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Prevenzione della patologia delle cure genitoriali

La responsabilità educativa dei genitori è oggi una delle dimensioni più fragili dei nuovi adulti
responsabilità educativa dei genitori
responsabilità educativa dei genitori

Prevenzione della patologia delle cure genitoriali


Abstract

Il contributo, attingendo al sapere giuridico, pedagogico e psicologico, si propone di indicare possibili strade al percorso genitoriale dei nuovi adulti per evitare di cadere nella patologia delle cure


Il filosofo tedesco Martin Heidegger, nella sua principale opera «Essere e tempo» (prima edizione 1927), scriveva che la cura è la peculiarità ontologica dell’essere, del suo esserci nel rapporto con l’altro. Aggiungeva che il rapporto di cura verso gli altri è esposto all’alternativa tra inautenticità e autenticità come il rapporto verso se stessi, perché aver cura di un altro può significare espropriarlo della sua capacità di aver cura o rispettarlo nel suo essere un’esistenza e nella sua libertà di prendersi cura.

Tutto questo vale ancor di più per i genitori nei confronti dei figli. La cura è la struttura ontologica fondamentale della genitorialità come si ricava dalla vita, dalle scienze umane e dalle fonti normative. Nella Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia la cura è più volte richiamata e vi sono varie locuzioni per definirne il contenuto, tra cui l’accudimento del fanciullo (art. 7). Vanno aumentando, però, i casi di mancanza di cura adeguata dei figli che configurano la cosiddetta patologia delle cure, incuria, discuria, ipercura, che, in alcune sentenze, sono state considerate forme di abuso o maltrattamento, come già puntualizzato nella definizione data nel IV Seminario Criminologico (Consiglio d’Europa, Strasburgo, 1978): “Gli atti e le carenze che turbano gravemente i bambini e le bambine, attentano alla loro integrità corporea, al loro sviluppo fisico, affettivo, intellettivo e morale, le cui manifestazioni sono la trascuratezza e/o psichico e/o sessuale da parte di un familiare o di terzi”. Concetti che sono stati trasfusi nell’articolato della Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia, per esempio nell’art. 39 si parla di “fanciullo vittima di qualsiasi forma di negligenza”.

Dati i seri pregiudizi che possono subire i bambini in caso di patologia delle cure è necessario, tra l’altro, “sviluppare la medicina preventiva, l’educazione dei genitori e l’informazione ed i servizi in materia di pianificazione familiare” (art. 24 lettera f Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

“Un bambino che cresce senza una carezza, indurisce la pelle, non sente niente, neanche le mazzate” (lo scrittore Erri De Luca): quante volte, troppe volte! Le lacrime (anche quelle invisibili) dei bambini, per la morte di un genitore o causate da altri dolori che non dovrebbe provare a quell’età, sono le più dolenti e pongono interrogativi senza risposte retoriche. Quando non si può far nulla non resta che raccogliere quelle lacrime nel proprio cuore e considerarle un dono prezioso. L’amore nei confronti dei bambini non si dimostra né si declama ma si rivela con la cura, l’attenzione, lo sguardo, procurando “ben-essere”, con l’assistenza morale che è stata introdotta tra i doveri genitoriali negli articoli 147 e 315 bis comma 1 cod.civ..

“I genitori o le altre persone aventi cura del fanciullo hanno primariamente la responsabilità di assicurare, nei limiti delle loro possibilità e delle disponibilità finanziarie, le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fanciullo” (art. 27 par. 2 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia). I genitori sono variamente qualificati come “competenti”, “efficaci”, “resilienti”, “consapevoli” o altro. I genitori dovrebbero tornare a fare i genitori tenendo conto di due importanti indicazioni del suddetto art. 27, “nei limiti” e “condizioni necessarie allo sviluppo” (e non ipersviluppo): ovvero anziché fare i fuochi d’artificio per l’arrivo di un figlio e, successivamente, per ogni sua conquista o nuova esperienza, i genitori dovrebbero innanzitutto capire e far capire che, dopo lo spettacolo pirotecnico, restano le nuvolette di fumo, l’odore del bruciato, frammenti di carta e polvere che qualcuno deve pur spazzare e adoperarsi successivamente per nuove manifestazioni (questo significa pure considerazione dell’altro). Per il bene dei figli e di tutti bisogna evitare di crescere figli tiranni, onnipotenti o simmetrici.

Il pedagogista Daniele Novara richiama: “I bambini hanno bisogno di fare i bambini, giocare, muoversi, stare in compagnia dei coetanei, avere regole chiare dai genitori, piuttosto che urla e punizioni. Prima di cercare presunti disturbi comportamentali, chiediamoci se la vita di nostro figlio è davvero adatta ai suoi bisogni di crescita e di autonomia”. Essere genitori responsabili significa anche saper dare risposte ai propri interrogativi e alle domande dei figli, soprattutto a quelle che sono esigenze e che spesso sono camuffate da capricci, aggressività o altre manifestazioni.

Anche lo psicoterapeuta dell’età evolutiva Alberto Pellai precisa: “I bambini non possono chiedere ciò che a loro serve. Sono gli adulti che devono costruire una “routine” di cura che risponda in modo adeguato e continuo a tutti i bisogni primari del bebè: pappa, nanna, conforto quando piange. […] Ma quello che le mamme scoprono quando nasce il loro bambino è che giorno dopo giorno, loro due insieme, costruiscono una relazione speciale in cui reciprocamente si insegnano i gesti della cura e dell’accudimento. […] Per conquistare tranquillità e sicurezza le mamme hanno bisogno di avere accanto a sé compagni dolci e disponibili, tranquilli e rassicuranti”. Nell’art. 1 comma 5 L. 4 maggio 1983 n. 184, la cui rubrica è stata novellata in “Diritto del minore ad una famiglia”, si legge: “Il diritto del minore a vivere, crescere ed essere educato nell’ambito di una famiglia è assicurato senza distinzione di sesso, di etnia, di età, di lingua, di religione e nel rispetto della identità culturale del minore e comunque non in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento”. Assicurare, rendere sicuro, dare sicurezza, cura: ciò di cui ha bisogno ogni bambino sin dall’attesa, sia nel grembo materno sia da parte dei futuri genitori che chiedono l’adozione.

Beatrice Masini, scrittrice per l’infanzia, sottolinea: “I bambini vestiti da bambini, che si comportano da bambini e fanno cose da bambini, sembrano in via d’estinzione. E, come al solito, la colpa è dei genitori, che li trattano come oggetti di esclusiva proprietà, manichini da piegare ai loro capricci. Ma perché non lasciarli essere bambini e basta?”. I bambini sono come dei giardini, che non hanno bisogno di ipercura né tantomeno di discuria e incuria ma sempre e solo di cura. La “dendrocronologia” insegna che gli anni degli alberi si calcolano contando i cerchi all’interno del tronco e che all’interno dei cerchi si può leggere oltre che l’età, anche come l’albero abbia vissuto e quali climi abbia dovuto sopportare. Si tenga conto di questo nei confronti dei bambini.

La cura richiama l’“i care” di don Lorenzo Milani che dovrebbe essere il cuore dell’educare e si educa soprattutto attraverso le parole e l’esempio, per cui bisognerebbe avere cura anche delle parole da usare e trasmettere perché diventano poi linguaggio e modo di comunicare dei bambini e ragazzi.

“Voi dite ciechi, ciechi, - disse il maestro, - così come direste malati e poveri o che so io. Ma capite bene il significato di quella parola? Pensateci un poco. Ciechi! Non veder nulla, mai! Non distinguere il giorno dalla notte, non veder né il cielo né il sole né i propri parenti, nulla di tutto quello che s’ha intorno e che si tocca; essere immersi in una oscurità perpetua, e come sepolti nelle viscere della terra!” (“I ragazzi ciechi” dal libro Cuore” di Edmondo De Amicis). Aver cura del linguaggio dei bambini e ragazzi è aver cura delle loro emozioni, della loro interiorità, del loro cuore, affinché non diventino ciechi alla vita e aridi nella vita. Questa è l’intelligenza del cuore da coltivare quanto o più di quella mentale, anche con la musica, l’arte e altre forme espressive.

“Imparai a parlare prima che con la voce con la lingua dei segni, e questo mi è rimasto nella scrittura. Mia madre mi metteva le mani sulla gola per sentire le vibrazioni di un figlio che non poteva sentire con l’udito. Se mio padre voleva che diventassi qualcuno, mia madre mi voleva e basta. Le prime discriminazioni iniziarono a scuola ma non mi hanno mai pesato. A causarmi la vera sofferenza fu l’istituto dei poveri dove mi portarono per non farmi morire di fame. È lì che per l’ottusità degli assistenti si è formata la mia rabbia: non c’erano giochi, abbracci, sognavamo la mortadella con due “elle” invece arrivava sempre quella senza sapore, con una “elle” soltanto. Oggi che sono diventato garante regionale per i detenuti, ed è il primo caso di un ex carcerato che ci riesce, quando vado nelle carceri dico che se in quell’istituto ci avessero dedicato cinque minuti al mese di abbracci molti di noi avrebbero scritto altre storie. L’affettività è un fiore che cresce, ma se lo cresci male, si piega o muore” (lo scrittore Pino Roveredo, figlio di sordomuti, con un passato difficile). Una forma di prevenzione, promozione e protezione è l’affetto (da “ad” e “facere”, fare verso) che si manifesta con ascolto, accoglienza, accettazione, attesa (e non aspettative) evitando in tal modo casi di affezione o disaffezione. “Il bambino possiede in lui importanti risorse. Esse si rivelano se egli può dialogare, essere ascoltato con affetto e rispetto, essere difeso” (dalla Charte du Bureau International Catholique de l’Enfance, Paris 2007).

Simone Feder, psicologo e educatore di comunità, afferma: “Un bambino, un ragazzo che arriva in una comunità ha alle spalle un vissuto in cui spesso non ci sono adulti cui far solido riferimento, non si fida di nessuno, spesso cova rabbia, trovarsi per decisione d’altri in un luogo sconosciuto aumenta la diffidenza. Gestire questo momento difficile è il nostro lavoro: quando il ragazzo capisce che non sei lì per imporgli una griglia di regole, ma per ascoltarlo, che lo aiuti mentre impara un lavoro manuale, che gli stai dietro con la scuola, che ti interessa quello che ha da dirti, che ascolti, ascolti, ascolti proprio lui che nessuno ha mai ascoltato, piano piano ti si appoggia, si apre. Da lì con cautela si comincia a ricostruire. Poi, certo, non chiudi la porta a sera: ti porti a casa, sulla pelle, la comunità”. “Gli Stati parti si impegnano ad assicurare che le istituzioni, i servizi e le strutture responsabili della cura e della protezione dei fanciulli, siano conformi ai criteri normativi fissati dalle autorità competenti, particolarmente nei campi della sicurezza e dell’igiene e per quanto concerne la consistenza e la qualificazione del loro personale nonché l’esistenza di un adeguato controllo” (art. 3 par. 3 Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia).

È in aumento, soprattutto dopo la pandemia, il disagio giovanile (anche se sarebbe più significativo parlare di malessere) che ha varie “esplosioni” (ma anche implosioni), tra cui il bullismo. I bulli, però, sono “bulloni” di un sistema vizioso e viziato di violenza, soprattutto psicologica (anche nelle forme della patologia della cura), vissuta prevalentemente in famiglia. Il bullismo è alzare la voce o le mani per rendersi visibili ad un mondo di adulti presi da altro o persi in altro. 

Il sociologo Francesco Belletti sostiene: “La responsabilità educativa dei genitori è oggi una delle dimensioni più fragili dei nuovi adulti, ma quando il bambino propone “bisogni speciali”, quando la domanda di cura diventa potente e intensa, quando ad essa si aggiunge il dolore e la sofferenza, ecco che essere genitori di un bambino speciale sembra essere una “mission impossible”. E conta poco la struttura e la forma familiare, più o meno tradizionale. Perché due qualità vanno sostenute, nei genitori che sono sfidati dalla disabilità del proprio figlio: in primo luogo stabilità: serve esserci, esserci in modo affidabile, restare nella relazione ben oltre le proprie voglie e i propri sentimenti. Quindi serve una genitorialità (una struttura della personalità, si potrebbe anche dire) duratura, che mantiene quello che promette, servono padri e madri che riescono a “so-stare” con il proprio figlio. Il contrario del “sto con te finché durano i sentimenti”... La seconda qualità è, paradossalmente, la consapevolezza di non essere onnipotenti, di poter sbagliare, di avere di fronte montagne che non puoi scalare da solo, ma anche la capacità di riconoscere questa “mancanza”, e quindi saper chiedere aiuto, senza scandali, ma anche senza scarico di responsabilità. Insomma, persone solide, affidabili, ma umili e capaci di chiedere aiuto. Però, se chiedono aiuto, qualcuno deve esserci, lì, a farsi prossimo, ad accogliere le loro richieste, senza giudicarli, ma soprattutto senza abbandonarli” (nell’intervista “Imparare ad essere genitori: mission impossible?”, 2019). La genitorialità non si deve rivelare forte e congiunta solo in caso di figli con disabilità o problemi di salute ma nei confronti di ogni figlio portatore di esigenze proprie. Genitorialità non è solo avere figli ma essere, fare, diventare genitori nei confronti di ciascun figlio, proprio come si fa per affrontare ogni singola disabilità. Tra le varie fonti, la Carta europea dei diritti del fanciullo del 1992 (per quanto programmatica) richiama la responsabilità dei genitori al punto 8.11 e al punto 8.25.

Ora i bambini sembrano essere “nati stanchi” perché lo sono i genitori nel senso di genitori stanchi del lavoro, del doppio lavoro, della ricerca del lavoro, privi di interessi, passioni, emozioni, legati a cose materiali, sterili, morte. Dal sondaggio dell’Osservatorio Demos-Coop dell’ottobre 2017 «56° Osservatorio Sul Capitale Sociale degli Italiani – I giovani e le passioni “tiepide”» (anche se un po’ datato rispecchia l’attualità) si evince che si assottigliano le differenze tra generazioni e cresce la dipendenza dalla famiglia; gli italiani sono sempre più incapaci di accettare le responsabilità della vita adulta, la vecchiaia è l’unica paura e la gioventù dura, in media, fino ai 52 anni. Si dimentica che i genitori, e in generale tutti gli adulti, hanno un dovere nei confronti dei più piccoli, come si ricava anche dell’art. 30 della Costituzione che esordisce con “È dovere e diritto dei genitori”. Si ignora il “principio responsabilità” come lo aveva formulato il filosofo tedesco Hans Jonas (nel 1979) che metteva insieme “responsabilità” e “futuro” e che lo definiva in maniera significativa: “La responsabilità è la cura per un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando “apprensione” nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di quell’essere”. E la genitorialità è proprio questo binomio: responsabilità e futuro.