x

x

Luci ed ombre della consulenza tecnica preventiva ex articolo 696 bis c.p.c.

L’istituto previsto dalla richiamata normativa è di recente introduzione nell’impianto del codice di procedura civile – essendo avvenuta con il famoso <decreto competitività> del 2005, poi convertito nella L. 80/2005 – e risponde anch’esso alla finalità fatta propria dal richiamato decreto, di rendere più spediti i tempi della giustizia civile e, al tempo stesso, di ridurre il carico di lavoro incombente sugli uffici giudiziari.

Per le caratteristiche conferitegli dal Legislatore del 2005, lo strumento processuale rientra innanzitutto nella categoria di quei procedimenti sommari, di istruzione preventiva non cautelari, e soprattutto va evidenziato che la peculiarità attribuitagli dal Legislatore è che lo stesso possiede (anche) una finalità conciliativa, che senza dubbio lo rende unico all’interno del codice di procedura civile.

Per meglio comprendere la ratio dell’istituto in questione nonché all’evidenza le ragioni di politica legislativa sottostanti alla sua introduzione nel codice di rito civile, appare opportuno un breve richiamo a quanto emerge dai Lavori Preparatori della Commissione che a suo tempo si è occupata della riforma del processo civile, dal cui esame si ricava che la predetta commissione ha espresso alcune considerazioni che si possono così brevemente riassumere:

a) esaminando la concreta realtà dei processi, si ricava che nella maggior parte dei casi le parti controvertono in ordine a questioni meramente de facto, per cui una volta che il fatto controverso venga attraverso l’istruttoria acclarato (ovviamente in un senso ovvero nell’altro) – e salve altrettanto ovviamente le sempre possibili contestazioni sulle modalità in cui l’istruttoria è stata svolta – si riesce a raggiungere una soluzione

conciliativa della lite;

b) se tanto è vero, va da sé che, ove quell’accertamento che nella maggior parte dei casi viene realizzato in sede endoprocessuale, si riesca a raggiungere prima che un processo venga instaurato, allora le controversie di cui si è detto – ovvero quelle che nascono per un contrasto meramente fattuale e non di diritto – con elevate probabilità mai entreranno in un’aula di tribunale;

c) risultato, questo, possibile se e nei limiti in cui, in relazione a tali tipologie di controversie, le parti si dimostrino capaci di raggiungere e quindi anticipare la formazione della prova, e quindi risolvere il contrasto sul fatto, prima di fare causa;

d) tuttavia, sino a quel momento la possibilità di anticipare la formazione della prova rispetto – ma anche indipendentemente – alla introduzione di un giudizio sussisteva solo in presenza di un presupposto specifico e ben determinato, rappresentato dall’esistenza del c.d. periculum in mora, di guisa che ove tale pericolo non fosse ravvisabile, tale possibilità era preclusa; da tale situazione discendeva la natura essenzialmente - se non esclusivamente – cautelare, della istruzione preventiva per cui, prescindendo dal presupposto in questione, sarebbe possibile realizzare un generalizzato allargamento di tale possibilità;

e) si è altresì riscontrato come il sistema previdente scontava un ulteriore difetto/limite, costituito dall’ambito di operatività molto ridotta dei procedimenti di accertamento tecnico preventivo, istituzionalmente limitati e circoscritti alla realizzazione di una fotografia della situazione, ed in quanto tali non in grado di superare e comporre il contrasto fattuale – la c.d. questio facti – di cui si è detto in precedenza, per cui il passo successivo è stato inevitabilmente quello di introdurre, ante causam, una consulenza tecnica praticamente identica a quella disposta nel corso del giudizio, onde permettere il raggiungimento del medesimo risultato prima ed indipendentemente da un procedimento contenzioso ordinario.

Su tali premesse, evidente appare la ratio legis alla base dell’istituto previsto dall’art. 696 bis c.p.c., ovvero quella di introdurre uno strumento che, tutte le volte in cui tramite il ricorso ad esso le parti siano in grado di accertare e ricostruire il fatto storico oggetto della controversia, si riveli in grado di deflazionare il carico del contenzioso ordinario ed al tempo stesso garantire alle parti la sollecita realizzazione di un diritto che, al contrario, in concreto moltissime volte proprio nel processo ordinario – che dovrebbe essere la sua prima e maggiore garanzia - trova il suo maggiore ostacolo, data la abituale lunghezza di quest’ultimo.

In quest’ottica, allora, si spiega la introduzione, per il Consulente, della facoltà di provare a conciliare le parti, ovviamente ove ciò risulti possibile sulla scorta delle posizioni assunte dalle parti.

Orbene, se sul piano teorico non dovrebbero sorgere dubbi da tale dictum della norma, va tuttavia tenuto presente che di essa non può farsi una interpretazione e conseguente applicazione generalizzata ed indistinta, poiché come appresso si dirà la stessa non è suscettibile di essere applicata a qualsivoglia fattispecie, poiché diversamente, ove se ne ammettesse una applicabilità generalizzata, in tale ultima ipotesi non è affatto difficile prevedere che la stessa venga a contrastare non solo con i principi regolatori del rito civile ma anche e soprattutto con l’art. 24 della Costituzione.

In sostanza, la paventata applicazione generalizzata dell’istituto ex art. 696 bis c.p.c. rischia concretamente di pregiudicare il diritto alla difesa delle parti e la garanzia di una vera tutela giurisdizionale, dal momento che verrebbe ad attribuire ai consulenti di volta in volta nominati poteri che non gli competono, ove solo si tenga presente che gli stessi, oltre a descrivere e valutare il fatto, si troverebbero a conoscere – del tutto irritualmente – anche quelli che sono i profili giuridici connessi alla questione di fatto.

Allora, la conseguenza è che il riconoscere al consulente il potere di accertare e determinare i crediti, come loro permesso dal 696 bis c.p.c. comporta che il medesimo si troverebbe ad effettuare anche una valutazione dal punto di vista del diritto di quelle che sono le condotte delle parti: tanto per fare alcune ipotesi, il consulente verrebbe a pronunciarsi sulla imputabilità di un danno, a valutare se una condotta costituisca adempimento e/o inadempimento di un contratto ovvero sulla validità di una obbligazione che deriva dalla questione di fatto controversa.

Questo sostituirsi del consulente al giudice è indubbiamente un serio problema ed il suo rischio appare ancora più elevato in riferimento a delle fattispecie particolari, quali ad esempio quelle in cui si controverta circa una presunta colpa professionale medica, che non si esaurisce affatto solo nel ricostruire il fatto alla luce di criteri medico-scientifici ed a successivamente quantificare l’eventuale danno, ma richiede necessariamente che il giudice proceda prima a verificare la sussistenza, e poi a valutare dal punto di vista giuridico, anche di ulteriori e certo non meno importanti aspetti attinenti ad un giudizio di responsabilità e conseguente imputabilità del fatto e delle eventuali conseguenze dannose derivatene.

Invero, proprio per la delicatezza intrinseca di una simile fattispecie, innanzitutto il rischio di un pregiudizio del diritto alla difesa delle parti è ancora più elevato, ove solo si pensi che il consulente dovrebbe affrontare e risolvere le eccezioni giuridiche delle parti – senza ovviamente avere alcuna cognizione in merito – e che le stesse non avrebbero la possibilità di fare valere le proprie ragioni attraverso la rispettiva prospettazione ed allegazione dei fatti, data la differente natura di tale procedimento.

Inoltre, e questo certo non è un problema minore, il consulente, da ausiliario del giudice quale è e quale lo prevede il codice di procedura civile, si sostituisce completamente a quest’ultimo, e compie al suo posto una serie di attività molto delicate pur in difetto della necessaria competenza e preparazione !

In tal modo, si corre il serio e grave duplice rischio innanzitutto di esautorare il giudice di merito dalla funzione giurisdizionale che istutizionalmente gli appartiene, che viene così trasferita ad un soggetto che certo non si appalesa idoneo a svolgerla, pregiudizio che rivela a maggiore ragione la sua gravità e nocività in tutte quelle ipotesi delicate ove sussistano delicati e contrapposti interessi delle parti, che appunto per loro natura non possono assolutamente prescindere dalla garanzia giurisdizionale rappresentata da un processo ordinario a cognizione piena, poichè sotto tale profilo non appare certo fuori luogo ipotizzare anche una violazione degli artt. 2 4 e 25 Cost.

Infine, non va poi trascurato che, di fatto, detto istituto sconta potenzialmente un ulteriore limite in termini di sua applicabilità e diffusione, ovvero il fatto che – come sostenuto da autorevole dottrina processualcivilistica (G. Balena) - il giudice dovrebbe rigettare la richiesta tutte le volte in cui le parti controvertono sull’AN della pretesa e, dalle reciproche allegazioni, assai distanti tra loro, emerga la pratica impossibilità di prevedere che essi si concilino, per cui una tale situazione di fatto – che nella pratica si verifica molto frequentemente, in particolare nelle fattispecie avente ad oggetto il risarcimento del danno da presunta colpa medica ma anche da sinistro stradale, tutte ipotesi dove prima, perchè possa tentarsi una conciliazione, occorre svolgere una completa e a volte complessa attività istruttoria in contraddittorio tra tutte le parti che certo non può essere compiuta dal consulente – senza dubbio potrebbe limitare e/o condizionare l’utilità del ricorso a tale strumento, vanificando – sotto altro profilo – la innovazione introdotta dal Legislatore.

L’istituto previsto dalla richiamata normativa è di recente introduzione nell’impianto del codice di procedura civile – essendo avvenuta con il famoso <decreto competitività> del 2005, poi convertito nella L. 80/2005 – e risponde anch’esso alla finalità fatta propria dal richiamato decreto, di rendere più spediti i tempi della giustizia civile e, al tempo stesso, di ridurre il carico di lavoro incombente sugli uffici giudiziari.

Per le caratteristiche conferitegli dal Legislatore del 2005, lo strumento processuale rientra innanzitutto nella categoria di quei procedimenti sommari, di istruzione preventiva non cautelari, e soprattutto va evidenziato che la peculiarità attribuitagli dal Legislatore è che lo stesso possiede (anche) una finalità conciliativa, che senza dubbio lo rende unico all’interno del codice di procedura civile.

Per meglio comprendere la ratio dell’istituto in questione nonché all’evidenza le ragioni di politica legislativa sottostanti alla sua introduzione nel codice di rito civile, appare opportuno un breve richiamo a quanto emerge dai Lavori Preparatori della Commissione che a suo tempo si è occupata della riforma del processo civile, dal cui esame si ricava che la predetta commissione ha espresso alcune considerazioni che si possono così brevemente riassumere:

a) esaminando la concreta realtà dei processi, si ricava che nella maggior parte dei casi le parti controvertono in ordine a questioni meramente de facto, per cui una volta che il fatto controverso venga attraverso l’istruttoria acclarato (ovviamente in un senso ovvero nell’altro) – e salve altrettanto ovviamente le sempre possibili contestazioni sulle modalità in cui l’istruttoria è stata svolta – si riesce a raggiungere una soluzione

conciliativa della lite;

b) se tanto è vero, va da sé che, ove quell’accertamento che nella maggior parte dei casi viene realizzato in sede endoprocessuale, si riesca a raggiungere prima che un processo venga instaurato, allora le controversie di cui si è detto – ovvero quelle che nascono per un contrasto meramente fattuale e non di diritto – con elevate probabilità mai entreranno in un’aula di tribunale;

c) risultato, questo, possibile se e nei limiti in cui, in relazione a tali tipologie di controversie, le parti si dimostrino capaci di raggiungere e quindi anticipare la formazione della prova, e quindi risolvere il contrasto sul fatto, prima di fare causa;

d) tuttavia, sino a quel momento la possibilità di anticipare la formazione della prova rispetto – ma anche indipendentemente – alla introduzione di un giudizio sussisteva solo in presenza di un presupposto specifico e ben determinato, rappresentato dall’esistenza del c.d. periculum in mora, di guisa che ove tale pericolo non fosse ravvisabile, tale possibilità era preclusa; da tale situazione discendeva la natura essenzialmente - se non esclusivamente – cautelare, della istruzione preventiva per cui, prescindendo dal presupposto in questione, sarebbe possibile realizzare un generalizzato allargamento di tale possibilità;

e) si è altresì riscontrato come il sistema previdente scontava un ulteriore difetto/limite, costituito dall’ambito di operatività molto ridotta dei procedimenti di accertamento tecnico preventivo, istituzionalmente limitati e circoscritti alla realizzazione di una fotografia della situazione, ed in quanto tali non in grado di superare e comporre il contrasto fattuale – la c.d. questio facti – di cui si è detto in precedenza, per cui il passo successivo è stato inevitabilmente quello di introdurre, ante causam, una consulenza tecnica praticamente identica a quella disposta nel corso del giudizio, onde permettere il raggiungimento del medesimo risultato prima ed indipendentemente da un procedimento contenzioso ordinario.

Su tali premesse, evidente appare la ratio legis alla base dell’istituto previsto dall’art. 696 bis c.p.c., ovvero quella di introdurre uno strumento che, tutte le volte in cui tramite il ricorso ad esso le parti siano in grado di accertare e ricostruire il fatto storico oggetto della controversia, si riveli in grado di deflazionare il carico del contenzioso ordinario ed al tempo stesso garantire alle parti la sollecita realizzazione di un diritto che, al contrario, in concreto moltissime volte proprio nel processo ordinario – che dovrebbe essere la sua prima e maggiore garanzia - trova il suo maggiore ostacolo, data la abituale lunghezza di quest’ultimo.

In quest’ottica, allora, si spiega la introduzione, per il Consulente, della facoltà di provare a conciliare le parti, ovviamente ove ciò risulti possibile sulla scorta delle posizioni assunte dalle parti.

Orbene, se sul piano teorico non dovrebbero sorgere dubbi da tale dictum della norma, va tuttavia tenuto presente che di essa non può farsi una interpretazione e conseguente applicazione generalizzata ed indistinta, poiché come appresso si dirà la stessa non è suscettibile di essere applicata a qualsivoglia fattispecie, poiché diversamente, ove se ne ammettesse una applicabilità generalizzata, in tale ultima ipotesi non è affatto difficile prevedere che la stessa venga a contrastare non solo con i principi regolatori del rito civile ma anche e soprattutto con l’art. 24 della Costituzione.

In sostanza, la paventata applicazione generalizzata dell’istituto ex art. 696 bis c.p.c. rischia concretamente di pregiudicare il diritto alla difesa delle parti e la garanzia di una vera tutela giurisdizionale, dal momento che verrebbe ad attribuire ai consulenti di volta in volta nominati poteri che non gli competono, ove solo si tenga presente che gli stessi, oltre a descrivere e valutare il fatto, si troverebbero a conoscere – del tutto irritualmente – anche quelli che sono i profili giuridici connessi alla questione di fatto.

Allora, la conseguenza è che il riconoscere al consulente il potere di accertare e determinare i crediti, come loro permesso dal 696 bis c.p.c. comporta che il medesimo si troverebbe ad effettuare anche una valutazione dal punto di vista del diritto di quelle che sono le condotte delle parti: tanto per fare alcune ipotesi, il consulente verrebbe a pronunciarsi sulla imputabilità di un danno, a valutare se una condotta costituisca adempimento e/o inadempimento di un contratto ovvero sulla validità di una obbligazione che deriva dalla questione di fatto controversa.

Questo sostituirsi del consulente al giudice è indubbiamente un serio problema ed il suo rischio appare ancora più elevato in riferimento a delle fattispecie particolari, quali ad esempio quelle in cui si controverta circa una presunta colpa professionale medica, che non si esaurisce affatto solo nel ricostruire il fatto alla luce di criteri medico-scientifici ed a successivamente quantificare l’eventuale danno, ma richiede necessariamente che il giudice proceda prima a verificare la sussistenza, e poi a valutare dal punto di vista giuridico, anche di ulteriori e certo non meno importanti aspetti attinenti ad un giudizio di responsabilità e conseguente imputabilità del fatto e delle eventuali conseguenze dannose derivatene.

Invero, proprio per la delicatezza intrinseca di una simile fattispecie, innanzitutto il rischio di un pregiudizio del diritto alla difesa delle parti è ancora più elevato, ove solo si pensi che il consulente dovrebbe affrontare e risolvere le eccezioni giuridiche delle parti – senza ovviamente avere alcuna cognizione in merito – e che le stesse non avrebbero la possibilità di fare valere le proprie ragioni attraverso la rispettiva prospettazione ed allegazione dei fatti, data la differente natura di tale procedimento.

Inoltre, e questo certo non è un problema minore, il consulente, da ausiliario del giudice quale è e quale lo prevede il codice di procedura civile, si sostituisce completamente a quest’ultimo, e compie al suo posto una serie di attività molto delicate pur in difetto della necessaria competenza e preparazione !

In tal modo, si corre il serio e grave duplice rischio innanzitutto di esautorare il giudice di merito dalla funzione giurisdizionale che istutizionalmente gli appartiene, che viene così trasferita ad un soggetto che certo non si appalesa idoneo a svolgerla, pregiudizio che rivela a maggiore ragione la sua gravità e nocività in tutte quelle ipotesi delicate ove sussistano delicati e contrapposti interessi delle parti, che appunto per loro natura non possono assolutamente prescindere dalla garanzia giurisdizionale rappresentata da un processo ordinario a cognizione piena, poichè sotto tale profilo non appare certo fuori luogo ipotizzare anche una violazione degli artt. 2 4 e 25 Cost.

Infine, non va poi trascurato che, di fatto, detto istituto sconta potenzialmente un ulteriore limite in termini di sua applicabilità e diffusione, ovvero il fatto che – come sostenuto da autorevole dottrina processualcivilistica (G. Balena) - il giudice dovrebbe rigettare la richiesta tutte le volte in cui le parti controvertono sull’AN della pretesa e, dalle reciproche allegazioni, assai distanti tra loro, emerga la pratica impossibilità di prevedere che essi si concilino, per cui una tale situazione di fatto – che nella pratica si verifica molto frequentemente, in particolare nelle fattispecie avente ad oggetto il risarcimento del danno da presunta colpa medica ma anche da sinistro stradale, tutte ipotesi dove prima, perchè possa tentarsi una conciliazione, occorre svolgere una completa e a volte complessa attività istruttoria in contraddittorio tra tutte le parti che certo non può essere compiuta dal consulente – senza dubbio potrebbe limitare e/o condizionare l’utilità del ricorso a tale strumento, vanificando – sotto altro profilo – la innovazione introdotta dal Legislatore.