Reddito di cittadinanza vs minimo vitale
La scorsa settimana, il Consiglio dei ministri ha deliberato il decreto legge che dovrebbe introdurre il reddito di cittadinanza, la principale promessa dei pentastellati.
Nelle pieghe delle modalità applicative, riemergono problemi e questioni con le quali anche l’Istituto Bruno Leoni si era confrontato lavorando sul “minimo vitale” delineato nella proposta 25xtutti.
Su quattro elementi le due misure convergono e divergono al tempo stesso.
In primo luogo, la finalità annunciata è principalmente quella di inserimento o reinserimento nel mondo del lavoro, esattamente come nel caso del minimo vitale proposto dal nostro Istituto. Tuttavia, sembra lecito dubitare che il modello di Reddito previsto dal governo possa raggiungere quell’obiettivo: la natura aggiuntiva del Reddito rispetto ad una congerie di altri trattamenti assistenziali di cui non si prevede l'eliminazione o la razionalizzazione, il ricorso ai fantomatici Centri per l’impiego per la ricerca di lavoro, l’equivalenza tra inserimento nel mondo del lavoro da un lato e completamento degli studi e il riferimento a vaghi percorsi di inclusione sociale, aggiungono a quello del lavoro in nero il rischio che il Reddito si riveli una ulteriore dannosa misura di assistenzialismo.
In secondo luogo, se è vero che la durata dell’assegno è pari a quella del minimo vitale dell’Istituto Bruno Leoni (36 mesi, sia pure con un controllo intermedio), compresa la trasformazione in sgravi contributivi, è altresì vero che le condizioni per beneficiare del Reddito faranno sì che lo stesso sarà probabilmente goduto per l’intero periodo, mentre nella proposta del Bruno Leoni condizioni più stringenti di inserimento nel mondo del lavoro e di erogazione del trattamento assistenziale avrebbero reso più probabile un uso limitato dello strumento e ne avrebbero sottolineato le caratteristiche di incentivo all’assunzione per il datore.
In terzo luogo, sia il Reddito di cittadinanza del governo Conte che il nostro minimo vitale prevedono un assegno il cui importo è modulato grazie alle scale di equivalenza. Tuttavia, nel primo caso la scala di equivalenza è, per quel che se ne sa, del tutto incongrua. Ad essere penalizzate saranno in particolare le famiglie numerose (e relativamente più presenti fra i nuclei in povertà assoluta). Inoltre, il Reddito, diversamente dal minimo vitale, non differenzia fra aree geografiche, quando è evidente che 780 euro a Milano non hanno lo stesso valore di 780 euro a Candela. Potrà così accadere che nelle grandi città e nelle regioni più ricche vi saranno dei poveri nonostante il Reddito e, viceversa, nelle aree rurali e nelle regioni meridionali vi saranno assistiti con un tenore di vita relativamente superiore a quello dei nuclei in povertà. Infine, e non per importanza, il minimo vitale che l’Istituto aveva proposto era parte di un complessivo e importante progetto di riforma fiscale, destinato a mutare i rapporti tra lo Stato e i cittadini a partire da un messaggio di fondo: aiutare chi è in difficoltà e lasciar crescere e produrre chi è già inserito nel mondo del lavoro, a beneficio di tutti.
Il Reddito di cittadinanza, invece, è il mantenimento di una promessa elettorale in un disegno politico che non altera, ma anzi rafforza nelle sue peggiori manifestazioni il rapporto tra Stato e contribuenti: inserito in una legge di bilancio che aumenta la pressione fiscale e il debito pubblico, il Reddito rappresenterà un aumento di spesa per tutti, a beneficio di categorie che non ci stupiremmo se si scoprissero non essere quelle più bisognose.
Pubblicato il 23 gennaio 2019