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Notte stellata

notte stellata
notte stellata

Notte stellata

 

A primavera potevano stare finalmente all’aperto. Per il terzo giorno consecutivo si trovarono al laghetto, un bel posto lì in centro città.

Nad sapeva che avrebbe trovato birra e forse del fumo. Sarebbero stati lì sui cellulari a costruire discorsi insensati, solo per far trascorrere quel maledetto tempo che non passava mai. A casa sarebbe stato inutile tornare. Lo consideravano un problema e nemmeno sua sorella gli parlava più, perché non capiva quel suo essere così strano, spesso alterato, a volte violento, meglio dunque per lui starsene fuori da quell’appartamento che il comune aveva dato alla sua famiglia.

In fondo la patina di benessere che quelle mura dichiaravano era solo un miraggio. Sì, perché là dentro lui ci stava male, non si sentiva capito da nessuno e il ripetersi di riti religiosi che percepiva distanti non lo aiutava a comprendere quale fosse il suo posto. Inutile che la mamma gli elencasse i suoi doveri, a lui non gliene fregava niente e d’altronde, nemmeno il papà, che si concedeva all’alcol fino a stordirsi, poteva permettersi di fargli la morale.

Il percorso scolastico poi era stato un disastro. Non riusciva a stare seduto sulla sedia, non aveva metodo, non sapeva che cosa volesse dire studiare con continuità, avere un’ambizione o semplicemente farcela.

Gli passarono uno spinello, aspirò abbandonandosi alla mollezza.

Gli venne in mente di quella volta che aveva riprodotto su tela la “Notte stellata”, la prof aveva mostrato il suo dipinto in ogni classe, era entusiasta per quelle pennellate intense, per quel cielo dal blu così inquieto e lui aveva provato una gioia incontenibile. Ma a casa nessuno aveva dato peso a quel vano successo, arte non era una materia tanto importante e lui dalla rabbia aveva stracciato tutto ed era uscito di casa sbattendo la porta. Dopo quella volta c’erano state altre occasioni in cui aveva espresso la sua creatività, ma di cui si era subito vergognato nel confronto con gli altri, quei bulli nullafacenti a cui aveva affidato la sua educazione e che consideravano certe debolezze da sfigati.

Sputò per terra come se stesse sputando sulla sua storia. Su quella terra lontana di cui era figlio irriconoscente, sulla terra dove stava e in cui si sentiva esiliato. Non si era risolto in nulla e ora, a vent’anni, alle 12 di mattina, seduto su quella panchina vicino al lago, si sentiva uno sconfitto, un inutile sconfitto per cui bello e brutto, male e bene non facevano differenza. Sentì la profonda nostalgia di qualcosa, sentì la mancanza di una guida, di un adulto che avrebbe dovuto permettergli di far esplodere i suoi talenti, che avrebbe dovuto aver cura di lui, che avrebbe dovuto semplicemente amarlo per quello che era: un figlio di due mondi, spaccato dentro, capace di dipingere con vigore commuovente tutto ciò che osservava con quei grandi occhi nocciola. Sentì la nostalgia di una fidanzata, di un’alleata che avrebbe potuto combattere la sua guerra, sentì la nostalgia della sua giovinezza, dei suoi desideri.

Passò una signora con un cagnolino agghindato, lo guardò sprezzante ed estranea al suo dolore, ricacciandolo nel buio della sua inadeguatezza. Per l’ennesima volta provò vergogna.

Di lì a poco, si avvicinò un nonno che teneva stretta nella sua la mano quella piccola del nipotino, come fosse una pepita preziosa. Si fermarono accanto a lui sulla sponda ad ammirare l’acqua che scintillava innocente sotto il sole. Condivisero per qualche minuto quel panorama, Nad lo fissò un attimo, come specchiandosi, poi lasciò ricadere la testa penzoloni, i gomiti appoggiati sulle gambe, la birra in mano; gli venne in mente che nemmeno la vita del suo amato van Gogh era stata così facile e si chiese se qualcosa sarebbe potuto cambiare, se ci fosse un’alternativa, un miracolo, un piccolo miracolo anche per lui.