 

Ritenere i risultati di ricerca espressione della libertà di manifestazione del pensiero, a mio parere, non implica una totale assenza di tutela contro una “manipolazione” del loro ordine di visualizzazione, in quanto ciò potrebbe costituire “pubblicità occulta”.

La differenza tra manifestazione del pensiero tout court e comunicazione commerciale (commercial speech) risiede, infatti, esclusivamente nello “scopo” economico delle affermazioni espresse.

La Corte costituzionale italiana è ferma nel ricondurre l’attività promozionale all’articolo 41 della Costituzione e nell’escludere che possa, invece, essere qualificata come «manifestazione del pensiero» in ragione dello scopo imprenditoriale che la caratterizza. La Consulta ha, in particolare, affermato che la pubblicità commerciale è da considerarsi «una componente dell’attività delle imprese, come tale assistita dalle garanzie di cui all’articolo 41 della Costituzione, e assoggettabile, in ipotesi, alle limitazioni ivi previste al secondo e terzo comma»[18]; ed, ancora, che la disposizione a tutela della libertà di espressione (articolo 21 della Costituzione) è finalizzata a garantire il libero dibattito su tematiche di interesse politico e culturale e non, invece, indirizzata ad invogliare il pubblico a determinati comportamenti e a precise scelte di mercato[19].

La comunicazione commerciale, in quanto sottoposta alle restrizioni previste dalla Carta costituzionale per l’iniziativa economica privata, risulta essere, pertanto, libera nell’an, ma vincolata nel quomodo, non potendo svolgersi «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (articolo 41, comma 2, Costituzione) e potendo «la legge» determinare «i programmi e i controlli opportuni perché […] possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali» (articolo 41, comma 3, Costituzione).

Tale impostazione è stata ribadita anche dalla Corte di Cassazione, la quale ha chiarito che «La “pubblicità commerciale” […] si pone […] fuori dell’area di protezione della garanzia su invocata [id est, dell’articolo 21 della Costituzione, n.d.r.], in quanto, pur estrinsecandosi anche attraverso elementi informativi è ontologicamente comunque caratterizzata dallo scopo ultimo (non di trasmettere il pensiero bensì) di promuovere comportamenti e scelte di modelli imitativi sul piano dell’attività quotidiana»[20].

A livello europeo, l’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconduce, invece, l’attività pubblicitaria alla libertà di parola[21]. Tale norma afferma, infatti, che: «Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera» (articolo 10, comma 1)[22].

La Corte europea dei diritti dell’uomo ha, tuttavia, da sempre ritenuto legittime le restrizioni alla libertà di espressione nel settore commerciale dettate dalla necessità di bilanciare questa con altri interessi di rango pari o superiore[23]. Tale orientamento muove dall’interpretazione della seconda parte dell’articolo 10, secondo la quale l’esercizio della libertà d’espressione «poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario» (articolo 10, comma 2).

Del medesimo avviso risulta essere anche la Corte di giustizia dell’Unione europea secondo la quale la difesa dei consumatori e la lealtà nei rapporti commerciali giustificano la restrizione, purché ragionevole e proporzionata, della libertà d’espressione nel settore commerciale[24].

Di fatto, quindi, sia la Corte europea dei diritti dell’uomo che la Corte di giustizia, pur riconducendo la pubblicità commerciale nell’alveo della libertà di manifestazione del pensiero, sono giunti a riconoscerle un livello di protezione non assoluto, bensì caratterizzato da vincoli e limiti imposti dalla finalità economica perseguita dal messaggio e dalla conseguente contemporanea presenza di ulteriori interessi (dei consumatori, dei professionisti e dei concorrenti) altrettanto meritevoli di tutela[25].

Ciò detto, va evidenziato come sia la disciplina italiana che la normativa comunitaria in materia di pubblicità ingannevole e comparativa accolgano una definizione di pubblicità improntata proprio sullo “scopo” del messaggio e non sulla forma utilizzata o sul mezzo di diffusione adoperato.

Per limitare l’analisi alla disciplina italiana, la nozione di «pubblicità» dettata dal Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 145 comprende «qualsiasi forma di messaggio che è diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere il trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di opere o di servizi oppure la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi» (articolo 2, comma 1, lett. a)[26].

Ebbene, la posizione di “favore” assunta da un indirizzo web nell’ordine dei risultati restituiti da un motore di ricerca, può essere qualificata, a mio avviso, proprio come “pubblicità” qualora ricorrano due condizioni: (i)il sito a cui rinvia il link risultato della ricerca deve avere natura – anche solo latamente – commerciale; (ii) vi deve essere un accordo di tipo economico tra il motore di ricerca e l’impresa titolare del sito. L’apparire agli occhi dell’utente come risultato “neutrale” della ricerca ne denota, poi, l’ingannevolezza in ragione della mancanza di “riconoscibilità” del messaggio pubblicitario.

La presenza di un “rapporto di committenza” è richiesta dalla normativa in materia di e-commerce al fine di distinguere la comunicazione commerciale dalle mere “opinioni personali” caratterizzate, queste ultime, dall’essere «elaborate in modo indipendente, in particolare senza alcun corrispettivo» (articolo 2, comma 1, lett. f), n. 2, Decreto Legislativo 9 aprile 2003, n. 70).

Il verificarsi di entrambe le condizioni – natura commerciale del sito promosso e accordo sottostante – consente di qualificare come pubblicità non riconoscibile e, quindi, «ingannevole» l’eventuale alterazione dei risultati forniti da un motore di ricerca posta in essere al precipuo scopo di attribuire maggiore visibilità ad un sito web a discapito di altri, poiché tali risultati vengono presentati come risultati “neutrali” della ricerca.

Ne consegue che sia i professionisti e/o concorrenti sia i consumatori (e le microimprese) potranno invocare gli strumenti di tutela approntati dalla disciplina in materia di comunicazioni commerciali, di cui rispettivamente al Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 145 e agli articoli 18 e seguenti del Codice del consumo.

Avv. Italo Cerno

 

[1] G. De Vergottini, Diritto costituzionale, Cedam, Padova, 2010, p. 333; T. Martines, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 2010, p. 565.

[2] Secondo il Parere 1/2008 sugli aspetti della protezione dei dati connessi ai motori di ricerca, adottato il 4 aprile 2008 dal Gruppo di lavoro ex articolo 29 per la protezione dei dati personali, i motori di ricerca sono «servizi che aiutano gli utenti a reperire informazioni sul web. Si differenziano in funzione dei diversi tipi di dati che mirano a recuperare, compresi immagini e/o video e/o suoni o altri tipi di formati. […] Nella direttiva sul commercio elettronico (2000/31/CE) i motori di ricerca sono stati definiti servizi della società dell’informazione, cioè strumenti per la localizzazione delle informazioni».

[3] D.M. Falk-E. Volokh, First Amendment Protection for Search Engine Search Results, Google, 2012, pp. 12 e ss. Nel white paper, commissionato dalla società Google, si sottolinea come ogni forma di ingerenza governativa sui risultati della ricerca sia da ritenersi lesiva della libertà di espressione e per questo inaccettabile. Il testo del report è disponibile all’URL: http://www.volokh.com/wp-content/uploads/2012/05/SearchEngineFirstAmendment.pdf (ultima consultazione il 26 novembre 2014).

[4] E. Bertolini, L’“apertura sorveglia”: la via cinese alla governance e alla censura di Internet, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2008, fascicolo 3, pp. 1063-1097.

[5] Il compito degli spider è quello di esplorare ogni angolo del Web alla ricerca dei siti dai quali estraggono intere colonne di testo che vengono poi inserite nei data base del motore di ricerca. È tecnicamente possibile impedire ad un motore di ricerca di “leggere” e, quindi, scansionare i contenuti di un sito, utilizzando file appositi da posizionare nella directory principale del server. La possibilità di un’analisi automatizzata dei contenuti presenti sul Web consente di realizzare anche servizi diversi rispetto a quello di ricerca. È, ad esempio, il caso del progetto scientifico “Voices from the Blogs” che, attraverso l’esame a mezzo software delle opinioni espresse su Internet, riesce a vagliare su singoli temi gli “umori” degli utenti più efficacemente di quanto riescano a fare i tradizionali sondaggi. Le informazioni e i risultati del progetto sono disponibili all’URL: http://voicesfromtheblogs.com/ (ultima consultazione il 26 novembre 2014).

[6] Sul funzionamento dei motori di ricerca, E.M. Tripodi, Gli strumenti del commercio elettronico: i motori di ricerca, in Disciplina del commercio e dei servizi, 2007, fascicolo 2, pp. 77 e ss.; P. Sammarco, Il motore di ricerca, nuovo bene della società dell’informazione: funzionamento, responsabilità e tutela della persona, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2006, fascicoli 4-5, pp. 621 e ss.; G. Cassano, Internet, meta-tag e concorrenza sleale, in Danno e responsabilità, 2002, fascicolo 5, pp. 546 e ss.; G. Cassano, Orientamento dei motori di ricerca, concorrenza sleale e meta-tag, in Il diritto di autore, 2001, fascicolo 4, pp. 435 e ss.

[7] Così Enciclopedia Treccani, voce Nike. Consultabile all’URL: http://www.treccani.it/enciclopedia/nike_res-3eb8aea1-e19d-11df-9ef0-d5ce3506d72e/ (ultima consultazione il 26 novembre 2014).

[8] I motori di ricerca trattano i link come dei “consigli” che un sito web offre ai propri visitatori. Un link ad un sito esterno è considerato come un “invito” per l’utente a visitare il sito che beneficia del collegamento ipertestuale. Ne consegue che i siti che ricevono un numero di link maggiore rispetto agli altri avranno una posizione migliore all’interno dei risultati dei motori di ricerca che si basano (anche se parzialmente) su tale criterio. La link popularity è uno degli indicatori presi in considerazione dai motori di ricerca che solitamente adottano alcuni correttivi volti ad evitare sia la penalizzazione dei siti nati da poco (che necessitano, pertanto, di molto tempo prima di ottenere una buona quantità di link) sia le distorsioni determinate dalle pratiche di search engine optimization finalizzate a posizionare un sito tra i primi risultati della ricerca.

[9] L’approccio “semantico” è adottato, ad esempio, dal 2012 dalla società Google. Sul “Web semantico”, T. Berneers-Lee-J. Hendler-O. Lassilla, The Semantic Web, in Scientific American, 284(5), 2001, pp. 34 e ss. Per una breve introduzione ai principi del “Web semantico”, R. Brighi, Norme e conoscenza: dal testo giuridico al metadato, Giuffrè, Milano, 2004, pp. 98 e ss.

[10] O. Bracha-F.A. Pasquale, Federal Search Commission? Access, Fairness, and Accountability in the Law of Search, in Cornell Law Review, 2008, pp. 1149 e ss.

[11] E. Goldman, Search Engine Bias and the Demise of Search Engine Utopianism, in Yale Journal of Law & Technology, 2006, pp. 188 e ss., il quale afferma: «[S]earchers will shop around if they do not get the results they want, and this competitive pressure constrains search engine bias» (p. 197).

[12] Northern District of California, 26 giugno 2006, Kinderstart.com vs. Google Inc.; Western District of Oklahoma, 23 maggio 2003, Search King vs. Google Inc.

[13] In Western District of Oklahoma, 23 maggio 2003, Search King vs. Google Inc., viene affermato che: «PageRanks are opinions – opinions of the significance of particular web sites as they correspond to a search query. Other search engines express different opinions, as each search engine’s method of determining relative significance is unique».

[14] In Northern District of California, 26 giugno 2006, Kinderstart.com vs. Google Inc., viene dichiarato che: «PageRank is a creature of Google’s invention and does not constitute an independently-discoverable value. In fact, Google might choose to assign PageRanks randomly, whether as whole numbers or with many decimal places, but this would not create “incorrect” PageRanks».

[15] D.M. Falk-E. Volokh, First Amendment Protection for Search Engine Search Results, Google, 2012.

[16]Memorandum of points and authorities in support of defendant Google Inc. to strike Plaintiff’s complaint pursuant to civ. proc. code § 425.16, 29 agosto 2014. Il testo della mozione è disponibile all’URL: http://www.scribd.com/doc/246883191/Google-SLAPP-Suit (ultima consultazione il 26 novembre 2014).

[17] Superior Court of the State of California – County of San Francisco, 13 novembre 2014, S. Louis Martin vs. Google Inc. Il testo della decisione è disponibile all’URL: http://digitalcommons.law.scu.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1875&context=historical (ultima consultazione il 26 novembre 2014)

[18]Corte Costituzionale, 17 ottobre 1985, n. 231.

[19] In senso conforme, P. Auteri, La disciplina della pubblicità, in Aa.Vv., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, Giappichelli, Torino, 2009, p. 374, il quale afferma che in materia pubblicitaria la libertà di iniziativa economica prevale su quella di espressione, ma precisa che le opinioni o le informazioni non strettamente funzionali alla promozione di prodotti o servizi, pur veicolate dalla pubblicità, godono della garanzia offerta dall’articolo 21 della Costituzione; E. Roppo, Pubblicità televisiva ed emittenti private. A proposito di “spots”, di diritto morale d’autore e di qualche altra cosa, in Il foro italiano, 1983, fascicolo 4, p. 1144; G. Ghidini, Introduzione allo studio della pubblicità commerciale, Giuffrè, Milano, 1968, p. 229. Contra: R. Zaccaria, Diritto dell’informazione e della comunicazione, Cedam, Padova, 2004, p. 9, il quale ritiene che i messaggi promozionali vadano ricondotti all’articolo 21 della Costituzione in quanto non sempre risultano essere strumentali all’iniziativa economica, come nel caso delle campagne pubblicitarie dei partiti politici; L. Principato, Il fondamento costituzionale della libertà di comunicazione pubblicitaria, in Giurisprudenza costituzionale, 2003, fascicolo 1, p. 546, secondo il quale la pubblicità commerciale è una comunicazione oggetto della libertà di manifestazione del pensiero, che può anche rilevare come strumento dell’attività economica; R. Pardolesi, Ripetitori esteri e pubblicità: dall’oscuramento all’oscurantismo?, in Il foro italiano, 1985, fascicolo 11, p. 2830, il quale sostiene che bisognerebbe guardare alla pubblicità non alla stregua di attività organizzata di promozione commerciale, bensì quale comunicazione al pubblico di contenuti informativi, sia pure diretti ad un risultato lucrativo.

[20] Cassazione, Sezione Prima, 23 novembre 1999, n. 12993. Per un commento della sentenza, F. Rampone, La pubblicità commerciale tra libertà di manifestazione del pensiero e libertà di iniziativa economica, in Giustizia civile, 2000, fascicolo 1, pp. 31-40.

[21] P. Sammarco, Libertà di espressione, comunicazioni pubblicitarie e loro restrizioni nella giurisprudenza comunitaria, in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, 2009, fascicolo 3, pp. 479 e ss.

[22] La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, è stata ratificata dal Presidente della Repubblica italiana in seguito ad autorizzazione conferitagli dalla Legge 4 agosto 1955, n. 848, in Gazzetta Ufficiale 24 settembre 1955, n. 221.

[23] Ex multis, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 28 giugno 2001, VGT Verein gegen Tierfabriken c. Svizzera, punti 69 e 70; Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 20 novembre 1989, Markt intern Verlag GmbH e Klaus Beermann c. Germania, punti 33 e 35.

[24] Ex multis, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 25 marzo 2004, C-71/02, Karner, punto 51; Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 23 ottobre 2003, C‑245/01, RTL Television, punto 73.

[25] C. Berti, Pubblicità scorretta e diritto dei terzi, Giuffrè, Milano, 2000, pp. 105-106.

[26] Il Decreto Legislativo 2 agosto 2007, n. 145 ha dato attuazione alla Direttiva 2006/114/CE concernente la pubblicità ingannevole e comparativa, già Direttiva 84/450/CE come modificata dall’articolo 14 della Direttiva 2005/29/CE. Per un commento, L.C. Ubertazzi (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Cedam, Padova, 2012, pp. 2299 e ss.