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Mestiere rumoroso: illecito penale o amministrativo?

Nota a Corte di Cassazione - Sezione Prima Penale, Sentenza 9 giugno 2009, n.23866
Non è semplice valutare quando il mestiere rumoroso integra la fattispecie di reato ex art. 659 co. 2 c.p. (Chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni di legge o le prescrizioni dell’Autorità) oppure la differente ipotesi dell’illecito amministrativo ex art. 10 comma 2 L. 447/95 (Chiunque, nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore, supera i valori limite di emissione o di immissione di cui all’articolo 2, comma 1, lettere e) e f) fissati in conformità al disposto dell’articolo 3, comma 1, lettera a), è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da lire 1.000.000 a lire 10.000.000).

Ancora si discute se l’impresa rumorosa possa rispondere ex art. 659 comma 1 c.p.. (Chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici..).

Molta confusione regna.

Le imprese che esercitano attività rumorose, per loro stessa natura, oltre a subire i costi di attività e di produzione, spesso sono sovraesposte a controlli amministrativi, denunce spesso infondate, avvallate dalle amministrazioni, che producono a loro volta costi di gestione dei relativi contenziosi.

Spesso si dimentica che non esiste un “diritto al silenzio” e che il rumore, nel caso di mestiere rumoroso acquista rilevanza penale laddove venga esercitato “contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’Autorità”.

Ebbene, la sentenza della Cassazione penale n. 23866/09 offre un aiuto alla comprensione del delicato problema della “rumorosità aziendale” e fornisce una chiave di lettura quasi “equa” anzi “equilibrata”; tale ponderato equilibrio ormai stupisce e merita segnalazione laddove troppe volte si assiste impotenti a decisioni che lasciano il lettore “basito e privo di commento”.

La Corte ribadisce la depenalizzazione operata dalla L. 447/95 laddove l’impresa violi i limiti di immissione ed emissione di rumore ivi stabiliti; afferma l’applicazione dell’art. 659 comma 2 c.p. solo ove si discuta di violazione di ulteriori e diverse prescrizioni dell’autorità; esclude in ogni caso l’estensione e l’applicabilità del comma 1 dell’art. 659 c.p. alle imprese “rumorose”

Ebbene. La Cassazione precisa la finalità dell’art. 659 c.p. e dell’illecito amminstrativo ex art. 10 L. 447/95 ma sottolinea la necessità di “non sopravalutare” tale diversa finalità ovvero l’aspetto “teleologico”.

Ribadisce la Cassazione che l’art. 659 c.p. è finalizzato a preservare e tutelare quiete e tranquillità pubblica e dunque prescinde dall’accertamento o violazione di limiti tabellari; diversamente la L. 447/95 è finalizzata alla tutela della salubrità ambientale e salute umana e dunque la sola violazione dei limiti tabellari comporta la contestazione, a prescindere dall’accertamento della concreta lesività del bene.

Vero è che la sola violazione dei limiti tabellari imposti dalla L. 447/95 non giustifica di per se’ e non consente, come invece spesso accade, la contestazione dell’art. 659 c.p..

Con riferimento alle attività rumorose (ovvero a quelle attività che per produrre generano rumore) la Cassazione, richiamando il comma secondo dell’art. 659 c.p.,  elabora il principio di diritto per il quale ”….nella ipotesi di esercizio di una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni di legge o le prescrizioni di autorità la carica di lesività del bene giuridico protetto da entrambe le disposizioni della norma incriminatrice – la quiete e la tranquillità pubblica – è presunta ope legis ed è racchiusa, per intero, nel precetto dell’art. 659 c.p. comma 2.”

Prosegue la Corte fornendo criterio per diversificare l’applicazione dell’illecito penale o amministrativo.

Ed invero la diversa finalità degli illeciti non paralizza l’applicazione del principio di specialità che impone l’applicazione del solo illecito amministrativo (norma speciale) laddove la contestazione effettuata in sede penale si concreti nel mero superamento dei limiti tabellari.

Qualora l’inquinamento acustico si concreta nel mero superamento dei limiti massimi e differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali e dunque la condotta non integra elementi ulteriori e diversi, allora l’illecito penale cede a fronte dell’illecito amministrativo e ne viene assorbito.

Cita la sentenza “qualora ’illecito penale non si diversifichi oggettivamente da quello amministrativo almeno per qualche aspetto fattuale, ulteriore e diverso, e si verifichi invece la sovraponibilità tra i due tipi di condotta la coesistenza e l’eventuale concorso dei due apparati sanzionatori penale e amministrativo potrebbe invero generare aspetti di manifesta irrazionalità del sistema, consentendosi ….la riespansione dell’illecito penale previsto dal primo comma della norma codicistica nonostante la sostanziale identità del fatto e la stretta affinità dei valori e dei beni meritevoli di tutela..”.

In concreto laddove si ravvisi solo ed esclusivamente la violazione dei limiti tabellari deve e può applicarsi solo l’illecito amministrativo (per il principio di specialità) in quanto l’illecito penale richiede un quid pluris nella condotta, un elemento aggiuntivo, ulteriore e diverso, per poter essere contestato.

Pertanto una attività rumorosa, per sua natura - ovvero il cui processo di produzione (es. frantumazione cava, inerti) genera rumore - laddove legittimamente autorizzata, svolta negli orari consentiti, munita degli accorgimenti tecnici destinati all’abbattimento del rumore, nel rispetto delle prescrizioni dell’autorità … non lascia spazio alla contestazione dell’art. 659 comma 2 c.p. bensì e solo all’illecito amministrativo.

*

CASSAZIONE penale n. 2875 del 21 dicembre 2006

La Cassazione del 2006 anticipa le riflessioni della Cassazione del 2009 sopra citata e risponde alla domanda: l’azienda “rumorosa” può rispondere ex art. 659 comma 1?

Il caso aveva ad oggetto una falegnameria che non aveva installato barriere fonoassorbenti a ridosso delle pareti e del soffitto.

La Corte precisa che laddove si tratti di azienda che svolge attività rumorosa per la sua produzione deve applicarsi in via esclusiva ed assorbente il comma 2 dell’art. 659 c.p. in quanto: “ ...dalla comparazione tra il primo ed il secondo comma dell’articolo in esame si desume ...chiaramente che ogni ipotesi di esercizio di un mestiere naturalmente rumoroso costituisce l’oggetto della disposizione di cui al secondo comma, attenuata rispetto a quella di cui al primo comma per il ritenuto necessario contemperamento tra le esigenze della quiete pubblica con quelle della produzione...”.

Il legislatore dunque ha tenuto già in conto le esigenze della produzione e le esigenze della quiete pubblica ed esprime il bilanciamento degli interesse in gioco a mezzo del comma 2 dell’art. 659 c.p..

Prosegue la Corte indicando che le esigenze di contemperamento sono proprio all’origine della disciplina dettata in materia di contenimento di rumori fastidiosi.

Il secondo comma dell’art. 659 comma 2 c.p. trova applicazione dunque ogni qualvolta si tratti di impresa rumorosa senza poter estendere il comma 1 alla attività rumorosa.

La conclusione (ribadita anche nella sentenza del 2009) è importante: l’art. 659 comma 2 c.p. deve essere applicato ogni qualvolta si discuta sul rumore provocato da azienda “rumorosa”.

La falegnameria priva dei pannelli fonoassorbenti ovvero in violazione di prescrizione diverse da quelle relative ali limiti di emissione (altrimenti depenalizzata) potrà dunque rispondere solo ex art. 659 comma 2 c.p..

*

Art. 6 ter L. 27 febbraio 2009, n.13: nomale tollerabilità

Ritornando alla sentenza del 2009 (Cass. Pen. 23866/2009) merita soffermarsi su altra precisazione importante.

La sentenza si distingue anche per aver affrontato la interpretazione dell’art. 6 ter L. 13/2009 che si innesta nel tessuto privatistico disciplinato dall’art. 844 c.c. e sul concetto di normale tollerabilità: “ per accertare la normale tollerabilità delle immissioni e delle emissioni acustiche ai sensi dell’art. 844 c.c. sono fatte salve in ogni caso le disposizioni di legge e di regolamento vigenti che disciplinano specifiche sorgenti e la priorità di un determinato uso”.

La Corte precisa che il giudice civile trova limite alla sua discrezionalità nel valutare la normale tollerabilità e deve tenere conto della “condizione dei luoghi” delle “esigenze della produzione” e della “preesistenza dell’attività industriale rispetto a qualle residenziale” ovvero del cosidetto preuso.

L’accenno al giudizio civile desta attenzione ma la Corte subito precisa che tali considerazioni sulla normale tollerabilità ed il richiamo all’art. 6 ter citato trovano ragione nel giudizio penale, laddove la contestazione mossa all’imputato ex art. 659 comma 1 c.p. aveva ad oggetto non solo la violazione dei limiti di cui alla L. 447/95 ma anche il limite della normale tollerabilità.

Ebbene, la Corte penale ha applicato il principio di cui all’art. 6 ter citato, valutando la rilevanza del preuso dell’attività industriale (rumorosa) anche in sede penale ed avendo accertato in sede processuale la preesistenza dello stesso rispetto ad alcuni insediamenti industriali; e ciò al fine di escludere la violazione della normale tollerabilità.

Qualora dunque in sede penale si contesti la normale tollerabilità del rumore quale elemento aggiuntivo e diverso alla violazione dei limiti tabellari devono trovare applicazione i criteri dei cui all’art. 6 ter L. 13/2009.

L’attività rumorosa che si svolge, senza abuso o uso smodato, deve trovare dunque tutela nell’ordinamento e le ragioni della produzione devono essere correttamente bilanciate con il diritto del singolo e del bene tutelato; e ciò con una valutazione complessiva che tenga conto del “preuso”, della “collocazione territoriale” delle “modalità” di svolgimento della attività.

Non è semplice valutare quando il mestiere rumoroso integra la fattispecie di reato ex art. 659 co. 2 c.p. (Chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni di legge o le prescrizioni dell’Autorità) oppure la differente ipotesi dell’illecito amministrativo ex art. 10 comma 2 L. 447/95 (Chiunque, nell’esercizio o nell’impiego di una sorgente fissa o mobile di emissioni sonore, supera i valori limite di emissione o di immissione di cui all’articolo 2, comma 1, lettere e) e f) fissati in conformità al disposto dell’articolo 3, comma 1, lettera a), è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da lire 1.000.000 a lire 10.000.000).

Ancora si discute se l’impresa rumorosa possa rispondere ex art. 659 comma 1 c.p.. (Chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici..).

Molta confusione regna.

Le imprese che esercitano attività rumorose, per loro stessa natura, oltre a subire i costi di attività e di produzione, spesso sono sovraesposte a controlli amministrativi, denunce spesso infondate, avvallate dalle amministrazioni, che producono a loro volta costi di gestione dei relativi contenziosi.

Spesso si dimentica che non esiste un “diritto al silenzio” e che il rumore, nel caso di mestiere rumoroso acquista rilevanza penale laddove venga esercitato “contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell’Autorità”.

Ebbene, la sentenza della Cassazione penale n. 23866/09 offre un aiuto alla comprensione del delicato problema della “rumorosità aziendale” e fornisce una chiave di lettura quasi “equa” anzi “equilibrata”; tale ponderato equilibrio ormai stupisce e merita segnalazione laddove troppe volte si assiste impotenti a decisioni che lasciano il lettore “basito e privo di commento”.

La Corte ribadisce la depenalizzazione operata dalla L. 447/95 laddove l’impresa violi i limiti di immissione ed emissione di rumore ivi stabiliti; afferma l’applicazione dell’art. 659 comma 2 c.p. solo ove si discuta di violazione di ulteriori e diverse prescrizioni dell’autorità; esclude in ogni caso l’estensione e l’applicabilità del comma 1 dell’art. 659 c.p. alle imprese “rumorose”

Ebbene. La Cassazione precisa la finalità dell’art. 659 c.p. e dell’illecito amminstrativo ex art. 10 L. 447/95 ma sottolinea la necessità di “non sopravalutare” tale diversa finalità ovvero l’aspetto “teleologico”.

Ribadisce la Cassazione che l’art. 659 c.p. è finalizzato a preservare e tutelare quiete e tranquillità pubblica e dunque prescinde dall’accertamento o violazione di limiti tabellari; diversamente la L. 447/95 è finalizzata alla tutela della salubrità ambientale e salute umana e dunque la sola violazione dei limiti tabellari comporta la contestazione, a prescindere dall’accertamento della concreta lesività del bene.

Vero è che la sola violazione dei limiti tabellari imposti dalla L. 447/95 non giustifica di per se’ e non consente, come invece spesso accade, la contestazione dell’art. 659 c.p..

Con riferimento alle attività rumorose (ovvero a quelle attività che per produrre generano rumore) la Cassazione, richiamando il comma secondo dell’art. 659 c.p.,  elabora il principio di diritto per il quale ”….nella ipotesi di esercizio di una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni di legge o le prescrizioni di autorità la carica di lesività del bene giuridico protetto da entrambe le disposizioni della norma incriminatrice – la quiete e la tranquillità pubblica – è presunta ope legis ed è racchiusa, per intero, nel precetto dell’art. 659 c.p. comma 2.”

Prosegue la Corte fornendo criterio per diversificare l’applicazione dell’illecito penale o amministrativo.

Ed invero la diversa finalità degli illeciti non paralizza l’applicazione del principio di specialità che impone l’applicazione del solo illecito amministrativo (norma speciale) laddove la contestazione effettuata in sede penale si concreti nel mero superamento dei limiti tabellari.

Qualora l’inquinamento acustico si concreta nel mero superamento dei limiti massimi e differenziali di rumore fissati dalle leggi e dai decreti presidenziali e dunque la condotta non integra elementi ulteriori e diversi, allora l’illecito penale cede a fronte dell’illecito amministrativo e ne viene assorbito.

Cita la sentenza “qualora ’illecito penale non si diversifichi oggettivamente da quello amministrativo almeno per qualche aspetto fattuale, ulteriore e diverso, e si verifichi invece la sovraponibilità tra i due tipi di condotta la coesistenza e l’eventuale concorso dei due apparati sanzionatori penale e amministrativo potrebbe invero generare aspetti di manifesta irrazionalità del sistema, consentendosi ….la riespansione dell’illecito penale previsto dal primo comma della norma codicistica nonostante la sostanziale identità del fatto e la stretta affinità dei valori e dei beni meritevoli di tutela..”.

In concreto laddove si ravvisi solo ed esclusivamente la violazione dei limiti tabellari deve e può applicarsi solo l’illecito amministrativo (per il principio di specialità) in quanto l’illecito penale richiede un quid pluris nella condotta, un elemento aggiuntivo, ulteriore e diverso, per poter essere contestato.

Pertanto una attività rumorosa, per sua natura - ovvero il cui processo di produzione (es. frantumazione cava, inerti) genera rumore - laddove legittimamente autorizzata, svolta negli orari consentiti, munita degli accorgimenti tecnici destinati all’abbattimento del rumore, nel rispetto delle prescrizioni dell’autorità … non lascia spazio alla contestazione dell’art. 659 comma 2 c.p. bensì e solo all’illecito amministrativo.

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CASSAZIONE penale n. 2875 del 21 dicembre 2006

La Cassazione del 2006 anticipa le riflessioni della Cassazione del 2009 sopra citata e risponde alla domanda: l’azienda “rumorosa” può rispondere ex art. 659 comma 1?

Il caso aveva ad oggetto una falegnameria che non aveva installato barriere fonoassorbenti a ridosso delle pareti e del soffitto.

La Corte precisa che laddove si tratti di azienda che svolge attività rumorosa per la sua produzione deve applicarsi in via esclusiva ed assorbente il comma 2 dell’art. 659 c.p. in quanto: “ ...dalla comparazione tra il primo ed il secondo comma dell’articolo in esame si desume ...chiaramente che ogni ipotesi di esercizio di un mestiere naturalmente rumoroso costituisce l’oggetto della disposizione di cui al secondo comma, attenuata rispetto a quella di cui al primo comma per il ritenuto necessario contemperamento tra le esigenze della quiete pubblica con quelle della produzione...”.

Il legislatore dunque ha tenuto già in conto le esigenze della produzione e le esigenze della quiete pubblica ed esprime il bilanciamento degli interesse in gioco a mezzo del comma 2 dell’art. 659 c.p..

Prosegue la Corte indicando che le esigenze di contemperamento sono proprio all’origine della disciplina dettata in materia di contenimento di rumori fastidiosi.

Il secondo comma dell’art. 659 comma 2 c.p. trova applicazione dunque ogni qualvolta si tratti di impresa rumorosa senza poter estendere il comma 1 alla attività rumorosa.

La conclusione (ribadita anche nella sentenza del 2009) è importante: l’art. 659 comma 2 c.p. deve essere applicato ogni qualvolta si discuta sul rumore provocato da azienda “rumorosa”.

La falegnameria priva dei pannelli fonoassorbenti ovvero in violazione di prescrizione diverse da quelle relative ali limiti di emissione (altrimenti depenalizzata) potrà dunque rispondere solo ex art. 659 comma 2 c.p..

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Art. 6 ter L. 27 febbraio 2009, n.13: nomale tollerabilità

Ritornando alla sentenza del 2009 (Cass. Pen. 23866/2009) merita soffermarsi su altra precisazione importante.

La sentenza si distingue anche per aver affrontato la interpretazione dell’art. 6 ter L. 13/2009 che si innesta nel tessuto privatistico disciplinato dall’art. 844 c.c. e sul concetto di normale tollerabilità: “ per accertare la normale tollerabilità delle immissioni e delle emissioni acustiche ai sensi dell’art. 844 c.c. sono fatte salve in ogni caso le disposizioni di legge e di regolamento vigenti che disciplinano specifiche sorgenti e la priorità di un determinato uso”.

La Corte precisa che il giudice civile trova limite alla sua discrezionalità nel valutare la normale tollerabilità e deve tenere conto della “condizione dei luoghi” delle “esigenze della produzione” e della “preesistenza dell’attività industriale rispetto a qualle residenziale” ovvero del cosidetto preuso.

L’accenno al giudizio civile desta attenzione ma la Corte subito precisa che tali considerazioni sulla normale tollerabilità ed il richiamo all’art. 6 ter citato trovano ragione nel giudizio penale, laddove la contestazione mossa all’imputato ex art. 659 comma 1 c.p. aveva ad oggetto non solo la violazione dei limiti di cui alla L. 447/95 ma anche il limite della normale tollerabilità.

Ebbene, la Corte penale ha applicato il principio di cui all’art. 6 ter citato, valutando la rilevanza del preuso dell’attività industriale (rumorosa) anche in sede penale ed avendo accertato in sede processuale la preesistenza dello stesso rispetto ad alcuni insediamenti industriali; e ciò al fine di escludere la violazione della normale tollerabilità.

Qualora dunque in sede penale si contesti la normale tollerabilità del rumore quale elemento aggiuntivo e diverso alla violazione dei limiti tabellari devono trovare applicazione i criteri dei cui all’art. 6 ter L. 13/2009.

L’attività rumorosa che si svolge, senza abuso o uso smodato, deve trovare dunque tutela nell’ordinamento e le ragioni della produzione devono essere correttamente bilanciate con il diritto del singolo e del bene tutelato; e ciò con una valutazione complessiva che tenga conto del “preuso”, della “collocazione territoriale” delle “modalità” di svolgimento della attività.