Social e la democrazia: libertà e reputazione
Indice:
1. La tutela della libertà di parola
2. L’equilibrio tra libertà di parola e tutela della reputazione
3. La particolare tutela della stampa
4. I nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero
5. La diffamazione aggravata a mezzo social – 6. La problematica dell’effettiva tutela della reputazione lesa tramite social
1. La tutela della libertà di parola
In un momento storico come quello attuale, in cui l’uomo si trova al confine tra un futuro che ancora a fatica sa utilizzare positivamente e il rischio di esserne travolto e soggiogato, il ruolo della Democrazia risulta oggi più che mai decisivo nel mantenere una società solida, libera e veramente partecipativa.
Già Platone nella sua “Repubblica” dice apertamente che la Democrazia rappresenta un ideale, ossia un modello di uno Stato che non si ferma ad un ideale ma che, al contrario, sia strutturato secondo modalità che tengano maggiormente conto di come sono effettivamente gli esseri umani e non, invece, di come dovrebbero comportarsi. In questo modello, in particolare, l’educazione per i Governanti, secondo Platone, è di così grande importanza e così difficile da padroneggiare che doveva durare cinquant’anni (il filosofo la chiamava la “lunga strada”). Fra i 30 e i 35 anni doveva avvenire il tirocinio più difficile, ossia il cimento con la dialettica, mentre dai 35 ai 50 anni doveva avvenire una ripresa dei contatti con la realtà empirica, cioè tramite l’assunzione di varie mansioni.[1]
La finalità dell’educazione del politico consisteva nel giungere a conoscere e a contemplare il Bene, la “cognizione massima”, per poi poterlo calare nella realtà storica del suo Stato. Questo aspetto è di particolare importanza nella filosofia di Platone perché il Bene è visto da lui come il principio primo da cui dipende tutto il mondo ideale. Si comprendono così le affermazioni del filosofo nel finale del libro IX della “Repubblica”, secondo le quali “poco importa se ci sia o possa esserci” tale Città (o Stato), basta che ciascuno “viva secondo le leggi di questa Città”, ossia secondo le leggi del Bene e della Giustizia.
La demagogia, per Platone, invece, come ci racconta nel "Politico" e nelle "Leggi", è una forma degenerata del “governo di molti” (visione che aveva anche il suo allievo Aristotele), che facilmente può prendere piede quando la democrazia non è retta da persone che perseguono il Bene.
Spesso il demagogo fa leva su sentimenti irrazionali e bisogni sociali latenti, alimentando istinti primordiali e non controllabili come la paura, l’odio o la rabbia nei confronti dell’avversario politico o di minoranze, utilizzate come un vero e proprio "capro espiatorio", secondo le sempre attuali parole di Elias Canetti,[2] e come "nemico pubblico", utili alla formazione di un fronte comune, uniformato temporaneamente dalla medesima lotta e, così, scevro di dissenso interno. Inoltre, nell’ampia casistica dei mezzi demagogici vengono indicati anche l’utilizzo di un linguaggio politico derisorio verso gli avversari o caratterizzato da una vistosa enfatizzazione degli effetti negativi delle loro politiche fino a giungere a continue strumentalizzazioni e distorsioni del loro messaggio.
Riguardo all’efficacia di tale metodologia politica, risuonano ancora oggi come estremamente forti ed attuali le parole spesso attribuite a Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich dal 1933 al 1945: “ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. Questa frase, della cui attribuzione per ironia della sorte non si trovano conferme che sia stata effettivamente pronunciata dal gerarca nazista, è comunque emblematica di come si possa distorcere la verità fino a convincere il pubblico che la realtà dei fatti sia diversa o addirittura l’opposto. È, infatti, in virtù di questo rischio di distorsione della realtà che nel tempo diversi enti ed autorità, sia nazionali che internazionali, si sono impegnati al fine di costruire degli strumenti giuridici, o quantomeno di formare un terreno comune su cui poterli forgiare, capaci di contrastare questo pericolo di mistificazione sia dei fatti che, forse più intensamente nelle normative nazionali, delle qualità di una persona.
A causa, poi, dell’evoluzione tecnica degli strumenti di diffusione e di condivisione delle proprie opinioni, oggigiorno risulta particolarmente importante identificare quale sia effettivamente il giusto punto di equilibrio tra la tutela della reputazione di una persona e la libertà di pensiero e di parola. In altre parole, su quale sia il confine tra legittimo esercizio della propria libertà di esprimersi, così attentamente curata e protetta dopo la tragica esperienza degli autoritarismi di inizio XX secolo, e l’illegittimo compimento di azioni di diffamazione del soggetto verso cui è stata indirizzata questa espressione.
In quest’ambito pare opportuno riportare come già a livello sovra-nazionale la questione dell’equilibrio tra libertà e tutela sia stata affrontata o quantomeno accennata. In particolare, conviene riportare in questa sede come le previsioni di tutela della libertà di parola siano diffuse e attentamente inserite in diverse convenzioni e trattati internazionali, nonché in dichiarazioni programmatiche di organizzazioni intergovernative.
Infatti, già l’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’Uomo, approvata dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948, afferma che “ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.
Anche la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea consacra, al suo articolo 11, la libertà di espressione e d’informazione, prevedendo testualmente che “ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati”.
In termini simili, poi, anche la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata dall’Italia - in uno al protocollo aggiuntivo firmato a Parigi il 20 marzo 1952 - con la legge del 4 agosto 1955, n. 848) dedica il suo articolo 10 non soltanto alla stampa in particolare, ma alla libertà di espressione in generale nei suoi profili attivi e passivi, affermando che “ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”.
2. L’equilibrio tra libertà di parola e tutela della reputazione
Tuttavia, è importante notare come immediatamente dopo il medesimo articolo della CEDU affermi che “il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive” e che “l’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario”.
La stessa Convenzione, in altre parole, si preoccupa di porre ben in luce come la libertà di manifestare il proprio pensiero incontri dei limiti rappresentati, tra gli altri, dal diritto a che alle persone venga attribuito il giusto credito sociale di cui dovrebbero godere all’interno della comunità in cui vivono.
Da ciò, quindi, viene fatta discendere la liceità dell’adozione di un complesso di “formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni” volte a salvaguardare e proteggere la reputazione di un individuo, data la fragilità di questa e l’immediatezza, nonché il perdurare, delle conseguenze di una sua lesione.
Questi strumenti giuridici, comunque, come rilevato nella sentenza della Gran Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo del 17 dicembre 2004, Cumpănă e Mazăre c. Romania, e poi ribadito successivamente più volte nella sua giurisprudenza,[3] devono essere proporzionati rispetto alla lesione causata. Quindi, conclude la Corte europea nella sua summenzionata sentenza, “l’imposizione di una pena detentiva per un reato a mezzo stampa è compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti, garantita dall’articolo 10 della Convenzione, soltanto in circostanze eccezionali, segnatamente quando altri diritti fondamentali siano stati seriamente offesi, come ad esempio nel caso di diffusione di discorsi d’odio (“hate speech”) o di istigazione alla violenza”.[4] [5]
Inoltre, i giudici della Corte EDU hanno successivamente rilevato anche che la violazione del bilanciamento tra tutela della libertà di stampa e di altri diritti fondamentali (quale la reputazione), previsto dall’articolo 10 della Convenzione, non riguarda solamente le ipotesi di applicazione di pene detentive, ma anche misure accessorie, come l’interdizione dall’esercizio della professione,[6] e pene pecuniarie di rilevante entità,[7] dal momento che anche queste sono in grado di esercitare un forte effetto dissuasivo all’esercizio del diritto di cronaca e di critica.
Nel nostro ambito nazionale la questione del bilanciamento viene affrontata in prima battuta dall’articolo 21 della Costituzione, nel quale si proclama solennemente che (giova sempre riportarlo) “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Tale diritto, ha ricordato la Corte costituzionale nella sua giurisprudenza in più di un’occasione, è “coessenziale al regime di libertà garantito dalla Costituzione” (sentenza del 23 marzo 1968 n. 11), nonché una “pietra angolare dell’ordine democratico” (sentenza del 17 aprile 1969 n. 84)[8] e un “cardine di democrazia nell’ordinamento generale” (sentenze del 2 maggio 1985 n. 126 e del 25 luglio 2019 n. 206).
Tuttavia, è la stessa Costituzione a prevedere che si possano avere delle limitazioni a questa libertà, addirittura attraverso il sequestro, nel caso di “atto motivato dell’autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l’indicazione dei responsabili”.
Insomma, già la nostra Carta fondamentale prevede che la libertà di manifestazione del proprio pensiero non sia un diritto privo di limiti ma che, all’opposto, debba rispettare determinate prescrizioni di legge poste a tutela di altri diritti fondamentali della persona.
In quest’ambito la Corte costituzionale italiana ha più volte rimarcato come l’esigenza di garantire la reputazione della persona, diritto inviolabile ai sensi dell’articolo 2 della Costituzione, componente essenziale del diritto alla vita privata sancito dall’articolo 8 della CEDU, e diritto espressamente riconosciuto dall’articolo 17 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, costituisca un (se non il principale) limite alla libertà di manifestare liberamente il proprio pensiero.
L’eminenza di tale limite deriva, affermano i giudici della Consulta nella loro recente ordinanza del 26 giugno 2020 n. 132,[9] dalla necessità di salvaguardare la dignità della persona, lesa dalla divulgazione di notizie false o attinenti esclusivamente alla propria vita privata.[10]
3. La particolare tutela della stampa
Nell’ambito della libertà di espressione, così attentamente tutelato dalla nostra Carta fondamentale, si inscrive anche la libertà di stampa, considerata un irrinunciabile presidio per l’attuazione di un sistema democratico, come rilevato anche dalla Corte costituzionale nella sua sentenza del 28 gennaio 1981 n. 1,[11] che garantisce, da un lato, la libertà di espressione del giornalista e, dall’altro, il diritto all’informazione dei cittadini, assicurato dal pluralismo delle fonti informative.[12] A riprova di tale considerazione verso gli organi di informazione l’Assemblea costituente, in attuazione della 17 disposizione transitoria della Carta fondamentale, varò anche la legge dell’8 febbraio 1948, n. 47, intitolata “Disposizioni sulla stampa” e ritenuta integrante il disposto dell’articolo 21 della nostra Costituzione. Il primo articolo di questa legge precisa che sono da considerarsi stampe o stampati “tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”.
Successivamente, anche la legge del 7 marzo 2001 n. 62 (intitolata “Nuove norme sull’editoria e sui prodotti editoriali”), in un minimale tentativo di riforma improntata all’organicità (tentativo contestato in quanto tale, però, dalla prevalente dottrina, che sottolinea la settorialità dell’intervento), ha definito unitariamente come “prodotto editoriale” quello “realizzato su supporto cartaceo [...] o su supporto informatico, destinato alla pubblicazione o, comunque, alla diffusione di informazioni presso il pubblico con ogni mezzo, anche elettronico”, distinguendo così, all’interno di un solo genus, due species – quella dei prodotti editoriali senza periodicità regolare e quella dei prodotti editoriali con periodicità regolare – e compiendo comunque un’estensione delle diverse normative previste per la stampa tradizionale ad ogni prodotto editoriale caratterizzato dalla periodicità regolare.
Alla riproduzione tipografica (o mediante impressione di caratteri mobili, come originariamente compiuto da Gutenberg a partire dal 1455) con caratteri propri della scrittura o di immagini immediatamente percepibili col senso della vista o (come nel caso particolare della scrittura Braille) con quello del tatto, compiuta su di un supporto durevole (inteso peraltro nel senso che possa perdurare il tempo necessario alla lettura), quale la carta, tramite l’utilizzo di un qualsiasi mezzo “chimico-fisico”, a ben guardare ben può essere equiparata la diffusione a mezzo internet.
Infatti, anche al fine di illustrare come si ritenga in questo caso applicabile la regola di diritto eadem ratio eadem dispositio, è possibile notare come anche la diffusione via internet comporti una riproducibilità di un originale, solo che questo può dirsi quello integrato dai dati fisicamente immagazzinati, o per meglio dire ospitati, all’interno di un server di proprietà di un Internet Service Provider (ISP), ossia un soggetto proprietario di un’infrastruttura informatica che offre ai propri clienti (utenti) servizi inerenti alle tecnologie digitali di internet, quali la gestione di caselle di posta elettronica, l’accesso al World Wide Web o la presenza su quest’ultimo di siti internet, a seguito dell’immissione (detta anche “salvataggio”) da parte del loro autore.
Sicché la riproduzione di questo originale informatico avviene previo il trasferimento, sia temporaneo che permanente, di una copia dei dati che lo compongono (detto anche “scaricamento”) da quel server al dispositivo dell’utente finale e la ricomposizione e riorganizzazione dei dati stessi attraverso un programma “browser” presso quest’ultimo dispositivo in modo da poter essere riprodotto, con meccanismi indubbiamente fisico-chimici, sul video dell’apparecchio terminale o “client” (ed eventualmente, ma non necessariamente, anche stampato mediante un dispositivo ad esso collegato).
Ancora più semplice, poi, è l’equiparazione tra riproduzione radiotelevisiva e riproduzione telematica per quanto riguarda files audio o video, dato che una volta scaricati, ossia copiati sul dispositivo client possono essere visualizzati su questo, con le viste modalità, un numero teoricamente infinito di volte.
In sostanza, mentre con la stampa tradizionale alla moltiplicazione dell’originale provvede direttamente, in via per così dire accentrata, lo stampatore e la distribuzione avviene in tempo successivo, con quella telematica si ha la messa a disposizione dell’originale (o di una molteplicità di originali tra loro generalmente conformi) ad una moltitudine indifferenziata di utenti finali, lasciando a questi il processo tecnico della moltiplicazione attraverso la loro attività di visualizzazione, con mezzi indubbiamente “fisico-chimici”, dei segni grafici o degli altri strumenti di comunicazione impiegati dall’autore di questa.
Si ha (in termini sempre meramente descrittivi e volutamente a-tecnici), quindi, una sorta di scomposizione del procedimento di riproduzione, mediante una delocalizzazione, presso il singolo utente (detto anche “client”), della fase concernente l’attività materiale di riproduzione del file originale, il quale resta in remoto sul server ove l’autore lo ha collocato. Questo anche in ragione del fatto che anche la semplice visualizzazione di un file o di una pagina di un sito internet comporta sempre un’attività di riproduzione, anche se solo per il tempo necessario alla sua fruizione con uno dei sensi fisici (vista o udito).
Sulla scia delle suesposte considerazioni sul funzionamento tecnico degli strumenti digitali di informazione, nonché delle previsioni di riforma contenute all’interno della summenzionata legge del 7 marzo 2001 n. 62 e della legge del 18 marzo 2008 n. 48 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica, fatta a Budapest il 23 novembre 2001) che, modificando l’articolo 254 ed introducendo l’articolo 254-bis del Codice penale, hanno “normativamente equiparato ad un oggetto fisico” i dati informatici, la giurisprudenza della Corte di Cassazione si è infine espressa nella propria sentenza penale del 29 gennaio 2015 n. 31022, dichiarando che “è necessario […] attribuire al termine “stampa” un significato evolutivo, che sia coerente con il progresso tecnologico”.
Di conseguenza, secondo gli Ermellini, questo concetto di “stampa” giunge a ricomprende qualsiasi “prodotto editoriale che presenta i requisiti ontologico (struttura) e teleologico (scopi della pubblicazione) propri di un giornale” e, quindi, a non rendere estranee alle disposizioni della legge dell’8 febbraio 1948, n. 47 le testate giornalistiche on-line, dato che “lo scopo informativo è il vero elemento caratterizzante l’attività giornalistica e un giornale può ritenersi tale se ha i requisiti, strutturale e finalistico, di cui si è detto sopra, anche se la tecnica di diffusione al pubblico sia diversa dalla riproduzione tipografica o ottenuta con mezzi meccanici o fisico chimici”.
A voler riassumere la posizione assunta dai giudici di Piazza Cavour nel 2015, quindi, si può affermare che la nuova definizione di “stampa” da essi ricavata dalla normativa vigente comporta l’estensione anche all’editoria digitale delle norme relative alla editoria intesa in senso classico ed in particolare del comma terzo dell’articolo 21 della Costituzione (che impedisce, in base ad una consolidata giurisprudenza, l’adozione di provvedimenti cautelari ai sensi dell’articolo 700 C.P.C.).
4. I nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero
L’estensione delle garanzie di libertà accordate agli strumenti telematici di informazione, in virtù delle loro qualità strutturali e finalistiche, non ha però investito qualsiasi forma o strumento di diffusione del pensiero attraverso internet. Infatti, come sapientemente rilevato dai giudici della Cassazione nella loro già citata sentenza del 2015 (in particolare al punto 18 della motivazione), l’esenzione dall’applicazione della misura cautelare del sequestro preventivo si ha solamente per quei siti che soddisfano i requisiti ontologici e teleologici di informazione sopra descritti, lasciando, quindi, sottoponibili a tali strumenti precauzionali altre tipologie di “nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero (forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, pagine Facebook”.
Questa distinzione operata all’interno della decisione fin qui osservata si basa sulla differente qualità delle informazioni trasmesse attraverso questi nuovi mezzi di manifestazione del pensiero.
È, infatti, solo “l’informazione di tipo professione, veicolata per il tramite di una testata giornalistica online” a meritare le tutele di rango costituzionale riguardanti la libertà di stampa, mentre le altre forme di comunicazione telematica elencate (forum, blog, social-network, newsletter, newsgroup e mailing list), in quanto permettono a qualsiasi utente, a prescindere dalla sua professione, di esprimere e condividere liberamente con altri il proprio pensiero o la propria opinione, “sono certamente espressione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (articolo 21, primo comma, della Costituzione), ma non possono godere delle garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa. Rientrano, infatti, nei generici siti internet che non sono soggetti alle tutele e a gli obblighi previsti dalla normativa sulla stampa” ed accennati anche dall’articolo 10 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali.
L’interpretazione formulata dalla Cassazione penale del 2015 del concetto di “stampa”, così come espresso dalla già menzionata legge dell’8 febbraio 1948, n. 47, è stata poi condivisa dalle Sezioni Unite Civili, che nella loro sentenza del 18 novembre 2016 n. 23469 hanno enunciato il seguente principio di diritto: “La tutela costituzionale assicurata dal terzo comma dell’articolo 21 della Costituzione alla stampa si applica al giornale o al periodico pubblicato, in via esclusiva o meno, con mezzo telematico, quando possieda i medesimi tratti caratterizzanti del giornale o periodico tradizionale su supporto cartaceo e quindi sia caratterizzato da una testata, diffuso o aggiornato con regolarità, organizzato in una struttura con un direttore responsabile, una redazione ed un editore registrato presso il registro degli operatori della comunicazione, finalizzata all’attività professionale di informazione diretta al pubblico, cioè di raccolta, commento e divulgazione di notizie di attualità e di informazioni da parte di soggetti professionalmente qualificati”. La logica conseguenza che i giudici delle Sezioni Unite ne traggono è, quindi, che “nel caso in cui sia dedotto il contenuto diffamatorio di notizie ivi pubblicate, il giornale pubblicato, in via esclusiva o meno, con mezzo telematico non può essere oggetto, in tutto o in parte, di provvedimento cautelare preventivo o inibitorio, di contenuto equivalente al sequestro o che ne impedisca o limiti la diffusione”.
Inoltre, l’attenta classificazione del “vasto ed eterogeneo ambito della diffusione di notizie ed informazioni” operata dalla Cassazione all’interno della sentenza del 29 gennaio 2015 n. 31022 è stata da questa successivamente posta alla base anche della propria decisione del 20 giugno 2019 n. 27675, in cui è stato riconosciuto che “è legittimo il sequestro preventivo di un “blog” che integra un “mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, per cui non trova applicazione la normativa di rango costituzionale e di livello ordinario che disciplina l’attività di informazione professionale diretta al pubblico, che rimane riservata, invece, alle testate giornalistiche telematiche”.
L’attenzione espressa dai giudici di Piazza Cavour alla validità di questi “nuovi mezzi, informatici e telematici” come strumenti di “espressione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”, non è stata, tuttavia, una posizione solitaria sull’argomento. Già in precedenza, infatti, i giudici della Corte costituzionale, nella loro sentenza del 2013 n. 313, avevano preliminarmente rilevato come tra le “modalità di comunicazione” rientrino oggigiorno a pieno titolo le “nuove forme di tecnologia comunicativa (siti web, blog, Twitter, Facebook, etc.)”. Sulla base di questa osservazione la Consulta aveva, quindi, rilevato come anche le espressioni pubblicate tramite queste forme di comunicazione soggiacciano a due esigenze, entrambe di risalto costituzionale: da un lato, quella di salvaguardare la libertà dei singoli di esprimere liberamente le proprie opinioni (nel caso di specie, poi, la questione riguardava la libertà dei parlamentari di esprimersi in contesti diversi dal rigoroso ambito di svolgimento dell’attività parlamentare “strettamente intesa”)[13] e, dall’altra, quella di “garantire ai singoli il diritto alla tutela della loro dignità di persone, presidiato dall’articolo 2 della Costituzione oltre che da diverse norme convenzionali”.
Insomma, all’interno dell’autentico roveto che è il bilanciamento tra la libertà di stampa e la tutela della reputazione le Corti di legittimità della nostra Repubblica hanno riconosciuto l’ascesa delle nuove tecnologie e dalla digitalizzazione della stampa ed il ruolo centrale che hanno assunto (rendendo così il groviglio ancora più fitto e spinoso). Comunque, il riconoscimento compiuto all’interno delle suesposte sentenze delle peculiarità tecniche di queste nuove forme di comunicazione e di condivisione, grazie alle attente analisi compiute sulle loro dinamiche, ha permesso anche di operare un’importante distinzione tra gli ambiti applicativi delle normative, in particolare di quello del terzo comma dell’articolo 21 della Costituzione, ossia di distinguere quando i “nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero” siano da considerarsi veicolo di una “informazione di tipo professione” e quando, invece, rientrino “nei generici siti internet che non sono soggetti alle tutele e a gli obblighi previsti dalla normativa sulla stampa”.
Per quanto riguarda, invece, il punto di equilibrio tra libertà di espressione e tutela della reputazione per tutte quei “nuovi mezzi” che rientrano nella categoria dei “generici siti internet” si deve passare a considerare innanzitutto le disposizioni contenute nell’articolo 595 del nostro Codice penale (“Diffamazione”). In particolare, il terzo comma di detto articolo, che, nell’individuare gli strumenti con i quali è possibile compiere il reato di diffamazione in forma aggravata, apre le porte all’inclusione tra questi dei mezzi informatici e digitali. Infatti, questo comma considera genericamente che l’offesa può essere compiuta “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”.
5. La diffamazione aggravata a mezzo social
Tra i principali “altri mezzi di pubblicità” oggigiorno occupano un ruolo predominante, sia per volume di pubblicazione di contenuti che per consultazione degli stessi, i social-network. Questi spazi digitali di condivisione e comunicazione, nati con lo scopo di permettere contatti immediati anche con persone a migliaia di chilometri di distanza, consentono una velocità ed una capillarità di diffusione di contenuti che eclissano con facilità addirittura quelle dei più grandi ed organizzati organi di stampa tradizionali.[14] Di conseguenza, come ben rilevato dalla sentenza della prima sezione penale della Corte di cassazione del 2 gennaio 2017 n. 50, “la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata”.
Questo avviene, nello specifico, in ragione del fatto che la pubblicazione di un contenuto quale un testo, un’immagine o un video all’interno di qualsiasi piattaforma di interazione sociale (ossia un “social media”) comporta l’immediata visibilità dello stesso da parti di tutti i membri di questa “piazza virtuale” (con delle modalità che variano leggermente a secondo della struttura del social su cui è stato pubblicato) e, quindi, risulta essere una “condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone” e, così, “ampliando – e aggravando – in tal modo la capacità diffusiva del messaggio lesivo della reputazione della persona offesa”.
Il medesimo impianto motivazionale è stato poi ripreso dalla quinta sezione penale della Suprema corte nella sua sentenza del 1° febbraio 2017 n. 4873, dove i giudici riconoscono che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di un social network integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi del terzo comma dell’art. 595, sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, in quanto la condotta “è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone” e tuttavia, riprendendo le considerazioni tecniche poste alla base della sapiente distinzione operata in precedenza nella summenzionata sentenza del 29 gennaio 2015 n. 31022, essi hanno rilevato come questa condotta “non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico”.[15]
6. La problematica dell’effettiva tutela della reputazione lesa tramite social
Di fronte a queste lesioni aggravate della reputazione il nostro ordinamento predispone degli strumenti non solo di tutela ma anche di risarcimento per il danno subito dal soggetto colpito dalle dichiarazioni diffamatorie. Tuttavia, nel particolare ambito delle azioni compiute per tramite dei social media, questi strumenti rischiano di avere scarsa efficacia per tutti coloro che cerchino tutela per la propria reputazione presso le autorità.
Infatti, i procedimenti volti a dare tutela al giusto credito sociale di ciascuno incorrono, comunque, in numerose problematiche di attuazione materiale per quanto riguarda i casi “digitali”. Prima fra tutte l’identificazione dell’autore del reato, che può non essere di immediata o facile realizzazione: infatti, sebbene sui social media le persone tendano a creare dei profili personali utilizzando i propri nomi e cognomi reali, ben poco impedisce loro di creare un profilo fornendo delle credenziali differenti da quelle della propria reale identità o, peggio ancora, che attraverso esse impersonino qualcun altro.[16] Vi è, comunque, da rilevare come in quest’ambito parte della giurisprudenza abbia ritenuto desumibile la riferibilità soggettiva del contenuto diffamatorio anche da differenti circostanze fattuali, quali i rapporti lavorativi.[17]
Bisogna comunque riconoscere come di fronte a questo fenomeno le compagnie proprietarie dei social media non siano rimaste completamente inerti ed abbiano implementato una serie di misure volte ad evitare o comunque a limitare la diffusione di queste condotte. Tuttavia, le misure adottate non sembrano essere state risolutive nell’affrontare il problema che sta piagando i social networks e che sta avendo dei riflessi più che concreti (e addirittura violenti) all’interno della società occidentale: la frenetica diffusione di contenuti ed opinioni che ledono la reputazione altrui e la difficoltà di giungere ad una condanna per i loro autori.
In definitiva, il mutato contesto degli strumenti di propagazione del pensiero con il quale ci ritroviamo a confrontarci oggigiorno ci pone nell’urgenza quanto mai attuale di non rimanere più solo concentrati su quale sia il corretto bilanciamento tra libertà di pensiero e tutela della reputazione di una persona ma, soprattutto, di estendere il dibattito anche a come effettivamente tutelare questi diritti fondamentali.
Questo perché, come ben rilevato dalla Corte costituzionale nella sua già menzionata ordinanza del 26 giugno 2020 n. 132 (paragrafo 7.3), le vittime “sono oggi esposte a rischi ancora maggiori che nel passato. Basti pensare, in proposito, agli effetti di rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in internet, il cui carattere lesivo per la vittima - in termini di sofferenza psicologica e di concreti pregiudizi alla propria vita privata, familiare, sociale, professionale, politica - e per tutte le persone a essa affettivamente legate risulta grandemente potenziato rispetto a quanto accadeva anche solo in un recente passato”, il tutto mentre l’autore di tali lesioni ben potrebbe rimanere irrintracciabile o, comunque, al di fuori della giurisdizione delle autorità a cui le vittime potrebbero rivolgersi per cercare giustizia.
[1] Nel “Gorgia”, infatti, Platone fa affermare a Socrate che in democrazia al politico è indispensabile diventare veramente “uno del popolo”.
[2] Elias Canetti, Massa e potere, trad. di Furio Jesi, Rizzoli, Milano, I ed. 1972
[3] Si vedano, ex multis, le successive sentenze della Corte del 6 dicembre 2007, Katrami c. Grecia, e, in relazione al contesto italiano, del 24 settembre 2013, Belpietro c. Italia, e del 7 marzo 2019, Sallusti c. Italia. Nelle ultime due i giudici di Strasburgo ha ritenuto legittima l’attribuzione di una responsabilità penale in capo ma sproporzionata l’applicazione di una pena detentiva (anche se condizionalmente sospesa).
[4] Su quest’argomento si era già precedentemente pronunciato in termini simili anche il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nella sua Dichiarazione sulla libertà dei dibattiti politici nei media del 12 febbraio 2004.
[5] Su quest’argomento la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha recentemente emanato la sentenza del 9 luglio 2020 n. 26509, in cui i giudici assumono la medesima posizione.
[6] Nella già citata sentenza della Gran Camera Cumpănă e Mazăre c. Romania, viene fatto esplicito riferimento a questa ipotesi ai paragrafi 113 e 118 e seguenti.
[7] Si vedano a questo riguardo le sentenze della Seconda Sezione della Corte europea dei diritti dell'uomo del 17 luglio 2008, Riolo c. Italia, della Quarta Sezione del 19 aprile 2011, Kasabova c. Bulgaria e Bozhkov c. Bulgaria, e del 22 novembre 2011, Koprivica c. Montenegro, nelle quali i giudici affermano l’esigenza di tenere conto anche del reddito del condannato nella valutazione sulla proporzionalità della sanzione pecuniaria.
[8] La medesima definizione della libertà di espressione come “pietra angolare” (“cornerstone”) della democrazia è stata poi utilizzata dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa nella sua risoluzione del 4 ottobre 2007, n. 1577, la quale fa riferimento anche alla precedente raccomandazione dell’Assemblea parlamentare del 28 gennaio 2003 n. 1589.
[9] Questa rilevazione dell’identificazione della tutela della reputazione come limite alla libertà di espressione è stata ripresa dalla Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione nella sua sentenza del 09 luglio 2020, n. 26509.
[10] Si vedano al riguardo anche la sentenza della Corte costituzionale del 26 novembre 2014 n. 265 e, all’interno della giurisprudenza della Corte di Cassazione, ex plurimis, la sentenza della Quinta Sezione Penale del 28 ottobre 2010, n. 4938.
[11] Anche la Corte EDU ha più volte sottolineato che la stampa svolge l’essenziale ruolo di “cane da guardia” della democrazia (paragrafo 39 della sentenza del 27 marzo 1996, Goodwin c. Regno Unito, e paragrafo 93 della sentenza del 17 dicembre 2004, Cumpănă e Mazăre c. Romania).
[12] Si vedano, in relazione alla necessità del pluralismo delle fonti cui attingere conoscenze e notizie, le sentenze della Corte costituzionale del 6 marzo 1993 n. 112, del n. 155 del 07 maggio 2002 n. 115 e del 25 luglio 2019 n. 206.
[13] Su questo argomento giova ribadire che la fattispecie prevista e disciplinata per i Parlamentari si applica analogicamente anche a chi esercita la funzione di amministratore locale, così come disciplinato nel citato 357 C.P. Infatti, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sua sentenza del 17 dicembre 2013 n. 313, la legge “attribuisce allo stesso parlamentare la selezione dei temi “politici” da divulgare; al punto da rendere, in definitiva, lo stesso parlamentare arbitro dei confini entro i quali far operare la garanzia della insindacabilità”. Ciò significa che, al di là delle ipotesi di “esercizio di un diritto” o di “adempimento di un dovere”, il legislatore italiano, vuole garantire ai consiglieri una qualificata e rafforzata libertà di manifestazione del pensiero, nell'esercizio delle loro funzioni costituzionalmente garantite a chi fondamentalmente eserciti la funzione, da intendersi in senso oggettivo e la destinazione pubblicistica dell'attività.
[14] Questi aspetti di velocità e diffusività sono stati di recente sottolineati dalla Corte costituzionale nella sua ordinanza del 26 giugno 2020 n. 132, in cui viene rilevata la “rapidissima e duratura amplificazione degli addebiti diffamatori determinata dai social networks e dai motori di ricerca in Internet”.
[15] Questo inquadramento del reato di diffamazione tramite l’uso dei social media è stato poi ripreso anche in altre sentenze della Suprema corte, nonché da corti di grado inferiore. Si vedano, ad esempio, la sentenza della Corte di Cassazione del 6 settembre 2018 n. 40083, che ha precisato che “l'eventualità che fra i fruitori del messaggio vi sia anche la persona a cui si rivolgono le espressioni offensive” non permette comunque di “mutare il titolo del reato nella diversa ipotesi di ingiuria”, e la sentenza del 16 gennaio 2019 della Corte d'Appello civile di Napoli.
[16] Si veda riguardo a quest’ultima eventualità quanto rilevato dalla Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione nella sua sentenza del 22 novembre 2017 n. 5352, in cui si afferma che “a prescindere dal nickname utilizzato, l'accertamento dell'IP di provenienza del post può essere utile per verificare, quanto meno, il titolare della linea telefonica associata”, in quella dell’8 giugno 2018 n. 33862 e in quella del 6 luglio 2020 n. 22049.
[17] Si veda, ad esempio, la decisione dell’Ufficio per le Indagini preliminari di Livorno del 31 dicembre 2012 n. 38912.