x

x

Manzoni vs. Le Monnier

Disputa sul diritto d’autore nell’Italia dell’Ottocento
«A togliere gli autori dalla misera condizione in cui si trovarono quando era incerto se fosse protetta la proprietà letteraria o la contraffazione operarono gli stessi loro nemici: i contraffattori. Avendo questi, sotto l’influsso anche della rivoluzione francese, che portò all’abolizione di tutti i privilegi e rivendicazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, cominciato a combattere il diritto d’autore come un privilegio ingiusto e dannoso, si accese in tutte le nazioni civili… la discussione sulla natura e i limiti della proprietà letteraria»[1]. 

Con queste parole di Achille de Rubertis si chiarisce come la rivoluzione francese avesse portato in luce il problema relativo a una regolamentazione della tutela del diritto d’autore. Mentre in Inghilterra e in Francia già si era ottenuto qualcosa negli ultimi decenni del XVIII secolo (si ricordi in proposito anche il dibattito sulla regolazione dei diritti d’autore che vede protagonista Caron de Beaumarchais e le cui vicende sono raccontate nel documento Compte-rendu de l’affaire des auteurs dramatiques et des Comédiens français), l’Italia, a causa della mancata unificazione del paese, doveva fare i conti con governi diversi e dunque l’attuazione di una qualsiasi legge volta a proteggere gli autori si scontrava con l’opposizione non di uno ma di vari governi.

La legge cisalpina del 19 fiorile anno IX repubblicano (9 maggio 1801) proclamava: «Considerando che le produzioni dell’ingegno sono la più preziosa, e la più sacra delle proprietà…». Proprietà e produzioni dell’ingegno erano per la prima volta associate in un testo ufficiale e questo rappresentava un grosso passo avanti rispetto alle vecchie legislazioni. Sostanzialmente questa legge riservava grossi diritti agli autori e ai loro eredi per dieci anni, «il diritto esclusivo di vendere, far vendere, distribuire le opere loro nel Territorio Cisalpino, e di cederne la proprietà, in tutto o in parte»[2]; gli scrittori potevano anche intervenire contro contraffattori, a patto che avessero depositato due copie della propria opera alla Biblioteca Nazionale.

È significativo notare come il termine contraffazione fosse già di largo uso prima della formulazione di qualsiasi principio di diritto d’autore o di proprietà letteraria. Ne davano una prima definizione anche Diderot e D’Alambert nell’Encyclopédie. «“Contraffazione”: s. f., termine dell’arte libraria, che significa edizione o parte di edizione di un libro contraffatto, ovvero stampato da qualcuno che non ne possiede il diritto, a pregiudizio di colui che lo detiene in virtù della proprietà ceduta dall’autore – proprietà resa pubblica e autentica tramite privilegio concesso dal Re, o da altre equivalenti istanze sovrane»[3]. Di questo male ne soffrivano tutti gli stati italiani, ma in particolar modo il problema colpiva il Regno di Napoli.

La legge cisalpina doveva affrontare tali problematiche, ma soprattutto confrontarsi con un equivoco che risultava troppo famigliare ai legislatori del tempo: la confusione tra diritto e privilegio. Non si voleva riconoscere a tutti gli autori il medesimo diritto, poiché esistevano autori meritevoli, ma anche autori mediocri, e quindi si riteneva ingiusto concedergli lo stesso diritto, che era considerato essere esattamente un privilegio. «Prima che venisse proclamato il principio della proprietà letteraria, il diritto degli autori non fu che un privilegio. Questo diritto acquistò un valore venale ed entrò nel commercio con l’invenzione della stampa. Nacque allora la proprietà letteraria e con essa la contraffazione,... la “pirateria letteraria”»[4].

Durante la Restaurazione venivano emanate altre leggi volte a difendere il diritto d’autore ma il problema rimaneva sempre quello dell’applicazione al di fuori dei confini dei singoli Stati della penisola. «Il sorgere di un mercato dei libri esteso all’intera comunità linguistica, anche in virtù del diffondersi di nuovi generi letterali destinati al grande pubblico, si scontrava con il persistere di divisioni territoriali e barriere doganali. Era chiaro che, in mancanza di reciproci accordi internazionali, ogni provvedimento legislativo sarebbe risultato vano»[5]. Nel corso degli anni anche i librai arrivarono a comprendere come l’ostacolo principale alla crescita del commercio librario fosse la mancanza di una tutela della proprietà letteraria a livello internazionale, capace di bloccare le ristampe non autorizzate in qualsiasi parte della penisola; ma sembrava che nessun governo fosse interessato a prendere l’iniziativa per avviare un provvedimento internazionale contro ristampe e in favore del diritto d’autore. Fra i letterati del tempo cominciava così un acceso dibattito che coinvolgeva ad esempio Gian Pietro Viesseux, Melchiorre Gioia, Giuseppe Pomba e Cesare Cantù; quest’ultimo scrive:

«Un superbo fastidio tradizionale fa che, qualora si parli di guadagno o di danaro in proposito di lavori d’ingegno, sorga o riso o indignazione. Riso di chi assistendo alla vita come ad una commedia, trae in mezzo l’antico divorzio dell’oro col sapere; indignazione in chi, spartanamente ozioso, chiama profanazione il mescolare i beni materiali colle ricchezze dell’ingegno […]. Dottrine esagerate l’una e l’altra: ché la società nostra, grazie a Dio, più non è a quei tempi ove il letterato bassamente invocava la protezione d’un ricco o d’un potente, e con lodi vigliacche ne comprava il pane che sa tanto di sale. Avvicinandosi più sempre alla condizione ove ogni uomo sia retribuito secondo l’opera, anche i letterati credono onoratissimo modo di guadagno l’uso del proprio ingegno»[6].

Queste le premesse che portarono artisti, editori, letterati e autori a chiedere e spingere i governi verso quell’accordo internazionale a tutela del diritto d’autore, di cui da anni si sentiva la necessità.

La convenzione del 1840

Preceduta da un anno di trattative e discussioni, il 22 maggio del 1840 fu firmata a Vienna la convenzione internazionale sui diritti d’autore tra l’Austria e il Regno di Sardegna. «Su pressione dell’opinione pubblica liberale, i due governi si impegnano a garantire il diritto dell’autore alla piena proprietà dell’opera e a impedire la contraffazione nei rispettivi paesi, perseguendo penalmente l’eventuale responsabile»[7]. All’articolo 27, i due stati contraenti invitavano gli altri Governi d’Italia e il Cantone Ticino ad aderire alla convenzione, proprio per proteggere e tutelare tutti gli autori. Nei mesi successivi rispondevano firmando la convenzione tutti gli Stati della Penisola, tranne il Regno delle Due Sicilie (nel 1816, dopo il Congresso di Vienna, venivano soppressi il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia, e si formava così un unico governo con una sola costituzione: il Regno delle Due Sicilie). Questa mancata adesione rappresentava due grossi problemi per l’attuazione della convenzione.

In primo luogo, il Regno delle Due Sicilie era la più grande entità italiana e, non sottoscrivendo il trattato, isolava completamente il proprio mercato editoriale.

Il secondo problema nasceva sulla considerazione di come il territorio napoletano fosse la patria dei contraffattori e delle ristampe non autorizzate: era proprio quello che la convenzione cercava di punire ma nel momento in cui quel singolo governo decideva di non aderire, risultava chiaro come gli effetti della legge si limitassero e fossero poco efficaci.

«Il Regno delle Due Sicilie era il paese dove più di frequente le opere venivan ristampate; e, poiché l’intervento della polizia degli altri Stati non sempre, o forse mai, riusciva ad arrestarne la diffusione, gli editori si videro costretti a patteggiar con i contraffattori cedendo loro parte dei sudati guadagni, purché rinunziassero a qualche illecita impresa. Tale appunto fu, nel novembre del 1842, a Firenze per esempio, il caso di Felice Le Monnier, il quale, avendo iniziata la stampa del Discorso sulle storie italiane di Giuseppe Borghi, mentre questi invocava e otteneva dal granduca il divieto d’introduzione e vendita, e in Toscana e in tutti gli altri Stati d’Italia, della contraffazione annunziata a Napoli e a Palermo, preferì accordarsi con i contraffattori sacrificando così, a scanso di maggior danno, sé stesso e l’autore. Né solo nel Regno delle Due Sicilie, l’unico in Italia che non avesse aderito al trattato austro-sardo, ma anche negli altri Stati gli editori continuarono abusivamente a ristampare soprattutto le opere pubblicate prima del 1840. Tra i contraffattori dispiace annoverar lo stesso Le Monnier, per generosità e audacia pur tanto benemerito della cultura e del nostro risorgimento»[8].

Proprio Felice Le Monnier, insieme ad Alessandro Manzoni, divenne uno dei protagonisti della disputa intorno a una questione di proprietà letteraria.

Premesse alla disputa tra Manzoni e Le Monnier

Felice Le Monnier arrivava a Firenze nel 1831 con l’intenzione di fare solo una breve sosta per aspettare un amico e poi partire insieme verso la Grecia dove avrebbero creato una tipografia. La morte dell’amico lo costringeva a fermarsi nella città italiana, dove usava due lettere di raccomandazioni, una per Viesseux e l’altra per Davide Passigli, consegnategli dall’editore parigino Giulio Renouard.

Nel 1837 Le Monnier rilevava completamente la tipografia del Passigli e cominciava a pubblicare vari titoli. Nel 1843 pensava di iniziare una collana dal titolo Fiore dei Tragici italiani antichi e moderni, raccolta che non poteva fare a meno del Conte di Carmagnola e dell’Adelchi di Alessandro Manzoni. Il 9 gennaio l’editore scriveva all’autore chiedendo la sua approvazione e autorizzazione, ma quest’ultimo il 13 gennaio, pur lusingato dalla proposta, la rifiutava poiché era già in trattative con un libraio per una seconda edizione.

Le Monnier non si aspettava tale risposta e dopo essersi consigliato con alcuni amici, decideva comunque di procedere nella pubblicazione, poiché giudicava la richiesta all’autore solo un atto di cortesia, e non necessaria ai fini della sua opera, in base alla propria personale interpretazione dell’articolo 14 della convenzione austro sarda che stabiliva:

«La presente convenzione non farà ostacolo alla libera produzione nei rispettivi Stati di opere che fossero già pubblicate in alcuni di essi prima che la detta convenzione fosse posta in vigore, purché la riproduzione abbia avuto cominciamento, e sia stata legalmente autorizzata avanti di quel tempo. Qualora però si fosse pubblicata parte di un’opera, prima che la presente convenzione fosse posta in esecuzione, e parte dopo, la riproduzione di questa ultima parte non sarà permessa che col consenso dell’autore o dei suoi aventi causa purché i medesimi si dichiarino pronti a vendere agli associati la continuazione dell’opera senza obbligarli all’acquisto dei volumi dei quali fossero già possessori»[9].

Dopo aver avvisato il Manzoni, questo rispondeva:

«Non avendo io potuto ottener da Lei che mi fosse risparmiato il danno della ristampa delle mie quali si siano tragedie, e ciò ch’era molto più grave per me, il dispiacere di vederle in un posto distinto, e quindi odioso, al quale io non avevo certamente avuto l’arroganza di destinarle, non mi restava che il soccorso della legge. Ho quindi l’onore d’avvertirla che ho fatto i passi opportuni affinché mi sia assicurato il benefizio della Convenzione; la quale non ha permesso che il compimento delle ristampe principiate prima della sua promulgazione; e ha voluto, com’era giusto, evitare ogni effetto retroattivo, non già perpetuare in una parte, e senza ragione, l’abuso stesso che intendeva levar di mazzo»[10].

Fu così che, con nota del 25 febbraio, la Segreteria di Stato fiorentina invitava il presidente del Buon Governo ad «adibire i mezzi e temperamenti opportuni perché non venga effettuata, e rimanga impedita la ristampa delle tragedie preindicate»[11].

Il Commissario regio, agli inizi del mese successivo, informava le autorità superiori su come fosse stato formalmente proibito al tipografo Le Monnier di procedere alla stampa delle tragedie e concludeva che «la polizia era incaricata di esercitare in proprio la sua vigilanza»[12]. La Segreteria di Stato non si fidava molto di Le Monnier e per questo chiedeva alla polizia di riferire. Il tipografo alla fine si vide costretto a rinunciare alle due tragedie e di conseguenza a tutta la collana, ma capì immediatamente l’errore che aveva commesso: chiedere l’autorizzazione dell’autore, invece che metterlo davanti al fatto compiuto e poi attaccarsi a qualche interpretazione ambigua della legge. In seguito, Le Monnier non avrebbe più commesso lo stesso sbaglio.

Per capire ancora meglio le premesse alla questione legata ai Promessi sposi, è opportuno ricordare i problemi sorti con Grossi e Cantù. Tra la fine del 1944 e l’inizio dell’anno successivo, comparve in Lombardia un manifesto di Le Monnier che annunciava la prossima pubblicazione della Margherita Pusterla del Cantù e del Marco Visconti del Grossi. Alla fine del marzo 1945 il governo austriaco protestava presso quello toscano e chiedeva l’impedimento delle ristampe annunciate. Tra proibizioni, richiami e cavilli comparve una dichiarazione del Manzoni:

«Il racconto di Cesare Cantù l’ho già stampato nella mia tipografia, l’ho già diffuso ed è alla vendita da un pezzo; quanto al romanzo del Grossi, non ho messo mano al lavoro e pertanto nemmeno mi sono messo in regola col prossimo»[13].

Esibiva poi al commissario una lettera con l’autorizzazione del Cantù per la ristampa in questione. In realtà dietro la protesta c’era solo la preoccupazione del governo austriaco per un’opera non amata e non il dissenso del Cantù. A questo punto, il Buon governo non poteva confermare il divieto per l’opera del Cantù e si limitava a intimare di procedere per il Marco Visconti, ma quando venne a conoscenza che entrambe le opere erano già state stampate più volte, anche a Firenze, decise che non si poteva far nulla neanche per il Grossi e dunque auspicava solo un riguardo verso gli autori.

«Riunita dal Granduca la Consulta per una parola decisiva, veniva adottata alla fine di settembre una risoluzione con la quale si revocava il divieto fatto a Le Monnier, che si trovava pertanto libero di riprendere la stampa, e si rendeva noto alla legazione austriaca che se intendeva appoggiare le lagnanze del Grossi nella tutela del proprio interesse “non gli resterebbe altra via che adire i competenti tribunali ordinari”»[14].

Felice Le Monnier era convinto, fin dai primi giorni della disputa, di non aver fatto torto a nessuno, poiché si avvaleva dell’interpretazione dell’articolo 14 della Convenzione, pubblicata nel novembre del 1943 per i tipi Le Monnier in un opuscolo intitolato appunto Interpretazione dell’art. 14 della legge sulla proprietà letteraria pubblicata in Toscana il 17 dicembre 1840, firmato da vari avvocati, che concludevano come la legge intendesse proteggere solo le opere pubblicate dopo la sua promulgazione.

«Per le altre c’era da distinguere: quelle pubblicate e ristampate prima del 22 maggio ’40 che cadevano in dominio pubblico, se non erano state ristampate, né era cominciata la ristampa costituivano proprietà dell’autore così come quelle pubblicate anteriormente alla legge e mai ristampate. Così secondo tale interpretazione le opere più importanti, che avevano perciò avuto ristampe erano da considerare di dominio pubblico, mentre restava all’autore la proprietà di quelle opere che, pur pubblicate, non avevano avuto successo di ristampe»[15].

La questione intorno ai Promessi sposi: Manzoni vs. Le Monnier

I Promessi sposi di Alessandro Manzoni era il libro più pirateggiato dell’intera storia editoriale italiana. Tra la data della prima edizione, il 1825, ad opera di Vincenzo Ferrario e il 1860, erano centinaia le edizioni che giravano, e di queste solo una decina erano state formalmente autorizzate dall’autore.

«La prima versione del romanzo (Ferrario, Milano 1825-26) fu ceduta, per il mercato estero, a Pomba, che ne fece ben sei edizioni tra il 1827 e il 1837; la seconda versione, pubblicata a Milano da Guglielmini e Redaelli nel 1840, fu ristampata l’anno successivo a Parigi da Baudry con un contratto che prevedeva la cessione dei diritti per otto anni»[16].

Nell’aprile 1845 Felice Le Monnier fece uscire dai suoi torchi una nuova edizione dei Promessi Sposi, senza nessuna comunicazione all’autore e alcun preavviso. Manzoni ne ebbe notizia dal Grossi e preoccupato dal contingente danno scriveva all’avvocato Giuseppe Montanelli:

«Unisco a questa lettera la procura per il sig. D.r Uccelli e la lettera che attesta come il sig. Le Monnier abbia altre volte riconosciuto il vero senso dell’art 14, e soprattutto come l’abbia riconosciuto codesta autorità, che non gli permise d’eseguire il suo disegno (cosa che, per dir la verità, non mi lascia intendere come non sia stato messo ostacolo alla seconda contraffazione). C’è anche una prova più recente dell’uno e dell’altro, cioè l’essere stato al detto sig. Le Monnier chiesto ragione dell’aver ristampato il romanzo intitolato Margherita Pusterla, e l’aver lui addotto che n’avea il permesso dell’autore. E ce ne sarà, spero, a quest’ora un’altra: cioè la proibizione di proseguir la ristampa del Marco Visconti. Le confesso poi che m’ha sorpreso grandemente il sentire che sia comparsa costì un’interpretazione dell’articolo suddetto, in favore della contraffazione, e sottoscritta da quattro avvocati. Può esser più evidente che quell’articolo non ha altro fine che di non dare alla convenzione un effetto retroattivo, e non si riferisce ad altro che all’opera di cui fosse principiata la ristampa quando la convenzione fu pubblicata? Come si può pretendere che le parole purché la detta riproduzione abbia avuto cominciamento... avanti quel tempo voglian dire: purché l’opera sia stata ristampata un’altra volta; come se questo fosse un cominciamento e non un fatto pur troppo consumato? Come se la legge, e il buon senso, potesse riguardar la ristampa d’un’opera come una cosa che porta naturalmente e necessariamente una continuazione, anzi una ripetizione? Come si può immaginarsi che una convenzione diretta a levar di mezzo la contraffazione abbia voluto fare un’eccezione così strana, privar del suo benefizio gli autori che avean già patito per la mancanza di essa, e far nascere un diritto perpetuo da un fatto mero, che non aveva altro titolo che di non essere proibito? E se potesse rimaner dubbio, non basterebbe a levarlo il secondo capoverso dell’articolo medesimo, che tronca anche la continuazione dell’opere che fossero divise in più volumi, e di cui alcuni fossero già ristampati, e pubblicata questa ristampa? Ma ne sus Minervam. Sono in mani forti, per mia fortuna, e amiche, per mio onore»[17].

Il primo atto che vedeva Le Monnier formalmente accusato di aver violato la legge del 1840, riproducendo i Promessi sposi senza l’autorizzazione dell’autore, è datato 24 luglio 1845; nel procedimento il dott. Francesco Uccelli, ufficialmente nominato procuratore del Manzoni «invocava dal Tribunale di prima istanza in Firenze la condanna al rifacimento dei danni, con riserva di chiedere il sequestro e la distruzione di tutti gli esemplari e dei tipi o l’aggiudicazione di essi, la condanna anche dei venditori dell’edizione contraffatta e il rimborso di tutte le spese del giudizio»[18]. La risposta di Le Monnier non tardò ad arrivare e il 25 settembre, attraverso il suo procuratore dott. Uberto Vanghetti, chiarì che la sua ristampa si rifaceva sull’edizione dei Promessi sposi del 1832 di Davide Passigli e sottolineava quindi che non aveva commesso alcuna violazione della legge, poiché non aveva usato l’edizione successiva al 1840. Infatti Manzoni, tra il 1840 e il 1843 aveva dato l’autorizzazione ad una nuova versione dei Promessi sposi, la cosiddetta «quarantana», agli editori Guglielmini e Redaelli, impreziosita dalle illustrazioni di Francesco Gonin.

Il professor Giuseppe Montanelli, in un’allegazione presentata al Tribunale fiorentino[19], sosteneva le ragioni del Manzoni e lo faceva esaminando varie questioni. Si domandava se gli autori avessero diritto di opporsi alla ristampa di opere pubblicate prima dell’anno della convenzione. Il punto focale delle sue riflessioni si concentrava nella considerazione del diritto d’autore: era da ritenere un diritto assoluto o un diritto contingente? Ossia era un diritto indipendente dalla qualità dell’autore e dunque andava sempre tutelato, oppure era legato a speciali circostanze? In entrambi i casi, il Montanelli arrivava a dimostrare come fosse necessario tutelarlo anche prima del 1840.

«Né per ciò può dirsi che la legge sarebbe retroattiva. Essa non colpisce i fatti compiuti ma quelli che volessero compiersi senza le condizioni prescritte. Gli editori eran liberi di ristampar le opere pubblicate; ma, sopravvenuta la legge, il poter fare ciò che non era vietato non diventò un diritto acquisito: questo si fonda su un titolo permanente, che potrebbe aversi o dalla legge o da una convenzione»[20].

Quindi ribadiva l’interpretazione manzoniana dell’art. 14 e confutava quella dell’opuscolo lemmoneriano. L’editore rispose il 21 luglio successivo dichiarando nuovamente la sua interpretazione dell’articolo 14 e sostenendo come non poteva essere condannato al rifacimento dei danni, visto il grande dubbio interpretativo.

In pubblica udienza, il 3 agosto 1846, Le Monnier fu condannato alla riparazione dei danni e al rimborso delle spese di giudizio quantificate in L. 237. Il Manzoni ne fu informato dal Montanelli e il 18 agosto rispose: «Andavo dicendo: spero nel Montanelli e nella giustizia toscana; ora dico: viva il Montanelli e la giustizia toscana. Certo, la cosa era chiara; ma l’avevano quasi fatta sparire, e bisognava accender de’ lumi per ritrovarla, come ha fatto Lei, tanto felicemente quanto abilmente»[21].

Ma era solo l’inizio di una lunga controversia. Il 2 settembre 1846 Le Monnier si appellava alla sentenza precedente che aveva sbagliato:

«1- non ammettendo la distinzione tra opere pubblicate avanti e opere pubblicate dopo la promulgazione della legge; 2- incorrendo, nell’esame dell’art. 14 (di cui egli aveva dato la “sola vera” interpretazione), col riferirlo a tutte le opere pubblicate prima del 17 dicembre 1840, nel vizio della retroattività; 3- sostenendo il concetto “stranissimo” dell’applicabilità ai diritti d’autore della distinzione tra diritto assoluto e diritto contingente; 4- negando che l’acquirente di un’opera acquistasse, prima del 1840, anche il diritto di riprodurla; 5- affermando il principio “pericolosissimo, assurdo” che il legislatore potesse rinunziare a un diritto della società, favorire gli autori a danno dei tipografi»[22].

La richiesta dell’editore non fu accolta ma questo non gli impedì di continuare a stampare e far circolare in Italia e all’estero copie dei Promessi sposi. Passarono vari anni e Manzoni cercò di sistemare amichevolmente la questione. Le Monnier intanto scriveva a Giulio Carcano, tipografo francese, sulla vicenda con Manzoni: «Io ero allora in dubbio se dovevo tornare a chiedere il permesso di ripubblicare i Promessi sposi, col timore d’un nuovo rifiuto, quando alcuni legali di qui, e fra gli altri il Salvagnoli, il Marzucchi, l’Andreucci (tre luminari del nostro foro) mi fecero persuaso che io era nel pieno diritto di ristampare i Promessi sposi nella lezione pubblicata dall’autore prima della legge sulla proprietà letteraria; ed io (lo confesso ingenuamente) per non avere un rifiuto, e perché ero pressato da molti miei corrispondenti che mi chiedevano quel libro, stampai la prima lezione. Il signor Manzoni mi mosse querela per tribunale, scelse per suo difensore Mario Montanelli, ed ottenne una sentenza favorevole contro di me; sentenza che mise lì (a mio parere) come una soddisfazione che il Sig. Manzoni volle ottenere, non avendo mai usato fin qui»[23].

Intanto il Radaelli, l’editore che aveva acquistato i diritti per le opere del Manzoni, andava a Firenze nella speranza di risolvere il prima possibile le problematiche con l’editore di origine francese. Solo alla fine del 1857 Manzoni si decise a chiedere conferma della vecchia sentenza del 1846, anche se il suo nuovo procuratore, il dottor Lorenzo Panattoni, che sostituiva il dottor Uccelli defunto, ne fece richiesta ufficiale solo il 15 febbraio 1859. Gli avvocati dell’editore presentarono appello, pare ad insaputa di Le Monnier che in una lettera all’amico Andrea Maffei scrive: «Aiutatemi ad uscire da una questione nella quale sono entrato in buona fede, e tiratovi dai legali, i quali non solo mi assicuravano della mia buona ragione, ma mi facevano interporre appello alla prima sentenza senza ch’io ne sapessi nulla»[24].

Il 16 marzo 1860 Le Monnier, insistendo nella revoca della condanna, poneva l’attenzione sugli articoli 25 e 28 della convenzione. L’articolo 28 diceva:

«La presente convenzione sarà in vigore per quattro anni, decorrenti dal giorno dello scambio delle ratificazioni, ed inoltre per sei mesi successivi alla dichiarazione che l’una parte facesse all’altra, spirati i quattro anni, di voler far cessare l’effetto della stessa convenzione o di procedere alla rinnovazione della medesima con quei miglioramenti che frattanto l’esperienza avrà suggeriti. Ciascuna delle due parti si riserva il diritto di fare all’altra una simile dichiarazione, ed è per patto espresso stabilito fra le medesime che, spirati i sei mesi dopo la dichiarazione suddetta, fatta dall’una parte all’altra, la presente convenzione e tutte le stipulazioni che vi sono contenute cesseranno di avere effetto»; mentre il 25:

«I governi contraenti si comunicheranno le leggi e di regolamenti speciali che ciascuno sarà per adottare rispetto alla proprietà delle produzioni letterarie o scientifiche o delle opere d’arte, affine di agevolare l’eseguimento della presente convenzione negli stati rispettivi»[25].

Fu fissata udienza per il giorno 25 aprile del 1860, ma entrambe le parti avevano già sostenuto le loro dichiarazioni, e quindi il relatore, tale Giorgio Nomis, esplicitò come in realtà fosse ancora in vigore la convenzione, poiché l’articolo 28 stabiliva sì che la legge fosse valida per quattro anni ma precisava anche che questa validità sarebbe stata duratura qualora nessuna delle parti in causa avesse dichiarato la volontà di sciogliere l’accordo: fatto non verificatosi. Qualche altra considerazione, portò la Corte regia alla decisione di condannare Le Monnier alle spese del nuovo giudizio, quantificate in lire 220,40.

L’editore non ne volle sapere e proclamando la violazione e l’errata interpretazione degli articoli 14, 15, 25 e 28 si appellò alla Corte suprema di Cassazione, ribadendo ancora una volta che il trattato internazionale non era in vigore e che la legge non era retroattiva, dunque aveva tutto il diritto di stampare e diffondere i suoi Promessi sposi e non era tenuto a nessun risarcimento per danni. Continuò su questa strada anche il 7 agosto 1861, finendo per far diventare la questione di interesse nazionale.

La liquidazione dei danni

Il 26 maggio 1862, prima che iniziasse la causa per la liquazione dei danni, l’avvocato Lorenzo Panattoni, come procuratore del Manzoni, chiese e ottenne dal pretore di Santa Maria Novella che ordinasse una visita attenta e scrupolosa ai locali e magazzini della tipografia del Le Monnier, per verificare l’esistenza di altre copie dei Promessi Sposi, o comunque strumenti volti a continuare la composizione illegale. Lo stesso giorno un cancelliere, insieme col cursore, due carabinieri e altrettanti testimoni, si recò nella tipografia guidato da un nipote dell’editore e dopo aver svolto una perquisizione minuziosa di tutti i libri, i locali e gli angoli, ottenne da Le Monnier, su richiesta di Manzoni, la promessa giurata che non avrebbe più stampato e messo in vendita altre copie. Il giuramento non impedì però che continuassero a circolare le ristampe; dunque rimane sconcertante accertare l’ingenuità di Manzoni e della stessa polizia in Toscana.

«Un tantino d’ingenuità, del resto, fu anche nel Manzoni; il quale il 28 giungo 1862 chiedeva al Tribunale di Firenze che il Le Monnier, “esplicitamente e completamente, con sincerità, per ossequio alla giustizia, previo il giuramento da deferirglisi formalmente”, assicurasse se era vero: 1) che nell’aprile del 1845, ad onta delle sentenze a lui contrarie, aveva persistito nella riproduzione e vendita dei Promessi Sposi; 2) che n’aveva fatte, sempre con la data del 1845, varie edizioni tipografiche e stereotipate; 3) che teneva regolarmente, come esigono la pratica e la buona fede del commercio librario, tutti i registri, documenti, carteggi e copialettere da cui potesse rilevarsi il numero delle edizioni eseguite e delle copie vendute o depositate in Italia, in Francia, in Germania, in Inghilterra e in America; 4) che possedeva tuttora, presso di sé e presso i suoi corrispondenti e amici, copie legate o sciolte e le tavole stereotipe; 5) che, secondo le affermazioni di librai espertissimi, in diciassette anni aveva guadagnato non meno di L. 65220»[26].

Le Monnier rispose nel dicembre e seppur confermò di aver diffuso le sue copie in Italia e all’estero, era del tutto erroneo pensare che vi fosse ancora qualche esemplare, che l’editore aveva sì prodotto fin dal 1845 ma aveva terminato nel giorno dell’ultima sentenza; dichiarava inoltre di aver fatto due edizioni in caratteri mobili e una in stereotipia del celebre romanzo e che i suo guadagni erano di molto inferiori alla cifra indicata dall’avvocato Panattoni.

Manzoni chiese all’editore di prestare un nuovo giuramento, ma questi si rifiutò ritenendo sufficiente il precedente, e allarmato anche da questo, l’autore, per mezzo del suo avvocato, presentava una nuova richiesta dei danni e degli interessi da imputare a Le Monnier, che arrivavano a stimarsi in L. 154.020, cifra che si ottiene dal ragionamento che ha ripercorso De Rubertis:

«Se il suo editore milanese, Giuseppe Redaelli, nonostante la continua concorrenza, aveva potuto vendere 400 o 500 copie all’anno, al prezzo netto prima di L. 5 e successivamente di L. 4 e L. 2,10; il Le Monnier, che aveva eseguita la ristampa per tre quarti con la stereotipia, ne avrebbe vendute, al prezzo netto di L. 2,20, oltre 3000 all’anno e quindi, dall’aprile del 1845 all’aprile del 1862, circa 51.000: donde, calcolando il costo di ciascuna copia a L. 1,00, un utile di almeno L. 61.200. Se non che la vera base del danno non era il lucro dell’editore fiorentino ma la perdita dell’autore, che in diciassette anni avrebbe potuto vendere altre 51.000 copie: supposto che si fossero vendute al prezzo minimo L. 3, si sarebbe avuto un guadagno di L. 153.000 e, detratte le spese, di L. 102.000. Aggiungendo gl’interessi, calcolati, in ragione del 6%, soltanto su otto anni e mezzo, si otteneva appunto la somma di L. 154.020»[27].

Il 18 luglio 1862 il Panattoni presentava questa specifica al Tribunale di Firenze, invitando Le Monnier a concordare o dedurre una cifra che secondo lui era indicata e chiedendo che fossero fissati dei termini per il pagamento dei danni. La risposta non tardò ad arrivare per opera di Fabio Nespoli, procuratore di Le Monnier, che sosteneva la richiesta della controparte basata su criteri falsi e ingiusti, e quindi erroneamente stimata in una cifra improponibile, che era da diminuire di molto. Il Panattoni ribatté la giustizia della precedente richiesta presentando i registri del Redaelli, nei quali risultava che dopo la sospensione dello smercio dell’edizione contraffatta era cresciuta la vendita delle edizioni milanesi; ma il Redaelli era parte interessata nella causa e quindi la sua testimonianza non poteva considerarsi priva di influenze: fu proprio su questo che si basò la successiva risposta del Nespoli, offrendo per liquidare la causa la somma di L. 15.926,12.

«E che il Manzoni nessuna prova aveva offerta a giustificazione della sua specifica, essendo sospette le dichiarazioni e attestazioni del Redaelli, che era parte interessata nella causa e testimone unico e stragiudiciale. Del resto dalla specifica ch’egli contrapponeva a quelle dell’avversario si rilevava che il Le Monnier non aveva stampato che 16.000 copie; 3000 della prima edizione del 1845, 2000 della seconda del 1850, altrettante della terza del 1853, 1000 della edizione in stereotipia del 1855 e 8000 della stessa dal 1856 al 1860; dalla vendita delle quali, detratte tutte le spese, aveva ricavato sole L. 15.926,12»[28].

Ci furono risposte e contro risposte, ma nessuno sembrava voler cedere. Intanto il tipografo francese voleva un accordo pacifico e fu così che chiese l’intervento di alcuni amici comuni con l’autore: Andrea Maffei e Gino Capponi. Quest’ultimo scriveva personalmente il 30 luglio del 1862 a Manzoni trovando belle parole per Le Monnier e avvisandolo che avrebbe scritto a Gaetano Castillia, anch’egli amico comune, per trovare una via d’uscita. Questi tentativi fallirono miseramente perché sia l’autore che l’editore continuavano a non trovare accordi utili. Ormai la controversia sembrava fuori controllo, ma fortunatamente intervenne Gaspero Barbera.

Gaspero Barbera era nato il 12 gennaio 1818 a Torino e a un certo punto della sua vita si trovò presso il Gabinetto Viesseux; fu lì che lo conobbe Felice Le Monnier, il quale gli propose di lavorare per lui per tenere i conti, eseguir commissioni e rivedere stampe; quindi dal 1841 al 1854 fu commesso e segretario dell’editore, e vistolo particolarmente turbato e affaticato dalla questione con Manzoni, gli offrì di intervenire come mediatore. All’inizio il tipografo francese non accettò, poi però capì che poteva essere una cosa utile e andando a ringraziarlo per l’offerta, gli comunicò di accettarla e fu così che consegnò a Barbera una lettera datata 7 marzo 1864, nella quale gli si dava “piena facoltà di devenire ad un accordo” e l’incarico di testimoniare la buona fede dell’editore.

Barbera partiva per Milano con due lettere di presentazione, una di Niccolò Tommaseo e una di Massimo D’Azeglio, quest’ultimo gli consegnava anche un biglietto dove gli augurava “buon successo nel suo arduo mestiere di far combaciare 15 con 150”. Inoltre lo accompagnava a Milano anche il consiglio di Francesco Ambrosoli sul modo di presentarsi allo scrittore.

Il 10 marzo 1864 Barbera veniva ricevuto dapprima dal solo Manzoni, poi anche davanti al figlio dello scrittore Pietro e al Redaelli. Barbera nelle sue memorie scriveva ricordando la discussione di quel primo incontro:

«Affermai sul mio onore che il Le Monnier, in quel periodo d’anni che durò la lite, aveva venduto 24 mila esemplari della edizione dei Promessi Sposi, e il guadagno doveva su per giù essere di 24 mila lire; che il frutto di queste 24 mila lire, rimaste in mano del Le Monnier in media sei anni, potevasi calcolare un sei mila lire: cosicché la somma di 30 mila lire parevami il giusto compenso che il Le Monnier dovesse dare all’autore dei Promessi Sposi»[29].

Gli interlocutori rimasero colpiti e fissarono un incontro per il giorno successivo, nel quale, per riguardo al Barbera e alle sue lettere di presentazione, abbassarono enormemente la loro richiesta a 40.000 lire, ma su questa cifra non ammettevano più alcuna discussione. Barbera telegrafava al Le Monnier per metterlo al corrente delle nuove condizioni, ma l’editore, che prima aveva dichiarato di rimettersi completamente alla volontà del mediatore, rifiutava l’offerta e controbatteva mandando un dispaccio in cui proponeva una cifra pari a 25.000 lire. In un terzo incontro con l’autore, Barbera riusciva a mediare la cifra di 34.000 lire, ma anche questa volta l’editore non voleva saperne di accettare, poiché convinto dell’ingiustizia della somma.

Barbera intanto partiva per Torino, diretto a Ginevra e Francoforte, e dopo pochi giorni lo raggiunse una lettera di Le Monnier che lo ringraziava per l’impegno e l’intervento nella questione e si mostrava dispiaciuto per come erano andate le cose, che forse potevano risolversi in maniera diversa se lui stesso si fosse recato a Milano; ed è proprio questo che gli consigliava Barbera in risposta alla sua lettera.

Il 2 aprile 1864 Le Monnier si recò finalmente a Milano e, prima di tornare a Firenze informava Barbera d’aver accettato la cifra di 34.000 mila, con il pagamento di 20.000 Lire entro il 30 aprile 1864, di 7.000 entro il 31 marzo 1865 e le rimanenti 7.000 non oltre il settembre dello stesso anno.

Sono comunque noti, durante le ultime trattative, altri tentativi dell’editore per ridurre l’offerta, ma alla fine anche lui fu costretto a cedere. Pietro Manzoni scriveva il 3 aprile 1864 al Barbera:

«Io stavo scrivendole in risposta alla pregiatissima sua di Berlino per ragguagliarla dei vari passi fatti dal signor Le Monnier presso persone di qui onde cercare di ottenere condizioni assai diverse da quelle su le quali ci eravamo intesi con Lei, condizioni su le quali mio padre fu sempre irremovibile, come Ella può ben pensare, molto più che s’era ripetutamente risposto che, se si era scesi ad una cifra tanto minima, era stato in gran parte per un riguardo speciale verso il signor Barbera che s’era con tanto cuore impegnato a voler vedere finite queste pendenze»[30].

Le Monnier, che ci teneva molto alla stima di Manzoni, per suggellare la riconciliazione, gli donava un volume pregiato: le Rime di Michelangelo Buonarroti, curate da Cesare Giusti.

La questione era definitivamente terminata ma negli anni seguenti non si placarono i dibattiti intorno alla proprietà letteraria.

 

[1] Achille de Rubertis, Documenti manzoniani, Perrella, Napoli 1926, p. 10.[2] Maurizio Borghi, La manifattura del pensiero, Franco Angeli, Milano 2003, p. 25.[3] Encyclopédie, Paris 1754, t. IV, col 133b in M. Borghi, La manifattura del pensiero, p. 148.

[4] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, p. 5.

[5] M. Borghi, La manifattura del pensiero, p. 33.

[6] Cesare Cantù, Condizione economica delle lettere, «Rivista europea», II, 1838, p. 35.

[7] Maria Iolanda Palazzolo, Geografia e dinamica degli insediamenti editoriali, in Gabriele Turi (a cura di), Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, Giunti, Firenze 1997, pp. 39-40.

[8] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, pp. 17-18.

[9] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, p. 29, nota 1.

[10] Angela Nadia Bonanni, Editori, tipografi e librai dell’Ottocento, Liguori editore, Napoli 1998, p. 142.

[11] Cosimo Ceccuti, Un editore del risorgimento Felice Le Monnier, Le Monnier, Firenze 1974, pp. 86-87.

[12] Ibidem.

[13] Ibi, p. 182.

[14] Ibi, p. 187.

[15] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, pp. 21-22.

[16] C. Borghi, La manifattura del pensiero, p. 160.

[17] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, pp. 28-29.

[18] Ibidem.

[19] Giuseppe Montanelli, Intorno alla riproduzione delle opere stampate prima della legge sulla proprietà letteraria…, in Ibi, p. 30.

[20] Ibi, p. 31.

[21] Ibi, p. 34.

[22] Ibi, pp. 34-35.

[23] C. Ceccuti, Un editore del risorgimento, p. 189.

[24] A. N. Bonanni, Editori, tipografi…, p. 149, nota.

[25] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, p. 37, nota.

[26] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, pp. 50-51.

[27] Ibi, p. 51.

[28] Ibi, pp. 52-53.

[29] Gasparo Barbera, Memorie, in Ibi, p. 55.

[30] Ibi, p. 56.

«A togliere gli autori dalla misera condizione in cui si trovarono quando era incerto se fosse protetta la proprietà letteraria o la contraffazione operarono gli stessi loro nemici: i contraffattori. Avendo questi, sotto l’influsso anche della rivoluzione francese, che portò all’abolizione di tutti i privilegi e rivendicazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, cominciato a combattere il diritto d’autore come un privilegio ingiusto e dannoso, si accese in tutte le nazioni civili… la discussione sulla natura e i limiti della proprietà letteraria»[1]. 

Con queste parole di Achille de Rubertis si chiarisce come la rivoluzione francese avesse portato in luce il problema relativo a una regolamentazione della tutela del diritto d’autore. Mentre in Inghilterra e in Francia già si era ottenuto qualcosa negli ultimi decenni del XVIII secolo (si ricordi in proposito anche il dibattito sulla regolazione dei diritti d’autore che vede protagonista Caron de Beaumarchais e le cui vicende sono raccontate nel documento Compte-rendu de l’affaire des auteurs dramatiques et des Comédiens français), l’Italia, a causa della mancata unificazione del paese, doveva fare i conti con governi diversi e dunque l’attuazione di una qualsiasi legge volta a proteggere gli autori si scontrava con l’opposizione non di uno ma di vari governi.

La legge cisalpina del 19 fiorile anno IX repubblicano (9 maggio 1801) proclamava: «Considerando che le produzioni dell’ingegno sono la più preziosa, e la più sacra delle proprietà…». Proprietà e produzioni dell’ingegno erano per la prima volta associate in un testo ufficiale e questo rappresentava un grosso passo avanti rispetto alle vecchie legislazioni. Sostanzialmente questa legge riservava grossi diritti agli autori e ai loro eredi per dieci anni, «il diritto esclusivo di vendere, far vendere, distribuire le opere loro nel Territorio Cisalpino, e di cederne la proprietà, in tutto o in parte»[2]; gli scrittori potevano anche intervenire contro contraffattori, a patto che avessero depositato due copie della propria opera alla Biblioteca Nazionale.

È significativo notare come il termine contraffazione fosse già di largo uso prima della formulazione di qualsiasi principio di diritto d’autore o di proprietà letteraria. Ne davano una prima definizione anche Diderot e D’Alambert nell’Encyclopédie. «“Contraffazione”: s. f., termine dell’arte libraria, che significa edizione o parte di edizione di un libro contraffatto, ovvero stampato da qualcuno che non ne possiede il diritto, a pregiudizio di colui che lo detiene in virtù della proprietà ceduta dall’autore – proprietà resa pubblica e autentica tramite privilegio concesso dal Re, o da altre equivalenti istanze sovrane»[3]. Di questo male ne soffrivano tutti gli stati italiani, ma in particolar modo il problema colpiva il Regno di Napoli.

La legge cisalpina doveva affrontare tali problematiche, ma soprattutto confrontarsi con un equivoco che risultava troppo famigliare ai legislatori del tempo: la confusione tra diritto e privilegio. Non si voleva riconoscere a tutti gli autori il medesimo diritto, poiché esistevano autori meritevoli, ma anche autori mediocri, e quindi si riteneva ingiusto concedergli lo stesso diritto, che era considerato essere esattamente un privilegio. «Prima che venisse proclamato il principio della proprietà letteraria, il diritto degli autori non fu che un privilegio. Questo diritto acquistò un valore venale ed entrò nel commercio con l’invenzione della stampa. Nacque allora la proprietà letteraria e con essa la contraffazione,... la “pirateria letteraria”»[4].

Durante la Restaurazione venivano emanate altre leggi volte a difendere il diritto d’autore ma il problema rimaneva sempre quello dell’applicazione al di fuori dei confini dei singoli Stati della penisola. «Il sorgere di un mercato dei libri esteso all’intera comunità linguistica, anche in virtù del diffondersi di nuovi generi letterali destinati al grande pubblico, si scontrava con il persistere di divisioni territoriali e barriere doganali. Era chiaro che, in mancanza di reciproci accordi internazionali, ogni provvedimento legislativo sarebbe risultato vano»[5]. Nel corso degli anni anche i librai arrivarono a comprendere come l’ostacolo principale alla crescita del commercio librario fosse la mancanza di una tutela della proprietà letteraria a livello internazionale, capace di bloccare le ristampe non autorizzate in qualsiasi parte della penisola; ma sembrava che nessun governo fosse interessato a prendere l’iniziativa per avviare un provvedimento internazionale contro ristampe e in favore del diritto d’autore. Fra i letterati del tempo cominciava così un acceso dibattito che coinvolgeva ad esempio Gian Pietro Viesseux, Melchiorre Gioia, Giuseppe Pomba e Cesare Cantù; quest’ultimo scrive:

«Un superbo fastidio tradizionale fa che, qualora si parli di guadagno o di danaro in proposito di lavori d’ingegno, sorga o riso o indignazione. Riso di chi assistendo alla vita come ad una commedia, trae in mezzo l’antico divorzio dell’oro col sapere; indignazione in chi, spartanamente ozioso, chiama profanazione il mescolare i beni materiali colle ricchezze dell’ingegno […]. Dottrine esagerate l’una e l’altra: ché la società nostra, grazie a Dio, più non è a quei tempi ove il letterato bassamente invocava la protezione d’un ricco o d’un potente, e con lodi vigliacche ne comprava il pane che sa tanto di sale. Avvicinandosi più sempre alla condizione ove ogni uomo sia retribuito secondo l’opera, anche i letterati credono onoratissimo modo di guadagno l’uso del proprio ingegno»[6].

Queste le premesse che portarono artisti, editori, letterati e autori a chiedere e spingere i governi verso quell’accordo internazionale a tutela del diritto d’autore, di cui da anni si sentiva la necessità.

La convenzione del 1840

Preceduta da un anno di trattative e discussioni, il 22 maggio del 1840 fu firmata a Vienna la convenzione internazionale sui diritti d’autore tra l’Austria e il Regno di Sardegna. «Su pressione dell’opinione pubblica liberale, i due governi si impegnano a garantire il diritto dell’autore alla piena proprietà dell’opera e a impedire la contraffazione nei rispettivi paesi, perseguendo penalmente l’eventuale responsabile»[7]. All’articolo 27, i due stati contraenti invitavano gli altri Governi d’Italia e il Cantone Ticino ad aderire alla convenzione, proprio per proteggere e tutelare tutti gli autori. Nei mesi successivi rispondevano firmando la convenzione tutti gli Stati della Penisola, tranne il Regno delle Due Sicilie (nel 1816, dopo il Congresso di Vienna, venivano soppressi il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia, e si formava così un unico governo con una sola costituzione: il Regno delle Due Sicilie). Questa mancata adesione rappresentava due grossi problemi per l’attuazione della convenzione.

In primo luogo, il Regno delle Due Sicilie era la più grande entità italiana e, non sottoscrivendo il trattato, isolava completamente il proprio mercato editoriale.

Il secondo problema nasceva sulla considerazione di come il territorio napoletano fosse la patria dei contraffattori e delle ristampe non autorizzate: era proprio quello che la convenzione cercava di punire ma nel momento in cui quel singolo governo decideva di non aderire, risultava chiaro come gli effetti della legge si limitassero e fossero poco efficaci.

«Il Regno delle Due Sicilie era il paese dove più di frequente le opere venivan ristampate; e, poiché l’intervento della polizia degli altri Stati non sempre, o forse mai, riusciva ad arrestarne la diffusione, gli editori si videro costretti a patteggiar con i contraffattori cedendo loro parte dei sudati guadagni, purché rinunziassero a qualche illecita impresa. Tale appunto fu, nel novembre del 1842, a Firenze per esempio, il caso di Felice Le Monnier, il quale, avendo iniziata la stampa del Discorso sulle storie italiane di Giuseppe Borghi, mentre questi invocava e otteneva dal granduca il divieto d’introduzione e vendita, e in Toscana e in tutti gli altri Stati d’Italia, della contraffazione annunziata a Napoli e a Palermo, preferì accordarsi con i contraffattori sacrificando così, a scanso di maggior danno, sé stesso e l’autore. Né solo nel Regno delle Due Sicilie, l’unico in Italia che non avesse aderito al trattato austro-sardo, ma anche negli altri Stati gli editori continuarono abusivamente a ristampare soprattutto le opere pubblicate prima del 1840. Tra i contraffattori dispiace annoverar lo stesso Le Monnier, per generosità e audacia pur tanto benemerito della cultura e del nostro risorgimento»[8].

Proprio Felice Le Monnier, insieme ad Alessandro Manzoni, divenne uno dei protagonisti della disputa intorno a una questione di proprietà letteraria.

Premesse alla disputa tra Manzoni e Le Monnier

Felice Le Monnier arrivava a Firenze nel 1831 con l’intenzione di fare solo una breve sosta per aspettare un amico e poi partire insieme verso la Grecia dove avrebbero creato una tipografia. La morte dell’amico lo costringeva a fermarsi nella città italiana, dove usava due lettere di raccomandazioni, una per Viesseux e l’altra per Davide Passigli, consegnategli dall’editore parigino Giulio Renouard.

Nel 1837 Le Monnier rilevava completamente la tipografia del Passigli e cominciava a pubblicare vari titoli. Nel 1843 pensava di iniziare una collana dal titolo Fiore dei Tragici italiani antichi e moderni, raccolta che non poteva fare a meno del Conte di Carmagnola e dell’Adelchi di Alessandro Manzoni. Il 9 gennaio l’editore scriveva all’autore chiedendo la sua approvazione e autorizzazione, ma quest’ultimo il 13 gennaio, pur lusingato dalla proposta, la rifiutava poiché era già in trattative con un libraio per una seconda edizione.

Le Monnier non si aspettava tale risposta e dopo essersi consigliato con alcuni amici, decideva comunque di procedere nella pubblicazione, poiché giudicava la richiesta all’autore solo un atto di cortesia, e non necessaria ai fini della sua opera, in base alla propria personale interpretazione dell’articolo 14 della convenzione austro sarda che stabiliva:

«La presente convenzione non farà ostacolo alla libera produzione nei rispettivi Stati di opere che fossero già pubblicate in alcuni di essi prima che la detta convenzione fosse posta in vigore, purché la riproduzione abbia avuto cominciamento, e sia stata legalmente autorizzata avanti di quel tempo. Qualora però si fosse pubblicata parte di un’opera, prima che la presente convenzione fosse posta in esecuzione, e parte dopo, la riproduzione di questa ultima parte non sarà permessa che col consenso dell’autore o dei suoi aventi causa purché i medesimi si dichiarino pronti a vendere agli associati la continuazione dell’opera senza obbligarli all’acquisto dei volumi dei quali fossero già possessori»[9].

Dopo aver avvisato il Manzoni, questo rispondeva:

«Non avendo io potuto ottener da Lei che mi fosse risparmiato il danno della ristampa delle mie quali si siano tragedie, e ciò ch’era molto più grave per me, il dispiacere di vederle in un posto distinto, e quindi odioso, al quale io non avevo certamente avuto l’arroganza di destinarle, non mi restava che il soccorso della legge. Ho quindi l’onore d’avvertirla che ho fatto i passi opportuni affinché mi sia assicurato il benefizio della Convenzione; la quale non ha permesso che il compimento delle ristampe principiate prima della sua promulgazione; e ha voluto, com’era giusto, evitare ogni effetto retroattivo, non già perpetuare in una parte, e senza ragione, l’abuso stesso che intendeva levar di mazzo»[10].

Fu così che, con nota del 25 febbraio, la Segreteria di Stato fiorentina invitava il presidente del Buon Governo ad «adibire i mezzi e temperamenti opportuni perché non venga effettuata, e rimanga impedita la ristampa delle tragedie preindicate»[11].

Il Commissario regio, agli inizi del mese successivo, informava le autorità superiori su come fosse stato formalmente proibito al tipografo Le Monnier di procedere alla stampa delle tragedie e concludeva che «la polizia era incaricata di esercitare in proprio la sua vigilanza»[12]. La Segreteria di Stato non si fidava molto di Le Monnier e per questo chiedeva alla polizia di riferire. Il tipografo alla fine si vide costretto a rinunciare alle due tragedie e di conseguenza a tutta la collana, ma capì immediatamente l’errore che aveva commesso: chiedere l’autorizzazione dell’autore, invece che metterlo davanti al fatto compiuto e poi attaccarsi a qualche interpretazione ambigua della legge. In seguito, Le Monnier non avrebbe più commesso lo stesso sbaglio.

Per capire ancora meglio le premesse alla questione legata ai Promessi sposi, è opportuno ricordare i problemi sorti con Grossi e Cantù. Tra la fine del 1944 e l’inizio dell’anno successivo, comparve in Lombardia un manifesto di Le Monnier che annunciava la prossima pubblicazione della Margherita Pusterla del Cantù e del Marco Visconti del Grossi. Alla fine del marzo 1945 il governo austriaco protestava presso quello toscano e chiedeva l’impedimento delle ristampe annunciate. Tra proibizioni, richiami e cavilli comparve una dichiarazione del Manzoni:

«Il racconto di Cesare Cantù l’ho già stampato nella mia tipografia, l’ho già diffuso ed è alla vendita da un pezzo; quanto al romanzo del Grossi, non ho messo mano al lavoro e pertanto nemmeno mi sono messo in regola col prossimo»[13].

Esibiva poi al commissario una lettera con l’autorizzazione del Cantù per la ristampa in questione. In realtà dietro la protesta c’era solo la preoccupazione del governo austriaco per un’opera non amata e non il dissenso del Cantù. A questo punto, il Buon governo non poteva confermare il divieto per l’opera del Cantù e si limitava a intimare di procedere per il Marco Visconti, ma quando venne a conoscenza che entrambe le opere erano già state stampate più volte, anche a Firenze, decise che non si poteva far nulla neanche per il Grossi e dunque auspicava solo un riguardo verso gli autori.

«Riunita dal Granduca la Consulta per una parola decisiva, veniva adottata alla fine di settembre una risoluzione con la quale si revocava il divieto fatto a Le Monnier, che si trovava pertanto libero di riprendere la stampa, e si rendeva noto alla legazione austriaca che se intendeva appoggiare le lagnanze del Grossi nella tutela del proprio interesse “non gli resterebbe altra via che adire i competenti tribunali ordinari”»[14].

Felice Le Monnier era convinto, fin dai primi giorni della disputa, di non aver fatto torto a nessuno, poiché si avvaleva dell’interpretazione dell’articolo 14 della Convenzione, pubblicata nel novembre del 1943 per i tipi Le Monnier in un opuscolo intitolato appunto Interpretazione dell’art. 14 della legge sulla proprietà letteraria pubblicata in Toscana il 17 dicembre 1840, firmato da vari avvocati, che concludevano come la legge intendesse proteggere solo le opere pubblicate dopo la sua promulgazione.

«Per le altre c’era da distinguere: quelle pubblicate e ristampate prima del 22 maggio ’40 che cadevano in dominio pubblico, se non erano state ristampate, né era cominciata la ristampa costituivano proprietà dell’autore così come quelle pubblicate anteriormente alla legge e mai ristampate. Così secondo tale interpretazione le opere più importanti, che avevano perciò avuto ristampe erano da considerare di dominio pubblico, mentre restava all’autore la proprietà di quelle opere che, pur pubblicate, non avevano avuto successo di ristampe»[15].

La questione intorno ai Promessi sposi: Manzoni vs. Le Monnier

I Promessi sposi di Alessandro Manzoni era il libro più pirateggiato dell’intera storia editoriale italiana. Tra la data della prima edizione, il 1825, ad opera di Vincenzo Ferrario e il 1860, erano centinaia le edizioni che giravano, e di queste solo una decina erano state formalmente autorizzate dall’autore.

«La prima versione del romanzo (Ferrario, Milano 1825-26) fu ceduta, per il mercato estero, a Pomba, che ne fece ben sei edizioni tra il 1827 e il 1837; la seconda versione, pubblicata a Milano da Guglielmini e Redaelli nel 1840, fu ristampata l’anno successivo a Parigi da Baudry con un contratto che prevedeva la cessione dei diritti per otto anni»[16].

Nell’aprile 1845 Felice Le Monnier fece uscire dai suoi torchi una nuova edizione dei Promessi Sposi, senza nessuna comunicazione all’autore e alcun preavviso. Manzoni ne ebbe notizia dal Grossi e preoccupato dal contingente danno scriveva all’avvocato Giuseppe Montanelli:

«Unisco a questa lettera la procura per il sig. D.r Uccelli e la lettera che attesta come il sig. Le Monnier abbia altre volte riconosciuto il vero senso dell’art 14, e soprattutto come l’abbia riconosciuto codesta autorità, che non gli permise d’eseguire il suo disegno (cosa che, per dir la verità, non mi lascia intendere come non sia stato messo ostacolo alla seconda contraffazione). C’è anche una prova più recente dell’uno e dell’altro, cioè l’essere stato al detto sig. Le Monnier chiesto ragione dell’aver ristampato il romanzo intitolato Margherita Pusterla, e l’aver lui addotto che n’avea il permesso dell’autore. E ce ne sarà, spero, a quest’ora un’altra: cioè la proibizione di proseguir la ristampa del Marco Visconti. Le confesso poi che m’ha sorpreso grandemente il sentire che sia comparsa costì un’interpretazione dell’articolo suddetto, in favore della contraffazione, e sottoscritta da quattro avvocati. Può esser più evidente che quell’articolo non ha altro fine che di non dare alla convenzione un effetto retroattivo, e non si riferisce ad altro che all’opera di cui fosse principiata la ristampa quando la convenzione fu pubblicata? Come si può pretendere che le parole purché la detta riproduzione abbia avuto cominciamento... avanti quel tempo voglian dire: purché l’opera sia stata ristampata un’altra volta; come se questo fosse un cominciamento e non un fatto pur troppo consumato? Come se la legge, e il buon senso, potesse riguardar la ristampa d’un’opera come una cosa che porta naturalmente e necessariamente una continuazione, anzi una ripetizione? Come si può immaginarsi che una convenzione diretta a levar di mezzo la contraffazione abbia voluto fare un’eccezione così strana, privar del suo benefizio gli autori che avean già patito per la mancanza di essa, e far nascere un diritto perpetuo da un fatto mero, che non aveva altro titolo che di non essere proibito? E se potesse rimaner dubbio, non basterebbe a levarlo il secondo capoverso dell’articolo medesimo, che tronca anche la continuazione dell’opere che fossero divise in più volumi, e di cui alcuni fossero già ristampati, e pubblicata questa ristampa? Ma ne sus Minervam. Sono in mani forti, per mia fortuna, e amiche, per mio onore»[17].

Il primo atto che vedeva Le Monnier formalmente accusato di aver violato la legge del 1840, riproducendo i Promessi sposi senza l’autorizzazione dell’autore, è datato 24 luglio 1845; nel procedimento il dott. Francesco Uccelli, ufficialmente nominato procuratore del Manzoni «invocava dal Tribunale di prima istanza in Firenze la condanna al rifacimento dei danni, con riserva di chiedere il sequestro e la distruzione di tutti gli esemplari e dei tipi o l’aggiudicazione di essi, la condanna anche dei venditori dell’edizione contraffatta e il rimborso di tutte le spese del giudizio»[18]. La risposta di Le Monnier non tardò ad arrivare e il 25 settembre, attraverso il suo procuratore dott. Uberto Vanghetti, chiarì che la sua ristampa si rifaceva sull’edizione dei Promessi sposi del 1832 di Davide Passigli e sottolineava quindi che non aveva commesso alcuna violazione della legge, poiché non aveva usato l’edizione successiva al 1840. Infatti Manzoni, tra il 1840 e il 1843 aveva dato l’autorizzazione ad una nuova versione dei Promessi sposi, la cosiddetta «quarantana», agli editori Guglielmini e Redaelli, impreziosita dalle illustrazioni di Francesco Gonin.

Il professor Giuseppe Montanelli, in un’allegazione presentata al Tribunale fiorentino[19], sosteneva le ragioni del Manzoni e lo faceva esaminando varie questioni. Si domandava se gli autori avessero diritto di opporsi alla ristampa di opere pubblicate prima dell’anno della convenzione. Il punto focale delle sue riflessioni si concentrava nella considerazione del diritto d’autore: era da ritenere un diritto assoluto o un diritto contingente? Ossia era un diritto indipendente dalla qualità dell’autore e dunque andava sempre tutelato, oppure era legato a speciali circostanze? In entrambi i casi, il Montanelli arrivava a dimostrare come fosse necessario tutelarlo anche prima del 1840.

«Né per ciò può dirsi che la legge sarebbe retroattiva. Essa non colpisce i fatti compiuti ma quelli che volessero compiersi senza le condizioni prescritte. Gli editori eran liberi di ristampar le opere pubblicate; ma, sopravvenuta la legge, il poter fare ciò che non era vietato non diventò un diritto acquisito: questo si fonda su un titolo permanente, che potrebbe aversi o dalla legge o da una convenzione»[20].

Quindi ribadiva l’interpretazione manzoniana dell’art. 14 e confutava quella dell’opuscolo lemmoneriano. L’editore rispose il 21 luglio successivo dichiarando nuovamente la sua interpretazione dell’articolo 14 e sostenendo come non poteva essere condannato al rifacimento dei danni, visto il grande dubbio interpretativo.

In pubblica udienza, il 3 agosto 1846, Le Monnier fu condannato alla riparazione dei danni e al rimborso delle spese di giudizio quantificate in L. 237. Il Manzoni ne fu informato dal Montanelli e il 18 agosto rispose: «Andavo dicendo: spero nel Montanelli e nella giustizia toscana; ora dico: viva il Montanelli e la giustizia toscana. Certo, la cosa era chiara; ma l’avevano quasi fatta sparire, e bisognava accender de’ lumi per ritrovarla, come ha fatto Lei, tanto felicemente quanto abilmente»[21].

Ma era solo l’inizio di una lunga controversia. Il 2 settembre 1846 Le Monnier si appellava alla sentenza precedente che aveva sbagliato:

«1- non ammettendo la distinzione tra opere pubblicate avanti e opere pubblicate dopo la promulgazione della legge; 2- incorrendo, nell’esame dell’art. 14 (di cui egli aveva dato la “sola vera” interpretazione), col riferirlo a tutte le opere pubblicate prima del 17 dicembre 1840, nel vizio della retroattività; 3- sostenendo il concetto “stranissimo” dell’applicabilità ai diritti d’autore della distinzione tra diritto assoluto e diritto contingente; 4- negando che l’acquirente di un’opera acquistasse, prima del 1840, anche il diritto di riprodurla; 5- affermando il principio “pericolosissimo, assurdo” che il legislatore potesse rinunziare a un diritto della società, favorire gli autori a danno dei tipografi»[22].

La richiesta dell’editore non fu accolta ma questo non gli impedì di continuare a stampare e far circolare in Italia e all’estero copie dei Promessi sposi. Passarono vari anni e Manzoni cercò di sistemare amichevolmente la questione. Le Monnier intanto scriveva a Giulio Carcano, tipografo francese, sulla vicenda con Manzoni: «Io ero allora in dubbio se dovevo tornare a chiedere il permesso di ripubblicare i Promessi sposi, col timore d’un nuovo rifiuto, quando alcuni legali di qui, e fra gli altri il Salvagnoli, il Marzucchi, l’Andreucci (tre luminari del nostro foro) mi fecero persuaso che io era nel pieno diritto di ristampare i Promessi sposi nella lezione pubblicata dall’autore prima della legge sulla proprietà letteraria; ed io (lo confesso ingenuamente) per non avere un rifiuto, e perché ero pressato da molti miei corrispondenti che mi chiedevano quel libro, stampai la prima lezione. Il signor Manzoni mi mosse querela per tribunale, scelse per suo difensore Mario Montanelli, ed ottenne una sentenza favorevole contro di me; sentenza che mise lì (a mio parere) come una soddisfazione che il Sig. Manzoni volle ottenere, non avendo mai usato fin qui»[23].

Intanto il Radaelli, l’editore che aveva acquistato i diritti per le opere del Manzoni, andava a Firenze nella speranza di risolvere il prima possibile le problematiche con l’editore di origine francese. Solo alla fine del 1857 Manzoni si decise a chiedere conferma della vecchia sentenza del 1846, anche se il suo nuovo procuratore, il dottor Lorenzo Panattoni, che sostituiva il dottor Uccelli defunto, ne fece richiesta ufficiale solo il 15 febbraio 1859. Gli avvocati dell’editore presentarono appello, pare ad insaputa di Le Monnier che in una lettera all’amico Andrea Maffei scrive: «Aiutatemi ad uscire da una questione nella quale sono entrato in buona fede, e tiratovi dai legali, i quali non solo mi assicuravano della mia buona ragione, ma mi facevano interporre appello alla prima sentenza senza ch’io ne sapessi nulla»[24].

Il 16 marzo 1860 Le Monnier, insistendo nella revoca della condanna, poneva l’attenzione sugli articoli 25 e 28 della convenzione. L’articolo 28 diceva:

«La presente convenzione sarà in vigore per quattro anni, decorrenti dal giorno dello scambio delle ratificazioni, ed inoltre per sei mesi successivi alla dichiarazione che l’una parte facesse all’altra, spirati i quattro anni, di voler far cessare l’effetto della stessa convenzione o di procedere alla rinnovazione della medesima con quei miglioramenti che frattanto l’esperienza avrà suggeriti. Ciascuna delle due parti si riserva il diritto di fare all’altra una simile dichiarazione, ed è per patto espresso stabilito fra le medesime che, spirati i sei mesi dopo la dichiarazione suddetta, fatta dall’una parte all’altra, la presente convenzione e tutte le stipulazioni che vi sono contenute cesseranno di avere effetto»; mentre il 25:

«I governi contraenti si comunicheranno le leggi e di regolamenti speciali che ciascuno sarà per adottare rispetto alla proprietà delle produzioni letterarie o scientifiche o delle opere d’arte, affine di agevolare l’eseguimento della presente convenzione negli stati rispettivi»[25].

Fu fissata udienza per il giorno 25 aprile del 1860, ma entrambe le parti avevano già sostenuto le loro dichiarazioni, e quindi il relatore, tale Giorgio Nomis, esplicitò come in realtà fosse ancora in vigore la convenzione, poiché l’articolo 28 stabiliva sì che la legge fosse valida per quattro anni ma precisava anche che questa validità sarebbe stata duratura qualora nessuna delle parti in causa avesse dichiarato la volontà di sciogliere l’accordo: fatto non verificatosi. Qualche altra considerazione, portò la Corte regia alla decisione di condannare Le Monnier alle spese del nuovo giudizio, quantificate in lire 220,40.

L’editore non ne volle sapere e proclamando la violazione e l’errata interpretazione degli articoli 14, 15, 25 e 28 si appellò alla Corte suprema di Cassazione, ribadendo ancora una volta che il trattato internazionale non era in vigore e che la legge non era retroattiva, dunque aveva tutto il diritto di stampare e diffondere i suoi Promessi sposi e non era tenuto a nessun risarcimento per danni. Continuò su questa strada anche il 7 agosto 1861, finendo per far diventare la questione di interesse nazionale.

La liquidazione dei danni

Il 26 maggio 1862, prima che iniziasse la causa per la liquazione dei danni, l’avvocato Lorenzo Panattoni, come procuratore del Manzoni, chiese e ottenne dal pretore di Santa Maria Novella che ordinasse una visita attenta e scrupolosa ai locali e magazzini della tipografia del Le Monnier, per verificare l’esistenza di altre copie dei Promessi Sposi, o comunque strumenti volti a continuare la composizione illegale. Lo stesso giorno un cancelliere, insieme col cursore, due carabinieri e altrettanti testimoni, si recò nella tipografia guidato da un nipote dell’editore e dopo aver svolto una perquisizione minuziosa di tutti i libri, i locali e gli angoli, ottenne da Le Monnier, su richiesta di Manzoni, la promessa giurata che non avrebbe più stampato e messo in vendita altre copie. Il giuramento non impedì però che continuassero a circolare le ristampe; dunque rimane sconcertante accertare l’ingenuità di Manzoni e della stessa polizia in Toscana.

«Un tantino d’ingenuità, del resto, fu anche nel Manzoni; il quale il 28 giungo 1862 chiedeva al Tribunale di Firenze che il Le Monnier, “esplicitamente e completamente, con sincerità, per ossequio alla giustizia, previo il giuramento da deferirglisi formalmente”, assicurasse se era vero: 1) che nell’aprile del 1845, ad onta delle sentenze a lui contrarie, aveva persistito nella riproduzione e vendita dei Promessi Sposi; 2) che n’aveva fatte, sempre con la data del 1845, varie edizioni tipografiche e stereotipate; 3) che teneva regolarmente, come esigono la pratica e la buona fede del commercio librario, tutti i registri, documenti, carteggi e copialettere da cui potesse rilevarsi il numero delle edizioni eseguite e delle copie vendute o depositate in Italia, in Francia, in Germania, in Inghilterra e in America; 4) che possedeva tuttora, presso di sé e presso i suoi corrispondenti e amici, copie legate o sciolte e le tavole stereotipe; 5) che, secondo le affermazioni di librai espertissimi, in diciassette anni aveva guadagnato non meno di L. 65220»[26].

Le Monnier rispose nel dicembre e seppur confermò di aver diffuso le sue copie in Italia e all’estero, era del tutto erroneo pensare che vi fosse ancora qualche esemplare, che l’editore aveva sì prodotto fin dal 1845 ma aveva terminato nel giorno dell’ultima sentenza; dichiarava inoltre di aver fatto due edizioni in caratteri mobili e una in stereotipia del celebre romanzo e che i suo guadagni erano di molto inferiori alla cifra indicata dall’avvocato Panattoni.

Manzoni chiese all’editore di prestare un nuovo giuramento, ma questi si rifiutò ritenendo sufficiente il precedente, e allarmato anche da questo, l’autore, per mezzo del suo avvocato, presentava una nuova richiesta dei danni e degli interessi da imputare a Le Monnier, che arrivavano a stimarsi in L. 154.020, cifra che si ottiene dal ragionamento che ha ripercorso De Rubertis:

«Se il suo editore milanese, Giuseppe Redaelli, nonostante la continua concorrenza, aveva potuto vendere 400 o 500 copie all’anno, al prezzo netto prima di L. 5 e successivamente di L. 4 e L. 2,10; il Le Monnier, che aveva eseguita la ristampa per tre quarti con la stereotipia, ne avrebbe vendute, al prezzo netto di L. 2,20, oltre 3000 all’anno e quindi, dall’aprile del 1845 all’aprile del 1862, circa 51.000: donde, calcolando il costo di ciascuna copia a L. 1,00, un utile di almeno L. 61.200. Se non che la vera base del danno non era il lucro dell’editore fiorentino ma la perdita dell’autore, che in diciassette anni avrebbe potuto vendere altre 51.000 copie: supposto che si fossero vendute al prezzo minimo L. 3, si sarebbe avuto un guadagno di L. 153.000 e, detratte le spese, di L. 102.000. Aggiungendo gl’interessi, calcolati, in ragione del 6%, soltanto su otto anni e mezzo, si otteneva appunto la somma di L. 154.020»[27].

Il 18 luglio 1862 il Panattoni presentava questa specifica al Tribunale di Firenze, invitando Le Monnier a concordare o dedurre una cifra che secondo lui era indicata e chiedendo che fossero fissati dei termini per il pagamento dei danni. La risposta non tardò ad arrivare per opera di Fabio Nespoli, procuratore di Le Monnier, che sosteneva la richiesta della controparte basata su criteri falsi e ingiusti, e quindi erroneamente stimata in una cifra improponibile, che era da diminuire di molto. Il Panattoni ribatté la giustizia della precedente richiesta presentando i registri del Redaelli, nei quali risultava che dopo la sospensione dello smercio dell’edizione contraffatta era cresciuta la vendita delle edizioni milanesi; ma il Redaelli era parte interessata nella causa e quindi la sua testimonianza non poteva considerarsi priva di influenze: fu proprio su questo che si basò la successiva risposta del Nespoli, offrendo per liquidare la causa la somma di L. 15.926,12.

«E che il Manzoni nessuna prova aveva offerta a giustificazione della sua specifica, essendo sospette le dichiarazioni e attestazioni del Redaelli, che era parte interessata nella causa e testimone unico e stragiudiciale. Del resto dalla specifica ch’egli contrapponeva a quelle dell’avversario si rilevava che il Le Monnier non aveva stampato che 16.000 copie; 3000 della prima edizione del 1845, 2000 della seconda del 1850, altrettante della terza del 1853, 1000 della edizione in stereotipia del 1855 e 8000 della stessa dal 1856 al 1860; dalla vendita delle quali, detratte tutte le spese, aveva ricavato sole L. 15.926,12»[28].

Ci furono risposte e contro risposte, ma nessuno sembrava voler cedere. Intanto il tipografo francese voleva un accordo pacifico e fu così che chiese l’intervento di alcuni amici comuni con l’autore: Andrea Maffei e Gino Capponi. Quest’ultimo scriveva personalmente il 30 luglio del 1862 a Manzoni trovando belle parole per Le Monnier e avvisandolo che avrebbe scritto a Gaetano Castillia, anch’egli amico comune, per trovare una via d’uscita. Questi tentativi fallirono miseramente perché sia l’autore che l’editore continuavano a non trovare accordi utili. Ormai la controversia sembrava fuori controllo, ma fortunatamente intervenne Gaspero Barbera.

Gaspero Barbera era nato il 12 gennaio 1818 a Torino e a un certo punto della sua vita si trovò presso il Gabinetto Viesseux; fu lì che lo conobbe Felice Le Monnier, il quale gli propose di lavorare per lui per tenere i conti, eseguir commissioni e rivedere stampe; quindi dal 1841 al 1854 fu commesso e segretario dell’editore, e vistolo particolarmente turbato e affaticato dalla questione con Manzoni, gli offrì di intervenire come mediatore. All’inizio il tipografo francese non accettò, poi però capì che poteva essere una cosa utile e andando a ringraziarlo per l’offerta, gli comunicò di accettarla e fu così che consegnò a Barbera una lettera datata 7 marzo 1864, nella quale gli si dava “piena facoltà di devenire ad un accordo” e l’incarico di testimoniare la buona fede dell’editore.

Barbera partiva per Milano con due lettere di presentazione, una di Niccolò Tommaseo e una di Massimo D’Azeglio, quest’ultimo gli consegnava anche un biglietto dove gli augurava “buon successo nel suo arduo mestiere di far combaciare 15 con 150”. Inoltre lo accompagnava a Milano anche il consiglio di Francesco Ambrosoli sul modo di presentarsi allo scrittore.

Il 10 marzo 1864 Barbera veniva ricevuto dapprima dal solo Manzoni, poi anche davanti al figlio dello scrittore Pietro e al Redaelli. Barbera nelle sue memorie scriveva ricordando la discussione di quel primo incontro:

«Affermai sul mio onore che il Le Monnier, in quel periodo d’anni che durò la lite, aveva venduto 24 mila esemplari della edizione dei Promessi Sposi, e il guadagno doveva su per giù essere di 24 mila lire; che il frutto di queste 24 mila lire, rimaste in mano del Le Monnier in media sei anni, potevasi calcolare un sei mila lire: cosicché la somma di 30 mila lire parevami il giusto compenso che il Le Monnier dovesse dare all’autore dei Promessi Sposi»[29].

Gli interlocutori rimasero colpiti e fissarono un incontro per il giorno successivo, nel quale, per riguardo al Barbera e alle sue lettere di presentazione, abbassarono enormemente la loro richiesta a 40.000 lire, ma su questa cifra non ammettevano più alcuna discussione. Barbera telegrafava al Le Monnier per metterlo al corrente delle nuove condizioni, ma l’editore, che prima aveva dichiarato di rimettersi completamente alla volontà del mediatore, rifiutava l’offerta e controbatteva mandando un dispaccio in cui proponeva una cifra pari a 25.000 lire. In un terzo incontro con l’autore, Barbera riusciva a mediare la cifra di 34.000 lire, ma anche questa volta l’editore non voleva saperne di accettare, poiché convinto dell’ingiustizia della somma.

Barbera intanto partiva per Torino, diretto a Ginevra e Francoforte, e dopo pochi giorni lo raggiunse una lettera di Le Monnier che lo ringraziava per l’impegno e l’intervento nella questione e si mostrava dispiaciuto per come erano andate le cose, che forse potevano risolversi in maniera diversa se lui stesso si fosse recato a Milano; ed è proprio questo che gli consigliava Barbera in risposta alla sua lettera.

Il 2 aprile 1864 Le Monnier si recò finalmente a Milano e, prima di tornare a Firenze informava Barbera d’aver accettato la cifra di 34.000 mila, con il pagamento di 20.000 Lire entro il 30 aprile 1864, di 7.000 entro il 31 marzo 1865 e le rimanenti 7.000 non oltre il settembre dello stesso anno.

Sono comunque noti, durante le ultime trattative, altri tentativi dell’editore per ridurre l’offerta, ma alla fine anche lui fu costretto a cedere. Pietro Manzoni scriveva il 3 aprile 1864 al Barbera:

«Io stavo scrivendole in risposta alla pregiatissima sua di Berlino per ragguagliarla dei vari passi fatti dal signor Le Monnier presso persone di qui onde cercare di ottenere condizioni assai diverse da quelle su le quali ci eravamo intesi con Lei, condizioni su le quali mio padre fu sempre irremovibile, come Ella può ben pensare, molto più che s’era ripetutamente risposto che, se si era scesi ad una cifra tanto minima, era stato in gran parte per un riguardo speciale verso il signor Barbera che s’era con tanto cuore impegnato a voler vedere finite queste pendenze»[30].

Le Monnier, che ci teneva molto alla stima di Manzoni, per suggellare la riconciliazione, gli donava un volume pregiato: le Rime di Michelangelo Buonarroti, curate da Cesare Giusti.

La questione era definitivamente terminata ma negli anni seguenti non si placarono i dibattiti intorno alla proprietà letteraria.

 

[1] Achille de Rubertis, Documenti manzoniani, Perrella, Napoli 1926, p. 10.[2] Maurizio Borghi, La manifattura del pensiero, Franco Angeli, Milano 2003, p. 25.[3] Encyclopédie, Paris 1754, t. IV, col 133b in M. Borghi, La manifattura del pensiero, p. 148.

[4] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, p. 5.

[5] M. Borghi, La manifattura del pensiero, p. 33.

[6] Cesare Cantù, Condizione economica delle lettere, «Rivista europea», II, 1838, p. 35.

[7] Maria Iolanda Palazzolo, Geografia e dinamica degli insediamenti editoriali, in Gabriele Turi (a cura di), Storia dell’editoria nell’Italia contemporanea, Giunti, Firenze 1997, pp. 39-40.

[8] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, pp. 17-18.

[9] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, p. 29, nota 1.

[10] Angela Nadia Bonanni, Editori, tipografi e librai dell’Ottocento, Liguori editore, Napoli 1998, p. 142.

[11] Cosimo Ceccuti, Un editore del risorgimento Felice Le Monnier, Le Monnier, Firenze 1974, pp. 86-87.

[12] Ibidem.

[13] Ibi, p. 182.

[14] Ibi, p. 187.

[15] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, pp. 21-22.

[16] C. Borghi, La manifattura del pensiero, p. 160.

[17] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, pp. 28-29.

[18] Ibidem.

[19] Giuseppe Montanelli, Intorno alla riproduzione delle opere stampate prima della legge sulla proprietà letteraria…, in Ibi, p. 30.

[20] Ibi, p. 31.

[21] Ibi, p. 34.

[22] Ibi, pp. 34-35.

[23] C. Ceccuti, Un editore del risorgimento, p. 189.

[24] A. N. Bonanni, Editori, tipografi…, p. 149, nota.

[25] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, p. 37, nota.

[26] A. De Rubertis, Documenti manzoniani, pp. 50-51.

[27] Ibi, p. 51.

[28] Ibi, pp. 52-53.

[29] Gasparo Barbera, Memorie, in Ibi, p. 55.

[30] Ibi, p. 56.