Se anche il Corriere si accorge dell'odio anti-bianchi
di Giuliano Guzzo
Ieri è accaduto un fatto di assoluto rilievo nel nostro panorama giornalistico. Il primo quotidiano italiano - quel Corriere della Sera noto per essere megafono della cultura dominante - ha denunciato a chiare lettere l’avanzata di un nuovo razzismo: quello ai danni di chiunque abbia la pelle bianca, vittime di omicidio incluse. Di più, ad essere denunciata è stata la svolta ideologica di un giornalismo che, da tempo, si è fatto militante, parziale, anzi orgogliosamente di parte.
La pesante denuncia è stata firmata, a pagina 21, da Federico Rampini, il quale ha sviluppato il suo ragionamento a partire da una vistosa anomalia: la minimizzazione, operata dal più noto quotidiano del pianeta, il New York Times, della morte di Davide Giri, il nostro giovane connazionale che si trovava negli Usa per un dottorato in informatica alla Columbia University, prima di essere ucciso dall’afroamericano Vincent Pinkney, il quale, secondo le prime ricostruzioni, era un delinquente con vari precedenti e che «odiava i bianchi».
«Perché sull’assassinio di Davide Giri i lettori del New York Times non sanno nulla», si è chiesto Rampini, «a parte l’età e il cognome?». «L’interesse del quotidiano, e il vigore investigativo messo in campo», continua il nostro noto corrispondente dagli Usa, «sarebbero stati diversi se la vittima fosse stata afroamericana e l’omicida un bianco; a maggior ragione se quel bianco fosse stato un membro di qualche organizzazione che predica e pratica la violenza, per esempio una milizia di destra. La tragedia sarebbe finita in prima pagina». Rampini ha inoltre osservato come un simile atteggiamento non sia un caso, dato che è da tempo che il New York Times ha scelto una reticenza che sconfina nell’autocensura, coerente con la linea editoriale degli ultimi anni. Una svolta accentuatasi durante la presidenza di Trump e che ha già avuto effetti significativi.
Si pensi alle dimissioni di Bari Weiss giornalista e scrittrice americana che, nel luglio 2020, ha lasciato lo storico giornale stanca del conformismo della testata, anche a proposito del tema razziale, con, da una parte un allineamento alle istanze di movimenti come Black Lives Matter e, dall’altra, una totale cecità di fronte al nuovo razzismo che si sta facendo largo. «Uno studente liceale di New York», ha recentemente scritto Weiss, «mi ha raccontato che agli studenti della scuola scuola viene detto: “Sei bianco e maschio, se vuoi parlare sei il secondo della fila”». Essere maschi e bianchi, negli Usa, sta quindi diventando una colpa, agli occhi di una certa cultura della quale il New York Times è solo la punta di diamante e dell’iceberg.
Anche il noto scrittore conservatore Rod Dreher ha recentemente riferito di aver scambiato due parole con un docente, peraltro di orientamento progressista, il quale gli ha confidato che nella sua università «tutti hanno paura di essere accusati di razzismo, se ad uno studente di colore non piace il suo voto. C’è un’ansia profonda su questo». Sempre Dreher ha scritto d’un accademico a cui il preside ha intimato di alzare il voto ad un allievo di colore. «Eredità dell’oppressione», sono le parole che questo docente si è sentito pronunciare dal dirigente per motivare lo scarso rendimento del suo studente, da appianarsi con una votazione più elevata di quella meritata.
Cosa c’entra tutto questo con l’atteggiamento del New York Times nei confronti dell’omicidio di Davide Giri? C’entra eccome. L’autocensura della mitica testata verso questo crimine risponde infatti non tanto ad una simpatia verso Vincent Pinkney, bensì all’appartenenza ad una ideologia – quella che rientra sotto l’ombrello «woke» - che ormai domina sia le università sia i grandi giornali. Rispetto a ciò, la denuncia di Federico Rampini si configura dunque come un gesto molto coraggioso, di certo controcorrente come pochi.
Si tratta ora, però, di capire che effetto sortirà, nel nostro panorama giornalistico. Ma intanto un sasso nello stagno dell’indifferenza è stato lanciato. L’unica nota dolente, in tutto ciò, resta forse l’atteggiamento di larga parte del mondo cattolico, a partire da quello italiano. Ed è, inutile dirlo, davvero un peccato. Sì, perché, in un periodo in cui figure importanti del progressismo denunciano le contraddizioni della cultura liberal, il silenzio di quanti avrebbero da proporre il vero antidoto a tutto ciò – una cultura cristiana o che si riscopra tale – rischia di pesare come un macigno, e di allungare una stagione di follia di cui pochi sentivano il bisogno.