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Responsabilità ambientale: due recenti sentenze del Giudice Amministrativo sulla responsabilità dell’incorporante e della società Capogruppo rispetto alle condotte della incorporata e delle controllate

Note alla sentenza del T.A.R. Veneto, 25 febbraio 2014, n. 255 e alla sentenza del T.A.R. Abruzzo - sede di Pescara, 30 aprile 2014, n. 204

1. Due recenti sentenze − una del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, l’altra del Tribunale Amministrativo Regionale dell’Abruzzo sede di Pescara − richiamano l’attenzione su una questione che, tanto il Giudice amministrativo quanto quello civile, affrontano sempre più frequentemente: (a) in sede amministrativa, la possibilità di imporre il risanamento ambientale del sito al successore universale del responsabile della contaminazione, anche qualora la successione (ad esempio la fusione per incorporazione) sia avvenuta prima della entrata in vigore dell’articolo 17 del decreto legislativo n. 22/1997, che ha introdotto per la prima volta nell’ordinamento l’obbligo di bonifica; (b) in sede civile, la possibilità di agire, sempre nei confronti del successore universale, per il risarcimento del danno o per il rimborso delle spese di bonifica, legati alla pregressa condotta del soggetto estinto.

Si tratta di una tematica di particolare interesse posto che, come osservato anche dal Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, in questi casi le contaminazioni sono, il più delle volte, molto risalenti e necessitano, quindi, di maggiori e più incisivi interventi di bonifica.

2. Prima delle pronunce in commento, tale situazione era stata oggetto di valutazione da parte del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 6055/2008. In quell’occasione, il Collegio aveva escluso, di principio, la possibilità di imporre al successore, in sede amministrativa, interventi di risanamento ambientale ogniqualvolta la fusione per incorporazione fosse intervenuta prima del 1997, non potendosi trasferire, in questo caso, alcun obbligo in tal senso.

A tale conclusione, il Consiglio di Stato giunge osservando che (i)la (poca) normativa ambientale precedente al 1997 non prevedeva specifici obblighi di fare in capo al potenziale inquinatore, tipologia di obblighi tra i quali rientrano, invece, quelli di bonifica; e che (ii)in ogni caso, l’obbligo di bonifica, pur potendo coesistere in relazione al medesimo evento di danno, non è riconducibile all’obbligo risarcitorio previsto dall’articolo 2043 del Codice Civile.

3. In seguito alla pronuncia del Consiglio di Stato[1], numerosi Tribunali Amministrativi Regionali sono tornati ad affrontare la questione, adottando decisioni che, almeno in parte, hanno tentato di superare le valutazioni offerte dal Consiglio di Stato.

In alcuni casi, i giudici di primo grado hanno espressamente affermato, in contrasto con il Consiglio di Stato, che “il complesso delle norme in tema di bonifica non sono altro che l’applicazione alle materia in esame (si potrebbe dire, la procedimentalizzazione nella materia in esame) della norma generale dell’articolo 2043 c.c. (il cui disposto esiste da quando esiste il diritto), secondo cui ogni soggetto è tenuto a reintegrare il danno che abbia cagionato con il proprio comportamento” (tra le più recenti, Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia - Brescia n. 50/2013[2]).

Altri giudici, invece, hanno evidenziato che “l’articolo 17 decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22 [che sanciva l’obbligo di bonificare in capo al responsabile della contaminazione ora previsto dal decreto legislativo n. 152/2006] si applica a qualunque situazione di inquinamento in atto al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo, indipendentemente dal momento in cui è avvenuto il fatto generatore della stessa” (Tribunale Amministrativo Regionale dell’Emilia Romagna - Parma n. 218/2011) posto che “l’inquinamento è situazione permanente, in quanto perdura fino a che non ne siano rimosse le cause ed i parametri ambientali siano riportati entro i limiti normativamente accettabili: ciò comporta che le previsioni del d.lgs. n. 22/1997 vanno applicate a qualunque sito risulti attualmente inquinato, a prescindere dal momento nel quale possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori dell’attuale situazione patologica” (Tribunale Amministrativo Regionale della Toscana n. 573/2011[3]).

4. Con le due recenti sentenze oggetto del presente commento, si assiste a una ulteriore tappa evolutiva giurisprudenziale sul punto in cui, diversamente da quanto occorso nella sentenza n. 6055/2008 del Consiglio di Stato, si assiste a una progressiva estensione della tipologia di soggetti che, riconducibili in ogni caso alla figura del responsabile della contaminazione, possono essere (legittimamente) destinatari di provvedimenti amministrativi con cui viene richiesto lo svolgimento di attività di risanamento di un sito contaminato.

5. Nella vicenda esaminata da Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, sentenza 25.02.2014, n. 255, la società ricorrente era stata destinataria, tra il 2006 e il 2011, di alcuni provvedimenti del Ministero dell’Ambiente con i quali le era stata imposta la realizzazione di interventi di bonifica e, più in generale, di risanamento ambientale.

Davanti al Tribunale Amministrativo Regionale, la ricorrente aveva chiesto l’annullamento delle prescrizioni contestando, tra le altre cose, la violazione del principio comunitario “chi inquina paga” posto che l’inquinamento sarebbe stato cagionato, molti decenni prima, da una società diversa dalla ricorrente, che quest’ultima si era limitata a incorporare prima del 1970 (quindi 27 anni prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 22/1997)[4].

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, affermando espressamente di non potere condividere il precedente “ordine di idee”, ritiene di aderire alla posizione espressa da “altra e più persuasiva giurisprudenza”[5] in merito alla natura permanente della contaminazione, con la conseguenza che le disposizioni del decreto legislativo n. 22/1997 (ora decreto legislativo n. 152/2006) vanno applicate a tutti i casi in cui la situazione di inquinamento, anche se risalente, abbia continuato a sussistere anche successivamente alla entrata in vigore di tali disposizioni.

Ad avviso del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, quindi, sulla scorta di tale considerazione è del tutto legittima la decisione, da parte della P.a., di coinvolgere l’incorporante posto che, con la fusione, egli sarebbe subentrato in tutti gli obblighi spettanti all’incorporato, ivi inclusi quelli (di facere) di bonifica che, in assenza di estinzione (per incorporazione), sarebbero gravati in capo all’incorporato.

D’altro canto, osserva il Tribunale Amministrativo Regionale, se si intende seguire, come effettivamente oggi accade in giurisprudenza, la teoria dell’illecito permanente, “non ha senso differenziare la posizione dell’autore materiale dell’inquinamento, sulla cui responsabilità concorda la giurisprudenza, da quella del suo successore universale”. Alla base di tale affermazione, come chiarito poco dopo dal Collegio, vi è la considerazione che, ragionando diversamente, si giungerebbe alla assurda conclusione di lasciare senza rimedio tutte le cosiddette contaminazioni storiche, che necessitano maggiormente di interventi di bonifica a causa del carattere diffuso ed esteso delle aree inquinate[6].

6. La seconda pronuncia in commento, invece, è la sentenza 30 aprile 2014, n. 204 del Tribunale Amministrativo Regionale dell’Abruzzo - sede di Pescara che, pur richiamando alcuni passaggi della sentenza n. 6055/2008 del Consiglio di Stato[7], afferma un principio che, per certi versi, risulta innovativo rispetto alla tematica che ci occupa: la responsabilità ambientale della Società capogruppo rispetto alle condotte precedentemente assunte dalle società controllate.

Questi gli aspetti essenziali della vicenda. In passato, la ricorrente aveva avuto la proprietà di tre discariche, utilizzate per lo smaltimento dei rifiuti generati dalla propria attività industriale; secondo la ricostruzione fornita dalla ricorrente, l’utilizzo di una delle discariche era cessato nel 1973, mente le altre due non erano più di sua proprietà dal 1981. Più precisamente, nel 1981 l’intero sito industriale (ivi incluse le due discariche) era stata conferita ad una società controllata al 100% dalla ricorrente; nel 2002, tutte le azioni della società controllata (e, quindi, il relativo patrimonio) erano state cedute a una società terza, uscendo dal controllo e dalla ingerenza della ricorrente.

Sulla base di tali circostanze, la ricorrente contestava la possibilità che le fosse ascrivibile − direttamente o indirettamente − l’origine della contaminazione e, quindi, richiedeva l’annullamento dei provvedimenti con cui il Ministero, in tempi recenti, le aveva imposto il ripristino dell’area.

Il Tribunale Amministrativo Regionale, anche in questo caso, rigetta il ricorso. Applicando il principio del “più probabile che non” ai fini dell’accertamento del nesso di causalità[8] e confrontando, quindi, la tipologia delle sostanze utilizzate nel sito con la tipologia di contaminazione riscontrata, il Collegio individua i responsabili della contaminazione “in coloro che hanno gestito tali impianti nel periodo antecedente a quello in cui gli inquinamenti hanno iniziato ad essere rilevati”; rilevamenti che, grossomodo, erano stati condotti, su iniziativa della società acquirente esterna al gruppo, poco dopo la cessione delle partecipazioni azionarie.

Partendo da tale circostanza, il Collegio osserva inoltre che (i)l’attività di contaminazione si era protratta ed era risalente nel tempo e che (ii)sino al 2002, il sito era stato gestito principalmente da società facenti parte del Gruppo della ricorrente con la conseguenza che, sotto il profilo sostanziale, risulta “più equo allocare gi oneri ripristinatori e di bonifica a carico di chi ha avuto effettivamente il controllo e la direzione della attività della società operativa, nel periodo in cui essa ha determinato l’inquinamento, e ne ha tratto utilità”, vale a dire la ricorrente capo gruppo.

A sostegno della propria tesi, il Tribunale Amministrativo Regionale non richiama solo la necessità di applicare quella che, a suo avviso, possa ritenersi la soluzione più equa nel caso di specie ma, soprattutto, afferma la responsabilità della capo gruppo attraverso una lettura sistematica dei principi comunitari, applicabili alla materia ambientale in quanto avente rilievo comunitario.

In particolare, il Collegio richiama la concezione (sostanzialistica) di impresa espressa dalla giurisprudenza comunitaria (soprattutto in tema di concorrenza) e il principio della prevalenza dell’unità economica del gruppo rispetto alla pluralità soggettiva delle imprese controllate, secondo cui “per illeciti commesse dalle società operative la responsabilità si estende anche alle società madri, che ne detengono le quote di partecipazioni in misura tale […] da evidenziare un rapporto di dipendenza e quindi escludere una sostanziale autonomia decisionale delle controllate stesse”. In tal modo, ad avviso del Giudice Amministrativo, verrebbe garantito in modo più efficace e utile l’applicazione del principio comunitario “chi inquina paga” [9].

7. Osservazioni conclusive. Come anticipato poco sopra, in entrambe le sentenze qui commentate, due Tribunali Amministrativi Regionali, anche se con valutazioni e percorsi argomentativi diversi tra loro, sono pervenuti, in concreto, alla medesima soluzione, estendendo la possibilità di coinvolgere, nella veste di responsabile (perlomeno) indiretto, l’incorporante (ante 1997) del soggetto che causò la contaminazione e la società capo gruppo, rispetto alla contaminazione storica causata da una o più delle sue controllate.

Si può osservare come, in entrambi i casi, vi sia la consapevolezza che, così facendo, vi sia, almeno in parte, una “rottura” rispetto al precedente “ordine di idee”, dettata dalla opportunità, secondo i due Tribunali, di individuare soluzioni più eque (Tribunale Amministrativo Regionale dell’Abruzzo - sede di Pescara) oppure più “sensate” (Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto).

Sarà interessante verificare se, nel prossimo futuro, quanto espressamente affermato dai due Tribunali Amministrativi Regionali troverà applicazione in sede civile e amministrativa.

***

[1] Con la stessa sentenza, il Consiglio di Stato ha, in ogni caso, ritenuto ammissibile la possibilità, anche per fusioni anteriori al 1997, di agire nei confronti del successore, ex articolo 2043 del Codice Civile, per il danno derivante dalla contaminazione causata dall’incorporato.

[2] In quel caso, i ricorrenti avevano impugnato il provvedimento eccependo che, al momento del riempimento della cava con rifiuti (anno 1975), l’attività era lecita poiché solo nel 1982 era intervenuta la prima disciplina in tema di discariche.

[3] Nel prosieguo della sentenza, il Tribunale Amministrativo Regionale della Toscana, chiamato anch’esso a pronunciarsi rispetto a una ipotesi di fusione per incorporazione avvenuta dopo il 1997 ma prima del 1982 (prima disciplina in tema di discariche), ritiene legittime le prescrizioni imposte al successore.

[4] Non a caso, nel contestare la legittimità delle prescrizioni, la ricorrente richiama quanto affermato nella sentenza n. 6055/2008 del Consiglio di Stato.

[5] Il richiamo è alle sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Toscana n. 573/2011.

[6] Il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto ha inoltre cura di precisare che, rispetto alla interpretazione proposta, non si pone il problema di una eventuale (e inammissibile) applicazione retroattiva della normativa ambientale posto che, in realtà, ci si limiterebbe ad applicare la stessa, ratione temporis,a situazioni derivanti da una condotta omissiva a carattere permanente, che solo la bonifica può rimuovere; tale precisazione − è bene evidenziarlo − si è resa necessaria in capo al Tribunale Amministrativo Regionale in quanto uno degli argomenti spesi, in precedenza, dal Consiglio di Stato per escludere il coinvolgimento del successore era legato alla impossibilità di applicare retroattivamente la normativa ambientale.

[7] Ad es., alla impossibilità di ricondurre gli obblighi di bonifica agli obblighi risarcitori da illecito extracontrattuale oppure, più in generale, alla possibilità di richiamare i principi sostanzialistici elaborati dalla Corte di Giustizia Europea (v. oltre). 

[8] Nella tematica che ci occupa, è ormai pacifica la possibilità, sia per il Giudice amministrativo che per quello civile, di ricorrere a tale principio che, pur non dando luogo a una vera e propria inversione dell’onere della prova né tantomeno alla creazione giurisprudenziale di una ipotesi di responsabilità oggettiva, rende meno rigorosa - ma comunque necessaria - la dimostrazione del nesso di causalità, ferma la possibilità del presunto responsabile di fornire la prova contraria.

[9] È solo il caso di precisare che anche il Tribunale Amministrativo Regionale dell’Abruzzo, come il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, ritiene che la situazione di inquinamento presenti carattere permanente.

1. Due recenti sentenze − una del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, l’altra del Tribunale Amministrativo Regionale dell’Abruzzo sede di Pescara − richiamano l’attenzione su una questione che, tanto il Giudice amministrativo quanto quello civile, affrontano sempre più frequentemente: (a) in sede amministrativa, la possibilità di imporre il risanamento ambientale del sito al successore universale del responsabile della contaminazione, anche qualora la successione (ad esempio la fusione per incorporazione) sia avvenuta prima della entrata in vigore dell’articolo 17 del decreto legislativo n. 22/1997, che ha introdotto per la prima volta nell’ordinamento l’obbligo di bonifica; (b) in sede civile, la possibilità di agire, sempre nei confronti del successore universale, per il risarcimento del danno o per il rimborso delle spese di bonifica, legati alla pregressa condotta del soggetto estinto.

Si tratta di una tematica di particolare interesse posto che, come osservato anche dal Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, in questi casi le contaminazioni sono, il più delle volte, molto risalenti e necessitano, quindi, di maggiori e più incisivi interventi di bonifica.

2. Prima delle pronunce in commento, tale situazione era stata oggetto di valutazione da parte del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 6055/2008. In quell’occasione, il Collegio aveva escluso, di principio, la possibilità di imporre al successore, in sede amministrativa, interventi di risanamento ambientale ogniqualvolta la fusione per incorporazione fosse intervenuta prima del 1997, non potendosi trasferire, in questo caso, alcun obbligo in tal senso.

A tale conclusione, il Consiglio di Stato giunge osservando che (i)la (poca) normativa ambientale precedente al 1997 non prevedeva specifici obblighi di fare in capo al potenziale inquinatore, tipologia di obblighi tra i quali rientrano, invece, quelli di bonifica; e che (ii)in ogni caso, l’obbligo di bonifica, pur potendo coesistere in relazione al medesimo evento di danno, non è riconducibile all’obbligo risarcitorio previsto dall’articolo 2043 del Codice Civile.

3. In seguito alla pronuncia del Consiglio di Stato[1], numerosi Tribunali Amministrativi Regionali sono tornati ad affrontare la questione, adottando decisioni che, almeno in parte, hanno tentato di superare le valutazioni offerte dal Consiglio di Stato.

In alcuni casi, i giudici di primo grado hanno espressamente affermato, in contrasto con il Consiglio di Stato, che “il complesso delle norme in tema di bonifica non sono altro che l’applicazione alle materia in esame (si potrebbe dire, la procedimentalizzazione nella materia in esame) della norma generale dell’articolo 2043 c.c. (il cui disposto esiste da quando esiste il diritto), secondo cui ogni soggetto è tenuto a reintegrare il danno che abbia cagionato con il proprio comportamento” (tra le più recenti, Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia - Brescia n. 50/2013[2]).

Altri giudici, invece, hanno evidenziato che “l’articolo 17 decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22 [che sanciva l’obbligo di bonificare in capo al responsabile della contaminazione ora previsto dal decreto legislativo n. 152/2006] si applica a qualunque situazione di inquinamento in atto al momento dell’entrata in vigore del decreto legislativo, indipendentemente dal momento in cui è avvenuto il fatto generatore della stessa” (Tribunale Amministrativo Regionale dell’Emilia Romagna - Parma n. 218/2011) posto che “l’inquinamento è situazione permanente, in quanto perdura fino a che non ne siano rimosse le cause ed i parametri ambientali siano riportati entro i limiti normativamente accettabili: ciò comporta che le previsioni del d.lgs. n. 22/1997 vanno applicate a qualunque sito risulti attualmente inquinato, a prescindere dal momento nel quale possa essere avvenuto il fatto o i fatti generatori dell’attuale situazione patologica” (Tribunale Amministrativo Regionale della Toscana n. 573/2011[3]).

4. Con le due recenti sentenze oggetto del presente commento, si assiste a una ulteriore tappa evolutiva giurisprudenziale sul punto in cui, diversamente da quanto occorso nella sentenza n. 6055/2008 del Consiglio di Stato, si assiste a una progressiva estensione della tipologia di soggetti che, riconducibili in ogni caso alla figura del responsabile della contaminazione, possono essere (legittimamente) destinatari di provvedimenti amministrativi con cui viene richiesto lo svolgimento di attività di risanamento di un sito contaminato.

5. Nella vicenda esaminata da Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, sentenza 25.02.2014, n. 255, la società ricorrente era stata destinataria, tra il 2006 e il 2011, di alcuni provvedimenti del Ministero dell’Ambiente con i quali le era stata imposta la realizzazione di interventi di bonifica e, più in generale, di risanamento ambientale.

Davanti al Tribunale Amministrativo Regionale, la ricorrente aveva chiesto l’annullamento delle prescrizioni contestando, tra le altre cose, la violazione del principio comunitario “chi inquina paga” posto che l’inquinamento sarebbe stato cagionato, molti decenni prima, da una società diversa dalla ricorrente, che quest’ultima si era limitata a incorporare prima del 1970 (quindi 27 anni prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo n. 22/1997)[4].

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, affermando espressamente di non potere condividere il precedente “ordine di idee”, ritiene di aderire alla posizione espressa da “altra e più persuasiva giurisprudenza”[5] in merito alla natura permanente della contaminazione, con la conseguenza che le disposizioni del decreto legislativo n. 22/1997 (ora decreto legislativo n. 152/2006) vanno applicate a tutti i casi in cui la situazione di inquinamento, anche se risalente, abbia continuato a sussistere anche successivamente alla entrata in vigore di tali disposizioni.

Ad avviso del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, quindi, sulla scorta di tale considerazione è del tutto legittima la decisione, da parte della P.a., di coinvolgere l’incorporante posto che, con la fusione, egli sarebbe subentrato in tutti gli obblighi spettanti all’incorporato, ivi inclusi quelli (di facere) di bonifica che, in assenza di estinzione (per incorporazione), sarebbero gravati in capo all’incorporato.

D’altro canto, osserva il Tribunale Amministrativo Regionale, se si intende seguire, come effettivamente oggi accade in giurisprudenza, la teoria dell’illecito permanente, “non ha senso differenziare la posizione dell’autore materiale dell’inquinamento, sulla cui responsabilità concorda la giurisprudenza, da quella del suo successore universale”. Alla base di tale affermazione, come chiarito poco dopo dal Collegio, vi è la considerazione che, ragionando diversamente, si giungerebbe alla assurda conclusione di lasciare senza rimedio tutte le cosiddette contaminazioni storiche, che necessitano maggiormente di interventi di bonifica a causa del carattere diffuso ed esteso delle aree inquinate[6].

6. La seconda pronuncia in commento, invece, è la sentenza 30 aprile 2014, n. 204 del Tribunale Amministrativo Regionale dell’Abruzzo - sede di Pescara che, pur richiamando alcuni passaggi della sentenza n. 6055/2008 del Consiglio di Stato[7], afferma un principio che, per certi versi, risulta innovativo rispetto alla tematica che ci occupa: la responsabilità ambientale della Società capogruppo rispetto alle condotte precedentemente assunte dalle società controllate.

Questi gli aspetti essenziali della vicenda. In passato, la ricorrente aveva avuto la proprietà di tre discariche, utilizzate per lo smaltimento dei rifiuti generati dalla propria attività industriale; secondo la ricostruzione fornita dalla ricorrente, l’utilizzo di una delle discariche era cessato nel 1973, mente le altre due non erano più di sua proprietà dal 1981. Più precisamente, nel 1981 l’intero sito industriale (ivi incluse le due discariche) era stata conferita ad una società controllata al 100% dalla ricorrente; nel 2002, tutte le azioni della società controllata (e, quindi, il relativo patrimonio) erano state cedute a una società terza, uscendo dal controllo e dalla ingerenza della ricorrente.

Sulla base di tali circostanze, la ricorrente contestava la possibilità che le fosse ascrivibile − direttamente o indirettamente − l’origine della contaminazione e, quindi, richiedeva l’annullamento dei provvedimenti con cui il Ministero, in tempi recenti, le aveva imposto il ripristino dell’area.

Il Tribunale Amministrativo Regionale, anche in questo caso, rigetta il ricorso. Applicando il principio del “più probabile che non” ai fini dell’accertamento del nesso di causalità[8] e confrontando, quindi, la tipologia delle sostanze utilizzate nel sito con la tipologia di contaminazione riscontrata, il Collegio individua i responsabili della contaminazione “in coloro che hanno gestito tali impianti nel periodo antecedente a quello in cui gli inquinamenti hanno iniziato ad essere rilevati”; rilevamenti che, grossomodo, erano stati condotti, su iniziativa della società acquirente esterna al gruppo, poco dopo la cessione delle partecipazioni azionarie.

Partendo da tale circostanza, il Collegio osserva inoltre che (i)l’attività di contaminazione si era protratta ed era risalente nel tempo e che (ii)sino al 2002, il sito era stato gestito principalmente da società facenti parte del Gruppo della ricorrente con la conseguenza che, sotto il profilo sostanziale, risulta “più equo allocare gi oneri ripristinatori e di bonifica a carico di chi ha avuto effettivamente il controllo e la direzione della attività della società operativa, nel periodo in cui essa ha determinato l’inquinamento, e ne ha tratto utilità”, vale a dire la ricorrente capo gruppo.

A sostegno della propria tesi, il Tribunale Amministrativo Regionale non richiama solo la necessità di applicare quella che, a suo avviso, possa ritenersi la soluzione più equa nel caso di specie ma, soprattutto, afferma la responsabilità della capo gruppo attraverso una lettura sistematica dei principi comunitari, applicabili alla materia ambientale in quanto avente rilievo comunitario.

In particolare, il Collegio richiama la concezione (sostanzialistica) di impresa espressa dalla giurisprudenza comunitaria (soprattutto in tema di concorrenza) e il principio della prevalenza dell’unità economica del gruppo rispetto alla pluralità soggettiva delle imprese controllate, secondo cui “per illeciti commesse dalle società operative la responsabilità si estende anche alle società madri, che ne detengono le quote di partecipazioni in misura tale […] da evidenziare un rapporto di dipendenza e quindi escludere una sostanziale autonomia decisionale delle controllate stesse”. In tal modo, ad avviso del Giudice Amministrativo, verrebbe garantito in modo più efficace e utile l’applicazione del principio comunitario “chi inquina paga” [9].

7. Osservazioni conclusive. Come anticipato poco sopra, in entrambe le sentenze qui commentate, due Tribunali Amministrativi Regionali, anche se con valutazioni e percorsi argomentativi diversi tra loro, sono pervenuti, in concreto, alla medesima soluzione, estendendo la possibilità di coinvolgere, nella veste di responsabile (perlomeno) indiretto, l’incorporante (ante 1997) del soggetto che causò la contaminazione e la società capo gruppo, rispetto alla contaminazione storica causata da una o più delle sue controllate.

Si può osservare come, in entrambi i casi, vi sia la consapevolezza che, così facendo, vi sia, almeno in parte, una “rottura” rispetto al precedente “ordine di idee”, dettata dalla opportunità, secondo i due Tribunali, di individuare soluzioni più eque (Tribunale Amministrativo Regionale dell’Abruzzo - sede di Pescara) oppure più “sensate” (Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto).

Sarà interessante verificare se, nel prossimo futuro, quanto espressamente affermato dai due Tribunali Amministrativi Regionali troverà applicazione in sede civile e amministrativa.

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[1] Con la stessa sentenza, il Consiglio di Stato ha, in ogni caso, ritenuto ammissibile la possibilità, anche per fusioni anteriori al 1997, di agire nei confronti del successore, ex articolo 2043 del Codice Civile, per il danno derivante dalla contaminazione causata dall’incorporato.

[2] In quel caso, i ricorrenti avevano impugnato il provvedimento eccependo che, al momento del riempimento della cava con rifiuti (anno 1975), l’attività era lecita poiché solo nel 1982 era intervenuta la prima disciplina in tema di discariche.

[3] Nel prosieguo della sentenza, il Tribunale Amministrativo Regionale della Toscana, chiamato anch’esso a pronunciarsi rispetto a una ipotesi di fusione per incorporazione avvenuta dopo il 1997 ma prima del 1982 (prima disciplina in tema di discariche), ritiene legittime le prescrizioni imposte al successore.

[4] Non a caso, nel contestare la legittimità delle prescrizioni, la ricorrente richiama quanto affermato nella sentenza n. 6055/2008 del Consiglio di Stato.

[5] Il richiamo è alle sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Toscana n. 573/2011.

[6] Il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto ha inoltre cura di precisare che, rispetto alla interpretazione proposta, non si pone il problema di una eventuale (e inammissibile) applicazione retroattiva della normativa ambientale posto che, in realtà, ci si limiterebbe ad applicare la stessa, ratione temporis,a situazioni derivanti da una condotta omissiva a carattere permanente, che solo la bonifica può rimuovere; tale precisazione − è bene evidenziarlo − si è resa necessaria in capo al Tribunale Amministrativo Regionale in quanto uno degli argomenti spesi, in precedenza, dal Consiglio di Stato per escludere il coinvolgimento del successore era legato alla impossibilità di applicare retroattivamente la normativa ambientale.

[7] Ad es., alla impossibilità di ricondurre gli obblighi di bonifica agli obblighi risarcitori da illecito extracontrattuale oppure, più in generale, alla possibilità di richiamare i principi sostanzialistici elaborati dalla Corte di Giustizia Europea (v. oltre). 

[8] Nella tematica che ci occupa, è ormai pacifica la possibilità, sia per il Giudice amministrativo che per quello civile, di ricorrere a tale principio che, pur non dando luogo a una vera e propria inversione dell’onere della prova né tantomeno alla creazione giurisprudenziale di una ipotesi di responsabilità oggettiva, rende meno rigorosa - ma comunque necessaria - la dimostrazione del nesso di causalità, ferma la possibilità del presunto responsabile di fornire la prova contraria.

[9] È solo il caso di precisare che anche il Tribunale Amministrativo Regionale dell’Abruzzo, come il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, ritiene che la situazione di inquinamento presenti carattere permanente.