x

x

Sull’efficacia spaziale del d.lgs. 231/2001 e sugli strumenti adottati dalla comunità internazionale volti alla prevenzione dei reati corruttivi

È possibile applicare la disciplina preventiva e sanzionatoria di cui al Decreto ad un ente straniero?
efficacia spaziale
efficacia spaziale

Abstract

A vent’anni di distanza dall’entrata in vigore del Decreto Legislativo 8 giugno 2001 n. 231, numerose sono state le questioni interpretative affrontate dalla dottrina e dalla giurisprudenza, sia di merito che di legittimità: alcune, risolte, altre, ancora molto dibattute. Una tra le questioni ancora assai controverse e delicate, oggetto di scarsa attenzione legislativa e di un atteggiamento “minimalista” e complessivamente punitivo della giurisprudenza, concerne l’efficacia spaziale del D. Lgs. 231/2001. Ci si domanda se è possibile applicare la disciplina preventiva e sanzionatoria di cui al Decreto ad un ente straniero, non avente sede principale né altre forme di radicamento territoriale in Italia benché qui operante, nel caso in cui un suo esponente abbia commesso nel nostro Paese un reato-presupposto nell’interesse o a vantaggio del soggetto collettivo? E ancora: i criteri di radicamento della giurisdizione per il reato della persona fisica, da un canto, e quelli di ascrizione del medesimo alla persona giuridica, dall’altro, coincidono o divergono? In altri termini, la persona giuridica deriva integralmente dalla persona fisica gli aspetti di tempus e locus commissi delicti o alla medesima è riconosciuta una posizione autonoma sul punto? Nel tentativo di risoluzione del “dilemma” si frappongono due posizioni diametralmente opposte al quesito internazionalistico: la scarsa ma costante giurisprudenza, di merito e di legittimità, e una parte minoritaria della dottrina, supportano la c.d. tesi “minimalista”, estensiva del Decreto agli enti stranieri operanti in Italia sebbene privi nel nostro Paese di alcun tipo di stabile collegamento territoriale; al contrario, la dottrina maggioritaria, si fa portatrice della c.d. tesi “massimalista”, pervenendo a negare qualsivoglia efficacia extraterritoriale al D. Lgs. 231/2001.

 

1. Art. 4 d. Lgs. 231/2001

A fronte di una quanto mai crescente globalizzazione dell’economia e dei mercati, sempre più imprese, soprattutto se di dimensioni rilevanti, si distinguono per la loro attitudine multinazionale, ossia per lo svolgimento della loro attività non più soltanto in un unico territorio, geograficamente localizzato e radicato entro i confini nazionali (lo Stato di appartenenza), bensì mediante l’insediamento in più spazi.

A questa medesima conclusione giunge l’art. 4 d.lgs. cit. - in materia di reati presupposto commessi interamente all’estero - il quale sembra, in un certo senso, aver positivizzato fenomeni di quotidiana verificazione: società “italiane” che decidono di allargare il proprio business o anche solo di delocalizzare settori della produzione all’estero, qui scaturendo l’“occasione” per la commissione di reati da parte di esponenti, apicali o sottoposti, che sono impiegati, a seconda dell’organizzazione aziendale, in società controllate (subsidiaries) piuttosto che in semplici stabilimenti, filiali o sedi secondarie (branches).

Esso infatti afferma che “1. Nei casi e alle condizioni previsti dagli articoli 7, 8, 9 e 10 del codice penale, gli enti aventi nel territorio dello Stato la sede principale rispondono anche in relazione ai reati commessi all'estero, purché nei loro confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto. 2. Nei casi in cui la legge prevede che il colpevole sia punito a richiesta del Ministro della giustizia, si procede contro l'ente solo se la richiesta è formulata anche nei confronti di quest'ultimo”.

In questi termini, dunque, quantomeno dalla lettura del dettato normativo, l’illecito 231 sembrerebbe necessariamente da qualificarsi come avente natura territoriale, essendo preclusa ogni sua proiezione extra-territoriale (società radicate all’estero) poiché si richiede che in Italia esso abbia un solido radicamento territoriale: la sede principale.

Dunque, la giurisdizione italiana sull’ente sarà integrata tutte le volte in cui nel Paese esso abbia il suo centro, direzionale e organizzativo, preposto alla prevenzione del rischio-reato (anche quello commesso all’estero), a prescindere, se svolge attività di impresa, da dove abbia sede l’attività produttiva: da qui, pertanto, la considerazione della sede principale “effettiva”. Anche la giurisprudenza, in particolare quella fallimentare, sembra aver fatto propria tale ricostruzione laddove individua tale parametro di localizzazione dell’ente nel “centro dell’attività direttiva, amministrativa od organizzativa dell’impresa e dei fattori produttivi, senza che rilevi il luogo in cui l’impresa svolge l’attività di produzione, qualora non coincida con quello in cui svolge l’attività organizzativa” (Cass. civ., sez. I, n. 8388/2015).

Quest’ultimo elemento, di fondamentale importanza per muovere il rimprovero all’ente, identifica quindi il luogo in cui è avvenuta la lacuna organizzativa. Volendo mutuare un linguaggio strettamente penalistico, si potrebbe dire che il locus commissi illeciti sia proprio quello in cui si è prodotta la carenza organizzativa, la colpa di/in organizzazione, che ha consentito la consumazione del reato presupposto. Ecco perché - come osservato da acuta dottrina (T. PADOVANI, La disciplina italiana della responsabilità degli enti nello spazio transnazionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2/2021) - l’art. 4 d.lgs. cit. nel richiedere un tale pregnante e significativo elemento di territorialità dell’ente “opera come una sorta di pre-condizione del giudizio di rimproverabilità espresso nei confronti dell’ente, per non aver conformato il proprio assetto organizzativo al dovere di diligenza stabilito dall’ordinamento”. Dunque, una scelta del legislatore delegato di non “appiattire” la responsabilità dell’ente sul mero fatto di connessione (il reato commesso all’estero) confezionando così una disciplina autonoma e asimmetrica dell’efficacia spaziale della responsabilità ex 231 rispetto a quella di cui al codice penale per i reati commessi dalle persone fisiche. La lacuna organizzativa che ha consentito o agevolato la commissione all’estero di un reato all’interno di uno stabilimento, una filiale, una sede secondaria dell’ente nazionale potrà giocoforza localizzarsi soltanto lì ove si trovi la sede preposta all’attività amministrativa di direzione e organizzazione, ovverosia la sua “sede principale”.

Tuttavia, come si evince dalla lettura della norma, quello della sede principale costituisce requisito necessario sebbene non sufficiente ai fini della punibilità dell’ente italiano, poiché il reato-presupposto commesso all’estero deve soddisfare i “casi e le condizioni” di punibilità di cui agli artt. 7, 8,9,10 c.p..

Con riferimento a tale rinvio è opportuno sottolineare che in ossequio al principio di legalità, di fonte costituzionale (art. 25 Cost., comma 2), richiamato dallo stesso D. Lgs. 231 all’art. 2, le norme sulla punibilità dei delitti commessi interamente all’estero di cui al codice penale (artt. 7 ss.) non possono essere tralatiziamente importate nel sistema di responsabilità degli enti: occorrerà, infatti, che i delitti commessi all’estero per la cui disciplina l’art. 4 rinvia alle norme del codice penale siano al tempo stesso espressamente e tassativamente contemplati nel c.d. “catalogo 231”, costituiscano cioè fattispecie presupposto ai sensi del Decreto. Solo in questo caso l’ente con sede principale in Italia può essere chiamato a rispondere del fatto extraterritoriale commesso, nel suo interesse o vantaggio, da suoi apicali o sottoposti.

Dunque, per gli enti radicati in Italia che operano all’estero sarà più che mai necessario prevedere all’interno dei modelli organizzativi anche dei meccanismi di prevenzione del rischio-reato extraterritoriale.

Dirompente, poi, il rilievo dato al principio del ne bis in idem internazionale in chiave anticipata, sulla base cioè della mera instaurazione di una litispendenza internazionale, dato che si prevede la punibilità dell’ente ex D. Lgs. 231 a condizione che nei suoi confronti non proceda lo Stato (estero) del locus commissi delicti. La Relazione ministeriale al Decreto giustifica la necessità della scelta operata per evitare il rischio di una sovrapposizione delle azioni punitive da parte dei diversi Stati.

Infine, il comma 2, dell’art. 4, prevede che in tutti i casi in cui la punibilità dell’autore del delitto commesso all’estero sia subordinata alla richiesta del Ministro della giustizia (sostanzialmente, artt. 9-10 c.p.) pari richiesta dovrà essere formulata per la procedibilità nei confronti dell’ente. Secondo taluni, le valutazioni “politiche” alla base della richiesta dovrebbero tenere in considerazione anche le singole realtà locali (estere) in cui le imprese italiane si trovano ad operare (per un maggior approfondimento si veda L. PISTORELLI, Profili problematici della “responsabilità internazionale” degli enti per i reati commessi nel loro interesse o vantaggio, in Resp. amm. soc. enti, 1/2011).

Superfluo, forse, sottolinearlo, ma doveroso farlo, l’ente radicato nel Paese potrà rispondere dell’illecito 231, al di là della sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi di imputazione, solo se l’autore del reato extraterritoriale risulti inquadrabile in una delle due categorie soggettive: apicale, anche di fatto e anche solo di un’unità organizzativa dell’ente dotata di autonomia finanziaria e funzionale (come potrebbe essere, comunemente, il direttore di uno stabilimento dell’ente all’estero), ovvero sottoposto (come i lavoratori dipendenti assunti in loco o qui distaccati o trasferiti ovvero, più in generale, coloro che sono stabilmente sottoposti al controllo dei soggetti apicali).

 

3. Il criterio di “territorialità universale” di cui all’art. 6 c.p. e illecito 231: i casi Bonatti S.p.A. ed ENI-Saipem S.p.A. “Nigeria”

A fronte della poderosa “impalcatura” delineata dall’art. 4 d.lgs. cit e qui brevemente tratteggiata, la dottrina ha sollevato il paradosso della sua inapplicabilità. In effetti, pronunce significative sul punto non paiono, allo stato, rinvenirsi.

Una, la più importante, delle principali ragioni risiede in quell’orientamento giurisprudenziale che iper estendendo sempre più il criterio dell’ubiquità (o della sineddoche) di cui all’art. 6 c.p. inevitabilmente restringe l’ambito di operatività della disciplina in materia di ambito spaziale di applicabilità della legge penale italiana (artt. 7 ss. c.p.) e come tale l’art. 4 d.lgs. cit. il cui presupposto di operatività, come si è visto, consiste proprio nella sussistenza di un reato presupposto commesso interamente all’estero. Come noto, l’art. 6 c.p. consente di ritenere commesso un reato sul territorio italiano anche solo “quando l’azione o l’omissione che lo costituisce è ivi avvenuta in tutto o in parte ovvero si è ivi verificato l’evento che è la conseguenza dell’azione od omissione”.

Dunque, reati commessi solo parzialmente in Italia o - che dir si voglia - solo parzialmente all’estero per attrarre la giurisdizione (territoriale) del nostro Paese.

La sempre maggiore estensione del concetto di territorialità, operata soprattutto dalla giurisprudenza tutte le volte in cui ammette la sufficienza, ai fini del riconoscimento della giurisdizione italiana, che nel territorio dello Stato si verifichi anche solo un frammento dell’iter delittuoso, purché apprezzabile, ben spiega il motivo per cui in dottrina si è parlato, quasi a mo’ di ossimoro, dell’art. 6 c.p. come di un criterio di ‘territorialità universale’ (V. MONGILLO, Intervento al Convegno presso la Scuola Universitaria Superiore Sant’Anna, Pisa, 18 giugno 2021).

Due le fattispecie presupposto suscettibili, potenzialmente, di essere ricondotte al caso di reato commesso parzialmente all’estero (art. 6, comma 2, c.p.) nell’interesse o a vantaggio di un ente radicato in Italia e sottratte alla disciplina ex art. 4 D. lgs. cit.

La prima, fa riferimento alle ipotesi contemplate nell’art. 25-septies D. Lgs. cit. di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Nei casi di infortuni sul lavoro, infatti, l’evento morte o lesione che dovesse verificarsi nello stabilimento estero di un ente italiano potrebbe qualificare il reato come extra-territoriale (artt. 9 o 10 c.p.) ovvero territoriale (art. 6, comma secondo, c.p.) a seconda che nella sede italiana dell’ente si sia verificata anche solo una parte della condotta colposa, un frammento, in violazione delle norme prevenzionistiche e cautelari. Se tale violazione si è prodotta e sussiste un nesso di causalità tra quest’ultima e l’evento - morte o lesioni - realizzatosi nello stabilimento produttivo estero dell’ente allora il reato andrà considerato come commesso nel territorio dello Stato, anche se solo parzialmente, e dunque l’illecito ex D. Lgs. 231 dell’ente nazionae seguirà le regole ordinarie di imputazione difettando il nesso di collegamento di cui all’art. 4 D. Lgs. cit. (reato commesso interamente all’estero).

Esemplare, sebbene vicenda tristemente nota ed analizzata in tempi non sospetti dallo scrivente, il c.d. caso Bonatti S.p.A. (A. PARROTTA, Sequestro e morte di lavoratori italiani all’estero: la Procura contesta cooperazione colposa in delitto doloso al CdA dell’azienda e la relativa responsabilità da reato dell’Ente, in Riv. Dir. pen. globalizzazione, 2017). Tale vicenda, infatti, ha visto condannati i membri del CdA di Bonatti S.p.A. e il dirigente della branch libica della suddetta società, con sede in Parma ed operante nel settore oil&gas, per cooperazione colposa in delitto doloso in merito alla morte di due dipendenti i quali in occasione del loro trasferimento in territorio libico per raggiungere la sede locale della Società venivano dapprima sequestrati da milizie locali e poi uccisi a seguito di un conflitto a fuoco. Responsabilità omissiva colposa in capo ai primi, per non aver predisposto (necessariamente, nella sede italiana della società) le misure di sicurezza idonee e necessarie a garantire l’incolumità dei dipendenti occupati presso lo stabilimento libico, pur conoscendo le situazioni di instabilità politica che caratterizzavano la Libia in quel momento; responsabilità commissiva colposa per il secondo, per aver disatteso in loco le modalità di trasferimento consigliate dalle Autorità per finalità legate alle esigenze produttive.

Anche l’Ente è stato - correttamente - destinatario della contestazione di cui all’art. 25-septies poiché, nell’ottica della spazialità del Decreto qui in esame, in Italia, presso la sede principale dell’Ente, si è verificata la lacuna organizzativa che ha consentito di muovere il relativo rimprovero innescando nel nostro Paese tali condotte colpose, antecedenti causali (bastevoli ai fini dell’integrazione della giurisdizione italiana ex art. 6 c.p.) degli eventi che hanno portato in Libia al sequestro dei lavoratori, prima, e alla loro successiva morte.

La seconda fattispecie presupposto si ricava dall’art. 25 D. Lgs. cit. per i casi di corruzione internazionale (art. 322-bis c.p.).

Anche qui, il reato si considererà commesso nel territorio dello Stato (art. 6, comma secondo, c.p.) tutte le volte in cui mediante condotte di istigazione o di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso (concorso morale) un esponente dell’ente italiano in grado di impegnarlo convinca un soggetto operante all’interno della sede estera ad accordarsi illecitamente - e.g. pagando una ‘tangente’ - con un pubblico ufficiale straniero per ottenere, qui, agevolazioni in forniture, contratti di appalto etc. nell’interesse del soggetto collettivo nazionale. Sarà, dunque, sufficiente che la condotta di preparazione o di istigazione sia avvenuta in Italia, benché poi l’accordo corruttivo e il successivo pagamento del relativo prezzo si siano realizzati oltre confine, per rendere inapplicabili le disposizioni per il fatto extra-territoriale di cui al codice penale e, conseguentemente, l’art. 4 D. Lgs. cit..

Proprio con riferimento a tale ultima ipotesi, “illuminante” appare la complessa vicenda delle società ENI-Saipem S.p.A. “Nigeria”, imputate ai sensi dell’art. 25 D. Lgs. 231, commi 3 e 4, per il reato-presupposto di corruzione internazionale (art. 322-bis, comma 2, n. 2, c.p.), con cui si è affermata la giurisdizione italiana ex art. 6, comma secondo, c.p., e non ai sensi degli artt. 7 ss. c.p., per essersi in Italia, secondo la ricostruzione accusatoria, eseguite parti rilevanti della condotta contestata. In particolare sono state addebitate alle due società italiane sopra citate, attive nel settore petrolifero e operanti all’estero (in Nigeria) mediante joint venture, le condotte di due suoi funzionari - avvenute, almeno in parte, in Italia - per aver questi corrisposto, in concorso con altri soggetti, compensi corruttivi a pubblici ufficiali nigeriani (capi di Stato, membri dell’esecutivo, presidenti della società statale NNPC, Nigerian National Petroleum Corporation) nell’interesse e a vantaggio delle rispettive società di appartenenza, al fine di far ottenere alle stesse contratti d’appalto relativi alla realizzazione di impianti di liquefazione del gas naturale nell’area di Bonny Island in Nigeria.

 

4. Extraterritorialità dell’illecito 231: il caso del disastro ferroviario di Viareggio

Del tutto priva di disciplina (di “rumoroso silenzio” parla S. MANACORDA, Limiti spaziali della responsabilità degli enti e criteri d’imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2012 ) è poi la fattispecie opposta a quella di cui all’art. 4 d.lgs. cit: quella in cui il reato presupposto viene commesso (interamente o parzialmente) in Italia ai sensi del citato art. 6 c.p. nell’interesse o a vantaggio di un ente avente la sede principale all’estero, cioè privo in Italia di un solido radicamento territoriale benché qui, eventualmente, operante.

La questione di fondo è quindi quella che si interroga sull’applicabilità extraterritoriale del D. Lgs. 231/2001, tanto a livello prevenzionistico (applicabilità del sistema di prevenzione e gestione del rischio reato, ad es. mediante i modelli ‘231’) quanto a livello sanzionatorio (applicabilità, anche nella fase cautelare, di misure/sanzioni interdittive).

Due orientamenti si sono affermati, l’uno opposto all’altro.

Secondo un primo orientamento, c.d. minimalista, seguito prevalentemente dalla giurisprudenza, è nel locus commissi delicti che si radicherebbe anche la giurisdizione sull’illecito dell’ente: in questo senso, dunque, il reato commesso in Italia basterebbe per instaurare, di riflesso, anche la giurisdizione sull’ente straniero, eventualmente operante nel territorio dello Stato; in altri termini, sarebbe nel luogo di consumazione del reato che si consumerebbe anche l’illecito dell’ente, in piena sintonia con quella dottrina che individua il rapporto tra reato-presupposto e illecito dell’ente nella categoria della plurisoggettività a concorso necessario tra persona fisica e persona giuridica (C. E. PALIERO, La società punita: del come, del perché, e del per cosa, in Riv. it. dir. proc. pen., 4, 2008).

Uno dei principali argomenti a sostegno della corresponsabilizzazione dell’ente straniero nel reato-presupposto commesso in Italia nel suo interesse o vantaggio da un suo esponente, apicale o sottoposto, è sempre stato quello legato al concetto di operatività economica o commerciale della persona giuridica straniera nel territorio nazionale, pur in assenza di una sede principale o secondaria, cioè in mancanza di un elemento di collegamento territoriale (obiettivo) con l’ordinamento nazionale.

Questo assunto deriverebbe, secondo i giudici e la dottrina che vi ha successivamente aderito, dai principi di imperatività/obbligatorietà e territorialità della legge penale di cui al combinato disposto degli articoli 3 e 6 c.p. - che, in forza della loro vis abtractiva, pretendono da chiunque si trovi nel territorio dello Stato l’osservanza della legge italiana (il D. Lgs. 231 secondo tale orientamento) con il conseguente assoggettamento alla stessa nel caso di sua violazione in territorio nazionale - dai quali si ricaverebbe, mediante un’opera ermeneutica di “entificazione”, che il trovarsi nel territorio dello Stato della persona fisica equivarrebbe all’operatività della persona giuridica nello stesso.

Da queste considerazioni la giurisprudenza fa derivare l’onere da parte dell’ente straniero che intenda affacciarsi al mercato italiano di uniformarsi alla normativa nazionale e nello specifico di dotarsi di una idonea e adeguata struttura di prevenzione del rischio-reato; ragionando diversamente, si sostiene, l’ente si attribuirebbe una sorta di inammissibile “auto esenzione” dalla responsabilità ex 231.

Dunque, mediante questo processo “osmotico” con il diritto penale dell’individuo, in tali casi il reato commesso nell’interesse o a vantaggio di un ente non avente la sede principale in Italia ma qui operante, sebbene l’assenza di una stabile organizzazione, consentendo di radicare la giurisdizione del giudice penale italiano sull’autore persona fisica, a cascata permetterebbe di radicarla anche nei confronti del soggetto collettivo essendo il “suo” illecito pur sempre dipendente dal reato-presupposto.

Un secondo orientamento, c.d. massimalista, al contrario, aderendo alla tesi che interpreta l’illecito ex 231 come una fattispecie a struttura complessa e fondato su criteri di tipicità soggettiva, individua nel luogo in cui è avvenuta la lacuna organizzativa il radicamento della giurisdizione: in questi termini, nel caso di reato territoriale commesso nell’interesse o a vantaggio di un ente “straniero” quest’ultimo non potrebbe essere ritenuto responsabile - non sarebbe in grado di interiorizzare il rimprovero - se il difetto di organizzazione si producesse all’estero, luogo della sede principale delle scelte in materia di compliance aziendale. Dunque, il luogo di verificazione della colpa di organizzazione come indicatore dirimente circa la dimensione spaziale dell’illecito dell’ente da reato. Essendo acquisito il dato secondo cui è nella sede dell’attività organizzativa, gestionale e contabile dell’ente (sede principale) che avvengono le decisioni in materia di risk assessment e risk management sarebbe, quindi, contraria a tale lettura la pretesa dell’ordinamento italiano di giudicare ai sensi del D. Lgs. cit. un ente che abbia eventualmente operato in Italia ma il cui centro direttivo sia situato all’estero, appunto nella sua sede principale, disancorando così “la localizzazione geografica dell’illecito amministrativo dal luogo in cui si è verificato il suo fatto tipico costitutivo” (E. NAPOLETANO-E. MASSIGNANI, La responsabilità amministrativa della società straniera per reati consumati su territorio italiano da un soggetto apicale nel suo interesse, in Giurisprudenza Penale Web, 5, 2020).

Particolarmente raffinate sul punto le argomentazioni di quella dottrina (Padovani) che a confutazione dell’equiparazione tra il trovarsi nel territorio dello Stato della persona fisica e quello dell’operatività nel medesimo territorio della persona giuridica, ai fini della ritenuta estensione anche all’ente straniero dell’osservanza dei principi di obbligatorietà e territorialità della legge penale (artt. 3 e 6 c.p.), propone l’applicazione di uno dei tre criteri alternativi dell’art. 25 l. 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato) come indicatore spaziale dirimente per imporre all’ente che si trovi nel territorio dello Stato, nel senso che qui vi abbia stabilmente operato, “una conformazione organizzativa corrispondente alla prevenzione, sul territorio nazionale stesso (e non all’estero), dei reati secondo il d.lgs 231, e a garantire l’utile ed efficace applicazione dell’apparato sanzionatorio”.

Il ricorso a tale disciplina si fonda, secondo i suoi sostenitori, sulla ritenuta impossibilità di dedurre automaticamente e aprioristicamente la condizione dell’operatività dell’ente (straniero, nel caso di specie) sul - o il trovarsi di questo nel - territorio dello Stato dal fatto che qui si sia consumato il reato della persona fisica, poiché “ontologicamente” il trovarsi nel territorio dello Stato della persona giuridica non può coincidere con quello della persona fisica.

Sul fronte giurisprudenziale si segnalano due tra le più recenti pronunce in materia.

Degna di nota, a causa della tragicità dei fatti occorsi, si colloca la vicenda relativa al disastro ferroviario di Viareggio avvenuto nella notte del 29 giugno del 2009. Si tratta, come è stato affermato, del “più grande incidente ferroviario in Italia e in Europa degli ultimi trent’anni” causato dal deragliamento presso la stazione ferroviaria di Viareggio del treno merci Trecate-Gricignano e del suo convoglio di quattordici carri cisterna contenente GPL il quale, a seguito dell’urto con una infrastruttura circostante, determinò la fuoriuscita del gas che dette immediatamente vita ad un terribile incendio. Il bilancio fu drammatico: 33 morti e 25 feriti gravi.

La complessa vicenda giudiziaria - conclusasi solo recentemente, salvo gli ulteriori giudizi di rinvio, con la sentenza Cass. pen., sez. IV, 6 settembre 2021, n. 32899 - ha visto coinvolte, tra le altre, tre società di diritto straniero, austriache e tedesche (Gatx Rail Austria GmBH, Gatx Rail Germania GmBH e Jungenthal Waggon GmBH), prive di sedi principali od operative nel territorio nazionale, le quali, secondo la ricostruzione accusatoria, vi avrebbero ivi sostanzialmente operato sia mediante la locazione ad una società italiana (FS Logistica S.p.A.) di carri cisterna sistematicamente impiegati in quella tratta per il trasporto del GPL, che per l’attività manutentiva e di fornitura delle componentistiche di volta in volta necessarie. Alle tre persone giuridiche straniere è stato contestato l’illecito di cui all’art. 25-septies D. Lgs. 231 in relazione alle lesioni personali colpose gravi o gravissime e agli omicidi colposi, aggravati dalla violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, commessi dagli imputati, loro rispettivi esponenti.

L’ultima vicenda significativa degna di nota, anch’essa di recente formazione, si riferisce a Cass. pen., sez. VI, 7 aprile 2020, n. 11626, Boskalis/Calò, l’unica ad essersi occupata funditus del tema dell’applicabilità extraterritoriale del D. Lgs. 231/2001.

Il caso riguarda il coinvolgimento di due società straniere (Boskalis International BV e Boskalis s.r.l.), appartenenti al gruppo olandese “Boskalis”, aventi sede principale all’estero e prive, come scrive la Corte, di alcuna effettiva operatività sul territorio nazionale, limitandosi a svolgere in Italia un’attività “prettamente formale”, condannate in relazione all’illecito amministrativo di cui agli artt. 5 e 25 D. Lgs. cit. derivante dal reato di corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.) e di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) per i quali sono stati rinviati a giudizio due esponenti apicali delle rispettive società che, secondo la ricostruzione accusatoria, in concorso con il coadiutore legale (Calò M.) della procedura fallimentare di una società dichiarata fallita (Dragomar S.p.A.), agendo per conto delle società di appartenenza, avrebbero erogato illecitamente in Italia somme di denaro a favore del coadiutore legale quale corrispettivo per il compimento di atti contrari ai doveri dell’ufficio, finalizzati a favorire dette società nell’acquisizione, a condizioni vantaggiose e con preferenza rispetto ad altri potenziali acquirenti, di beni dell’azienda della fallita “Dragomar S.p.A.”.

 

5. Sistemi certificati di prevenzione alla corruzione

Un secondo strumento per la promozione della responsabilità sociale d'impresa, largamente riconosciuto nel panorama internazionale, è costituito dall'istituzione di sistemi di certificazione della condotta etica della imprese i quali assicurino ai terzi che il comportamento di una certa impresa sia conforme a standards sociali o ambientali.

Il sistema di certificazione internazionale della responsabilità sociale d'impresa più diffuso è certamente quello elaborato nel 1997 dall'organizzazione non governativa internazionale “Social Accountability International”. Questo standard è oggetto di periodica revisione da un organo deputato alla certificazione delle imprese che volontariamente abbiano deciso di sottoporsi a tale sistema di controllo. In sostanza, questo sistema di certificazione, denominato SA8000, utilizza i parametri enunciati dai principali strumenti internazionali per la tutela dei diritti dei lavoratori e per la tutela dei diritti dell'uomo, in particolare le Convenzioni dell'OIL e le Convenzioni dell'ONU per la tutela dei diritti dell'uomo. La certificazione è rilasciata da enti indipendenti e accreditati dall'Organizzazione che effettuano una istruttoria preliminare sulla base di una autocertificazione dell'azienda guidata dalla modulistica specifica, alla quale segue la concessione dello status di applicant. L'impresa sarà, quindi, sottoposta all'attività di controllo periodico da parte dell'ente certificatore finché, in caso di esito positivo, potrà ottenere il certificato di conformità SA8000.

Vi sono, poi, altri sistemi di controllo internazionale con riferimento a standards sociali più specifici, come, ad esempio, l'OHSAS per la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.

I sistemi di certificazione internazionale non sono, tuttavia, istituiti nell'ambito dell'ordinamento dell'Unione europea e costituiscono, dunque, il risultato di un'attività di promozione che trova altrove la sua fonte.

Di conseguenza, essi utilizzano standards sociali che formano una sorta di piattaforma comune della responsabilità delle imprese sul piano globale. Si deve, tuttavia, considerare che gli standards internazionali non sempre risultano confacenti all'esigenza di promozione nel contesto dell'Unione europea. Le imprese che operano nel mercato europeo, infatti, si muovono nell'ambito di una cornice legislativa che prevede un livello di tutela generalmente più elevato di quello imposto dagli standard utilizzati dai principali strumenti internazionali di certificazione. Pertanto, la qualifica di impresa socialmente responsabile dovrebbe riguardare le imprese europee che scelgano di conformarsi a parametri più specifici rispetto a quelli ricavabili dai trattati internazionali in materia di diritti dell'uomo, i quali, come è noto, mirano a stabilire uno standard minimo che è normalmente rispettato e, spesso, superato, negli ordinamenti giuridici degli Stati europei. Pare, dunque, auspicabile che l'Unione europea promuova l'individuazione di uno standard minimo attraverso l'istituzione di un sistema di certificazione europeo.

In Italia, di consueto, fa da padrona il c.d. Codice Etico, steso di solito sulla base delle Linee Guida di Confindustria così come riviste ed. 2014; dell'indagine condotta dal Comitato per l'Area D.Lgs 231/2001 dell'Associazione Italiana Internal Auditors (AIIA), degli I.S.A. (International Standards on Auditing), della Circolari Guardia di Finanza ed. 2013/2014; nonché a mente dei principi di Pratica Professionale in materia di diritto penale dell'impresa e revisione contabile che a questi ultimi fanno riferimento e che soddisfano molti dei requisiti richiesti dal CoSO Report.

L'adozione di misure europee di sostegno della responsabilità sociale d'impresa potrebbe riguardare, inoltre, il settore degli appalti pubblici. Infatti, la promozione degli acquisiti pubblici sostenibili da parte sia dell'Unione europea, sia degli Stati membri, può costituire un importante strumento per favorire la concorrenza tra gli operatori economici europei e per stimolare l'innovazione ecotecnologica e lo sviluppo sostenibile.

La Commissione europea ha recentemente valorizzato le potenzialità di una strategia di promozione degli acquisti pubblici ecocompatibili affermando l'esigenza di una azione coordinata tra l'Unione europea e gli Stati membri per l'elaborazione di criteri ambientali chiari e precisi e per la promozione di piani nazionali per la diffusione degli “appalti verdi”.

Se si considera che l'integrazione dei criteri sociali nella procedura per gli appalti pubblici potrebbe incidere positivamente sul mercato, stimolando la domanda di prodotti e servizi altamente sostenibili e favorendo un circolo competitivo virtuoso, appare probabile che la Commissione europea adotterà una strategia analoga al fine di incentivare la responsabilità sociale d'impresa. La promozione degli “appalti sostenibili” è stata, in effetti, recentemente valorizzata dalla risoluzione adottata dal Parlamento europeo nel 2010 per la promozione di un'opera di semplificazione e di miglioramento della normativa vigente in materia di appalti .

In particolare, il Parlamento europeo ha affermato l'esigenza di incentivare il ricorso da parte delle autorità pubbliche all'integrazione dei criteri ambientali e sociali nei bandi di gara pubblici.

Se si considera la vigente disciplina sugli appalti pubblici, il principale ostacolo ad una più diffusa integrazione dei requisiti della responsabilità sociale d'impresa concerne la possibilità di incentivare la valorizzazione di alcuni criteri sociali e ambientali, anche qualora essi non siano strettamente funzionali all'opera pubblica o all'esigenza dell'acquisto. Infatti, l'obiettivo della promozione della responsabilità sociale d'impresa deve essere armonizzato con la finalità principale del diritto europeo degli appalti pubblici di garantire la razionalità della spesa pubblica nonché il rispetto delle regole della concorrenza e del divieto di discriminazione tra i partecipanti alla gara. A tal fine, la Corte di giustizia ha escluso che le amministrazioni aggiudicatrici siano libere di imporre condizioni e requisiti che non siano giustificati dall'oggetto dell'appalto e possano, quindi, costituire misure di discriminazione indiretta tra i partecipanti. Tuttavia, l'individuazione di indici europei uniformi e l'istituzione di un sistema di certificazione della responsabilità sociale d'impresa, basato su un coordinamento tra il livello europeo e quello nazionale, potrebbero incentivare la valorizzazione dei requisiti sociali e ambientali nelle gare di appalto, riducendo il rischio che le amministrazioni aggiudicatrici incorrano in violazioni del divieto di discriminazione e delle regole sulla concorrenza. L'uniformità del parametro escluderebbe, infatti, la finalità elusiva del divieto di discriminazione, purché siano rispettate le regole stabilite dalla disciplina europea sugli appalti pubblici.

Nel contesto di tale disciplina, i requisiti sociali e ambientali possono essere valorizzati, innanzitutto, attraverso la richiesta da parte delle pubbliche amministrazioni di specifiche tecniche nei documenti dell'appalto.

Le specifiche tecniche, disciplinate nell'art. 23 della direttiva 2004/18, sono definite nell'allegato VI della direttiva 2004/18, come le “caratteristiche richieste di un prodotto o di un servizio, quali i livelli di qualità, i livelli della prestazione ambientale, la concezione che tenga conto di tutte le esigenze (ivi compresa l'accessibilità per i disabili) la valutazione della conformità, la proprietà d'uso, l'uso del prodotto, la sua sicurezza o le sue dimensioni ivi compresi le prescrizioni applicabili al prodotto per quanto riguarda la denominazione di vendita, la terminologia, i simboli, le prove e i metodi di prova, l'imballaggio, la marcatura e l'etichettatura, le istruzioni per l'uso, i processi e i metodi di produzione, nonché le procedure di valutazione della conformità”. Benché esse possano essere formulate facendo riferimento ai sistemi nazionali o europei di certificazione ambientale o altri sistemi tecnici nazionali o europei, devono in ogni caso consentire la parità di accesso degli offerenti e non devono comportare ostacoli ingiustificati all'apertura degli appalti pubblici alla concorrenza. Pertanto, esse sono ammissibili soltanto se il riferimento ad un determinato sistema di certificazione della qualità dei prodotti non sia ritenuto esclusivo e sia, invece, ammessa la possibilità di dimostrare altrimenti il rispetto dello standard sociale richiesto mediante, ad esempio, la documentazione tecnica del fabbricante o di un altro organismo certificatore riconosciuto a livello nazionale o europeo. È, dunque, proibito alle amministrazioni aggiudicatrici di respingere un'offerta perchè i prodotti e i servizi offerti non risultano formalmente conformi alle specifiche, se l'offerente riesce a dimostrare, con qualsiasi mezzo appropriato, che le soluzioni da lui proposte ottemperano in maniera equivalente ai requisiti richiesti.

Inoltre, alcuni aspetti sociali sono presi in considerazione nell'ambito della procedura europea sugli appalti pubblici attraverso la previsione di cause di esclusione dalle gare di appalto per coloro che siano stati condannati per qualsiasi tipo di delitto concernente la loro condotta professionale o che non abbiano ottemperato agli obblighi relativi al pagamento dei contributi sociali.

Ulteriori aspetti possono essere valorizzati allorché sia stabilito come criterio di aggiudicazione quello dell'offerta economicamente più vantaggiosa. Infatti, gli artt. 49 e 50 della direttiva 2004/18 prevedono la possibilità che l'amministrazione richieda una certificazione di garanzia della qualità o della gestione ambientale relativa all'oggetto del contratto. In particolare, l'art. 49 della direttiva 2004/18 prevede che la stazione appaltante possa chiedere la presentazione di “certificati rilasciati da organismi indipendenti per attestare l'ottemperanza dell'operatore economico a determinate norme in materia di garanzia della qualità”, sempre purché siano riconosciuti anche i certificati equivalenti rilasciati da organismi stabiliti in altri Stati membri e altre prove relative all'impiego di misure equivalenti di garanzia della qualità. Al riguardo, merita sottolineare che la Corte di giustizia ha avuto più volte occasione di pronunciarsi sulla possibilità che una amministrazione appaltante adotti alcuni criteri di aggiudicazione che non siano di natura meramente economica. La Corte ha, ad esempio, dichiarato l'ammissibilità di criteri ecologici al fine di individuare l'offerta economicamente più vantaggiosa, purché tali criteri siano collegati all'oggetto dell'appalto, non conferiscano a detta amministrazione una libertà incondizionata di scelta, siano espressamente menzionati nel capitolato d'oneri o nel bando di gara e rispettino tutti i principi fondamentali del diritto comunitario, in particolare, il principio di non discriminazione.

Occorre, infine, considerare che la normativa europea sugli appalti prevede anche la possibilità che gli aspetti sociali e ambientali siano valorizzati tra le condizioni di esecuzione dell'appalto.

L'art. 26 della direttiva 2004/18, infatti, sancisce la possibilità che le amministrazioni aggiudicatici esigano condizioni particolari nell'esecuzione dell'appalto, anche basate su considerazioni sociali e ambientali, purché siano compatibili con il diritto europeo e siano precisate nel bando di gara o nel capitolato d'oneri. Benché i requisiti di carattere sociale e ambientale non rilevino, in questo caso, come criteri di selezione delle offerte, la loro indicazione tra le condizioni di esecuzione del contratto può avere una notevole incidenza per la promozione di pratiche d'impresa socialmente responsabili. Difatti, qualora rilevino come condizioni di esecuzione dell'appalto, le considerazioni sociali e ambientali non sono legate all'oggetto del contratto e incontrano l'unico limite del rispetto dei principi di proporzionalità e di non discriminazione.

Un aspetto ulteriormente vantaggioso consiste nella possibilità che l'amministrazione appaltante eserciti un potere di controllo ex post sul rispetto degli adempimenti contrattuali così da evitare che lo standard sociale sia richiesto come mero requisito di partecipazione e sia poi disatteso nella fase di esecuzione dell'appalto. Infine, vale la pena notare che l'individuazione di uno standard minimo europeo e di una certificazione collegata consentirebbero alle amministrazioni appaltanti di stabilire, tra le condizioni di aggiudicazione o di esecuzione di un contratto pubblico, il rispetto di un requisito sociale più garantista di quello imposto dalla legge o dai contratti collettivi di applicazione generale. Ciò senza incorrere nel rischio dell'utilizzazione di un parametro nazionale, il quale comporterebbe una forma di discriminazione indiretta, in base alla nazionalità, in contrasto con le regole della concorrenza e della libera circolazione dei fattori di produzione. Nella nota sentenza Rüffert, infatti, la Corte di giustizia ha ritenuto che una disposizione legislativa che imponga agli enti pubblici aggiudicatori di attribuire gli appalti edili unicamente alle imprese che si impegnino per iscritto a corrispondere ai propri dipendenti, impiegati per l'esecuzione dell'appalto, una retribuzione non inferiore a quella minima prevista dal contratto collettivo vigente nel luogo dell'esecuzione dei lavori, fosse in contrasto con il principio della libera circolazione dei servizi.

Ciò perché, secondo la Corte di giustizia, una simile condizione imporrebbe ai prestatori di servizi stabiliti in un altro Stato membro, nel quale si applichi un salario minimo inferiore, un onere economico supplementare rispetto a quello stabilito nella direttiva 96/71 sul distacco dei lavoratori nell'ambito di una prestazione di servizi, atto ad impedire, ostacolare o rendere meno attraenti le loro prestazioni nello Stato ospitante e, pertanto, tale da costituire una restrizione proibita ai sensi degli artt. 101 e ss. TFUE .

Diversamente, qualora il criterio sociale o ambientale risultasse ancorato ad un parametro europeo uniforme non si determinerebbe una situazione di disparità di trattamento economico e di discriminazione in base alla nazionalità tra i potenziali offerenti.

In questo caso, pertanto, l'adozione di uno standard sociale più garantista di quello giuridicamente vincolante potrebbe essere giustificata dall'interesse pubblico della tutela dei lavoratori, senza che l'onere economico aggiuntivo comporti una discriminazione in ragione della nazionalità dell'impresa.

 

6. Conclusioni

De iure condito, con riguardo alla complessa ed articolata disciplina legale di cui all’art. 4 D. Lgs. cit., la dottrina non ha mancato di sottolineare che se, da un lato, la pluralità di requisiti e condizioni sostanziali e processuali di cui all’art. cit., che devono contemporaneamente sussistere, rendono assai ardua, in concreto, la perseguibilità dell’ente italiano per il fatto individuale (interamente) extraterritoriale, dall’altro, forte è il rischio che a seguito di una sempre più lata interpretazione della territorialità (art. 6 c.p.) quest’ultima si riveli capace di surrogare in toto il ricorso all’art. 4 D. Lgs. cit., consentendo così l’applicazione quasi incondizionata del Decreto per tutti quegli enti italiani che operano all’estero.

Imprescindibile - tuttavia - un radicamento forte, di matrice amministrativa, gestionale e contabile, dell’ente in Italia al fine di poter contestare l’illecito 231 anche a quegli enti costituiti all’estero ma in Italia ivi operanti, a conferma dunque di una rinnovata concezione della territorialità, sempre più a carattere normativo (soprattutto nell’ambito delle organizzazioni complesse) e meno ‘geograficà.

De iure condendo, infatti, v’è chi in dottrina (G. DI VETTA, Il giudice border guard nei “grandi spazi”: prospettive critiche intorno alla responsabilità degli enti, in Giurisprudenza Penale Web, 2021/1-bis) suggerisce, sulla scorta di alcune soluzioni già sperimentate sul piano internazionale (es. il criterio del “doing business dello UK Bribery Act del 2010), sebbene con alcuni potenziamenti e correttivi, di desumere il doing business del soggetto collettivo mediante l’introduzione legale nell’art. 4 d.lgs. cit. di indici di operatività (economica). Si tratterebbe, cioè, di elementi sintomatici di operatività, normativamente predeterminati ed in linea con le modalità tipiche di svolgimento dell’attività di impresa, mediante i quali il giudice potrebbe convincersi, se presenti, dell’avvenuta instaurazione da parte dell’ente straniero di un significativo nesso di collegamento con il nostro Paese, tale da giustificare anche nei suoi confronti l’applicabilità del D. Lgs. 231/2001.

Il Rapporto del Relatore speciale nominato dal Segretario generale dell'ONU (Report of the Special Representative of the UN Secretary-General on the issue of human rights and transnational corporations and other business enterprises) costituiscono il coronamento di un'opera durata dal 2005 al 2011, volta a coinvolgere Stati, imprese e società civile (del resto implicati tutti nella elaborazione) nella promozione del rispetto dei diritti umani fondamentali su scala universale, a prescindere dall'applicazione effettiva di strumenti vincolanti di diritto internazionale (cui pure essi si riferiscono). I Principi sono espressione di una nuova impostazione, imperniata su strumenti di soft law e la social corporate responsibility per la tutela dei diritti umani a livello e di fonte internazionale per raggiungere concreti risultati in materia.

La premessa generale, di indole filosofica, si fonda su tre pilastri: il dovere degli Stati di protezione dalle violazioni dei diritti umani compiute da terzi; la responsabilità d'impresa di rispettare ad ogni livello i diritti umani; l'esistenza di rimedi per le vittime, giudiziali e non giudiziari.

D'altra parte la fonte non vincolante, ma autorevolissima, di queste prescrizioni assortite da meccanismi giuridici e sociologici per assicurare l'applicazione porta inevitabilmente ad una progressiva normativizzazione ordinamentale e a livello societario, di queste prescrizioni.