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Tra incertezze italiane e suggestioni U.S.A.

La città muta - Movimenti (III)
Ph. Anuar Arebi / La città muta - Movimenti (III)

*Contributo sottoposto con esito positivo a referaggio secondo le regole della rivista

 

Abstract

Lo scritto si propone di tracciare un percorso che, partendo dallo stato di effettiva applicazione del d. lgs. 231/2001 sul territorio nazionale ed evidenziando punti di contatto e divergenze tra il sistema italiano e quello degli Stati Uniti d’America, possa condurre ad una riflessione sul futuro della normativa sulla responsabilità degli enti.

Da una chiave di lettura puramente giuridica delle criticità emerse si giunge ad una interpretazione di matrice culturale, individuando nella traslazione dalla responsabilità alla responsabilizzazione della persona giuridica una possibile fruttuosa soluzione.

 

Abstract

The paper aims to track a path that, starting from the actual application of d. lgs. 231/2001 on the national territory and underlying points of contact and differences between italian system and United States, may lead to a thinking on the future of corporate liability legislation.

From a purely juridical approach of the issues that have arisen, it arrives at a cultural interpretation, identifying a possible fruitful solution shifting from responsibility to accountability of the corporation.

 

Sommario

1. Lo stato dell’arte

2. La responsabilità dell’ente, quale tertium genus. Peculiarità e riflessi sull’azione penale e sulla valutazione della responsabilità

2.1 La genesi del d. lgs. 231/2001: anche in Italia societas delinquere potest. Tra spinte sovranazionali ed esigenze di modernità

2.2 La responsabilità amministrativa da reato: tertium genus

2.3 Finalità della persecuzione dell’ente tra prevenzione e punizione. La disciplina dell’esercizio dell’azione penale nel processo contro gli enti: un’opportunità o un rischio?

3. Evoluzione della corporate liability negli U.S.A.: tra discrezionalità dell’azione e ingerenza dei prosecutors

3.1 No soul to be damned and no body to be kicked. L’origine e l’evoluzione della responsabilità dell’ente

3.2 Federal Sentencing Guidelines, Federal Prosecution of Business Organizations ed Evaluation of Corporate Compliance Programs: indici per la valorizzazione della compliance

3.3 I compliance programs e la loro valutazione

3.4 Profili di criticità emersi dalla prassi: tra eccesso di discrezionalità e deresponsabilizzazione dell’individuo. All that glitters is not gold

4. Il cambiamento culturale: dalla responsabilità alla responsabilizzazione dell’ente

4.1 L’ordinamento vigente e la rilevanza della compliance. Codice della crisi e misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio alle imprese

4.2 La valutazione del Modello in sede giudiziale: alla ricerca di un paradigma

4.3 La necessità di un’evoluzione del d. lgs. 231/2001: un cambio di mentalità per un’effettiva ed efficace applicazione

 

1. Lo stato dell’arte

Venti anni possono rappresentare un importante bivio.

Da un lato, la strada che consente di proseguire in un’adolescenza forzata, cercando di prolungare quelle sensazioni ed emozioni fornite dalla prima volta in ogni esperienza, quella genuinità data dalla sperimentazione; dall’altro lato, la strada della maturità, l’inizio del percorso verso la vita adulta, fatta di consapevolezza, di realismo, di possibilità di imparare dalle esperienze trascorse per indirizzare il futuro.

Questo invito alla scelta, radicale, di dare un carattere chiaro e un impulso deciso all’evoluzione del sistema 231 proviene da molte voci che rappresentano esperienze ed esigenze diverse tra loro, ma accomunate da una domanda comune: quale è il futuro della responsabilità degli enti?

È di pochi mesi fa l’intervento del Procuratore generale presso la Corte suprema di Cassazione, Dott. Giovanni Salvi, nell’assemblea generale della Corte sull’amministrazione della Giustizia nell’anno 2020[1]; anticipando i primi dati forniti dalla Direzione Generale per la statistica del Ministero della Giustizia, sono state evidenziate alcune tendenze:

“– i procedimenti per illecito amministrativo dipendenti da reato, perseguiti ai sensi del decreto legislativo n. 231 del 2001, sono di modesta entità e si concentrano in alcune, specifiche, tipologie (articoli 24, 25-septies, 25-undecies). La serie non mostra variazioni significative e ciò anche nei casi in cui è possibile osservare una lieve crescita addebitabile, il più delle volte, a procedimenti seriali;

– la distribuzione congiunta degli esiti per persona giuridica e persona fisica evidenzia una forte concordanza nella valutazione della colpevolezza delle parti. Fanno eccezione i casi in cui alle persone giuridiche sono contestati gli illeciti previsti dagli articoli 25-septies e 25-undecies;

– in primo grado, nei procedimenti a carico di sole persone giuridiche (che rappresentano circa il 40% del totale dei definiti), le modalità di definizione prevalenti (69%) sono le archiviazioni ed i patteggiamenti. In grado di appello, le impugnazioni presentate dalle persone giuridiche si concludono, prevalentemente, con una pronuncia di conferma della condanna emessa in primo grado;

– le misure cautelari applicate in fase di indagine riguardano più frequentemente gli autori dei reati presupposto, ed in pochi casi risultano applicate misure interdittive;

– nella stessa direzione è possibile osservare dai dati del casellario che, anche in caso di sentenza definitiva di condanna, non sono mai applicate sanzioni interdittive e ciò anche in ragione del fatto che nella maggior parte dei casi si tratta di sentenze per patteggiamento; ipotesi, questa, che trova conferma anche osservando gli importi delle sanzioni pecuniarie applicate agli enti in via definitiva che si concentrano nella classe dai 100.000 ai 500.000 euro.”

Nulla di nuovo, in realtà; questi dati costituiscono l’attesa evoluzione del quadro quantitativo e qualitativo offerto in questo ultimo decennio dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, l’ufficio requirente che in Italia è da sempre stato all’avanguardia nell’applicazione della normativa sulla responsabilità da reato dell’ente.

Nei bilanci di responsabilità sociale redatti sin dal 2011 e pubblicati sul sito internet della Procura[2], emergono elementi di sicuro interesse per comprendere l’andamento dell’effettiva applicazione del Decreto 231: nel primo decennio di vigenza, 2002-2012, sono state iscritte nel registro dell’ufficio milanese 404 società, in gran parte per procedimenti relativi ai reati contro la Pubblica Amministrazione individuati a seguito di indagini societarie o tributarie (pag. 40 del bilancio).

Nell’anno giudiziario 2013-2014, pure a fronte della iscrizione di oltre 50 società, la stessa Procura riconosce come “il numero è comunque molto inferiore a quello delle iscrizioni a mod. 21 (registro Noti) dei reati ‘presupposti’’’ (pag. 41).

La tendenza prosegue nell’anno successivo quando, alle 33 nuove iscrizioni considerate al momento della presentazione del bilancio, si evidenziava “la gravità e la conseguente preoccupazione che deriva dall’aumento dello spread tra reati presupposti ed iscrizioni che in alcuni casi sfiora il 90%. Poiché la Procura di Milano è stata da sempre all’avanguardia nellapplicazione/implementazione della 231, questi dati indicano il concreto rischio di un declino dellistituto che, invece, doveva rivoluzionare e contraddistinguere il rapporto tra giurisdizione ed economia” (pag. 57).

Nel 2016 si assiste ad un’inversione di tendenza (+17% rispetto all’anno precedente), ma ancora con un elevato differenziale tra i reati presupposto e le iscrizioni attestato all’85% (pag. 37).

I risultati che emergono nel 2017 riconducono l’innalzamento dell’anno precedente a una mera illusione: gli enti iscritti risultano essere 29 e sono in netta diminuzione rispetto ai due anni precedenti (-37% rispetto al 2016 e -23,7% rispetto al 2015).

Nell’occasione si ripetono, come nelle precedenti pubblicazioni, i motivi che si ritengono sottostanti alla mancata applicazione della norma, suggerendo che “occorre  intervenire sulla scelta originaria del legislatore della responsabilità amministrativa che lascia ampio spazio alla discrezionalità delle iscrizioni, sulle categorie dei cosiddetti reati presupposti (valutare la turbativa dasta, lillecito finanziamento, la frode fiscale), ammettere la possibilità di costituzione delle parti civili nei confronti degli enti ed infine prevedere diverse forme di responsabilità in relazione al profilo dimensionale degli enti. Decisiva poi sarebbe la rottura del vincolo di solidarietà tra ente e management attraverso lintroduzione di meccanismi di diritto premiale a favore dellente che collabora. (pag. 85, 86).

E se questa è la voce della magistratura, consonante è quella dell’avvocatura, seppure con approcci e motivazioni diversi[3]: “Il testo del d. legisl. 231/2001 è incredibilmente ricco di criticità. Si tratta di una legge «incerta, priva di organica sistematicità: anzi, è lo stesso legislatore che, incapace di sciogliere importanti nodi di disciplina, affida decisioni salienti alla concreta applicazione della magistratura» ... Limperfezione del d. legisl. 231/2001 è, tuttavia, solo in piccola parte la causa del gravissimo stato di cose sopra ritratto. Ciò occorre, alla soglia del ventennio di vigenza del d. legisl. 231/2001, dirselo con franchezza, apertis verbis.”.

Risuona, nello stesso tono, anche la dottrina: “invitare le Procure a ridurre lo scarto tra le iscrizioni per i reati presupposto e le corrispondenti iscrizioni a carico delle persone giuridiche per colpa organizzativa risponde solo a parte del problema: quello relativo alle differenti scelte di perseguimento (o non perseguimento) tra uffici sul territorio nazionale e, all’interno del medesimo ufficio, tra diversi dipartimenti. Non promuove un trattamento uniforme, per categorie di reati e/o di vittime, in sede di riti speciali e in particolare di patteggiamento. Se pure tutte le procure d’Italia iscrivessero tutti i procedimenti originati dai reati presupposti, nei confronti delle persone giuridiche rimarrebbero da “omologare”, nel rispetto delle peculiarità di ciascuna istruttoria (ove, in misura più o meno ampia, la raccolta degli elementi a carico della persona fisica sarebbe perseguita con l’ausilio della persona giuridica), le differenti strategie accusatorie appunto in sede di ‘accordi transattivi’[4].

Per contribuire in maniera costruttiva all’analisi di possibili soluzioni a questa ormai inaccettabile impasse applicativa, si ritiene necessario ripercorrere i tratti salienti del cammino, partendo dall’introduzione della normativa di settore, passando per le problematiche applicative nazionali e ragionando su un confronto con l’esperienza degli ordinamenti nei quali la responsabilità degli enti è stata concepita.

In questo modo, si potrà provare a fare una sintesi delle peculiarità endogene con quelle esogene per individuare delle risposte concrete idonee a superare l’attuale situazione di sostanziale l’immobilismo

Non si pretende di trovare la soluzione. Ciò che non è più differibile è l’individuazione degli strumenti necessari per compiere una scelta chiara.

Nel giudizio di responsabilità non ci si può affidare al caso di una moneta lanciata in aria. Non si può accettare che l’applicazione di una norma dipenda dalla volontà contingente o dalla preparazione di questo o quell’organo inquirente; il giudizio dell’idoneità di un Modello non può e non deve risentire della latitudine in cui si trova la sede della società e la competente Autorità giudiziaria.

Ma prima di operare la scelta, si deve raggiungere la dovuta consapevolezza.

 

2. La responsabilità dell’ente, quale tertium genus. Peculiarità e riflessi sull’azione penale e sulla valutazione della responsabilità

2.1. La genesi del d.lgs. 231/2001: anche in Italia societas delinquere potest. Tra spinte sovranazionali ed esigenze di modernità

In Italia il baluardo della (ir)responsabilità penale delle persone giuridiche è stato abbattuto grazie a due contestuali convergenti spinte: la necessità di recepire specifiche disposizioni normative internazionali e sovranazionali e l’inevitabile esigenza di armonizzazione tra Stati di discipline giuridiche differenti.

Tra le normative pattizie più rilevanti spiccava la Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, stipulata nel dicembre 1997; all’art. 2 si imponeva agli Stati aderenti l’adozione delle misure necessarie per stabilire la responsabilità (non necessariamente penale) delle persone giuridiche in caso di corruzione.

Nell’ambito dell’ordinamento dell’Unione Europea, è stata decisiva la c.d. Convenzione PIF6 ratificata dal legislatore nazionale con la legge 29 settembre 2000, n. 300 con la quale veniva conferita delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica.

L’esito è noto: il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.

La relazione al decreto legislativo, nella parte iniziale, individua con chiarezza il fine ultimo della normativa: “ormai pacifico che le principali e più pericolose manifestazioni di reato sono poste in essere – […] da soggetti a struttura organizzata e complessa. L’incremento ragguardevole dei reati dei "colletti bianchi" e di forme di criminalità a questa assimilabili, ha di fatto prodotto un sopravanzamento della illegalità di impresa sulle illegalità individuali, tanto da indurre a capovolgere il noto brocardo, ammettendo che ormai la societas può (e spesso vuole) delinquere[5].

È il paragrafo successivo che, con riferimento al tema trattato in questo lavoro, riveste una particolare importanza e suona quasi come un memento in una fase di riflessione a venti anni dalla approvazione del testo normativo: viene evidenziata la proattività chiesta all’ente per gestire il rischio della commissione di determinati reati attraverso la fissazione di regole di condotta, presidi e controlli.

Lo strumento viene individuato nell’adozione di modelli di organizzazione e gestione che siano efficaci ed effettivi: “Costituisce un dato ormai ampiamente acquisito che l’attribuzione della responsabilità secondo criteri ispirati al versari in re illicita si traduce in un disincentivo all’osservanza di cautele doverose; essa induce infatti nel destinatario un senso di fatalista rassegnazione nei confronti delle conseguenze negative che possono derivare dal suo comportamento. Nel caso di specie, rappresenterebbe quindi una spinta a considerare le sanzioni una sorta di "costo necessario" dell’impresa, non evitabile, ma preventivabile secondo i consueti criteri di bilancio: sempre che sia ritenuto sopportabile (in caso contrario, si tradurrebbe addirittura in una ragione ostativa allo svolgimento dell’attività d’impresa, in sé irrinunciabile). Viceversa, ancorare il rimprovero dell’ente alla mancata adozione ovvero al mancato rispetto di standards doverosi, significa motivarlo all’osservanza degli stessi, e quindi a prevenire la commissione di reati da parte delle persone fisiche che vi fanno capo. Piuttosto che sancire un generico dovere di vigilanza e di controllo dell’ente sulla falsariga di quanto disposto dalla delega (con rischio che la prassi ne operasse il totale svuotamento, indulgendo a criteri ispirati al versari in re illicita), si è preferito allora riempire tale dovere di specifici contenuti: a tale scopo, un modello assai utile è stato fornito dal sistema dei compliance programs da tempo funzionante negli Stati Uniti.”.

 

2.2. La responsabilità amministrativa da reato: il tertium genus

Al fine di individuare la natura giuridica della responsabilità amministrativa da reato appare utile muovere dall’autorevole intervento delle Sezioni Unite della Suprema Corte nell’ambito del procedimento penale instaurato a seguito dell’incidente occorso in Torino presso lo stabilimento della Thyssenkrupp[6].

Nel momento storico in cui è intervenuta questa pronuncia, sulla natura del nuovo sistema sanzionatorio era in corso una profonda discussione in dottrina e si era in presenza di tre distinti orientamenti: secondo alcuni si tratterebbe di una responsabilità di tipo amministrativo (come evocato dal titolo della normativa); secondo altri sarebbe sostanzialmente una responsabilità di natura penale; secondo altri ancora, infine, ci troveremmo di fronte ad un tertium genus (valorizzando il contenuto della Relazione al decreto introduttivo della responsabilità degli enti).

Il medesimo contrasto emergeva nella giurisprudenza che, sino a quel momento, si era pronunciata solo incidentalmente, anche se nel suo massimo consesso, affermando la natura amministrativa della responsabilità da reato (Cass. SS.UU., 23 gennaio 2011, n. 34476, in CED 250347; Cass. SS. UU., 30 gennaio 2014, n. 10561, in CED 258647); in un’altra antecedente pronuncia, sempre delle Sezioni Unite, orientandosi in senso penalistico (Cass. SS. UU., 27 marzo 2008, n. 26654, in CED 239922-923-924-925-926-927). Non mancavano pronunce a sostegno del terzo orientamento, quello del tertium genus sul presupposto che il fatto-reato è commesso della società, di cui essa deve rispondere (Cass., Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735, in CED 247665-666; Cass., Sez. VI, 9 luglio 2009, n. 36083, in CED 244256).

La risposta fornita in occasione del caso Thyssenkrupp dalle Sezioni Unite fu perentoria: “Il Collegio considera che, senza dubbio, il sistema di cui si discute costituisce un corpus normativo di peculiare impronta, un tertium genus, se si vuole. Colgono nel segno, del resto le considerazioni della Relazione che accompagna la normativa in esame quando descrivono un sistema che coniuga i tratti dell’ordinamento penale e di quello amministrativo nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficienza preventiva con quelle, ancor più ineludibili, della massima garanzia. Parimenti non è dubbio che il complesso normativo in esame sia parte del più ampio e variegato sistema punitivo; e che abbia evidenti ragioni di contiguità con l’ordinamento penale per via, soprattutto, della connessione con la commissione di un reato, che ne costituisce il primo presupposto, della severità dell’apparato sanzionatorio, delle modalità processuali del suo accertamento. Sicché, quale che sia l’etichetta che si voglia imporre su tale assetto normativo, è dunque doveroso interrogarsi sulla compatibilità della disciplina legale con i principi costituzionali dell’ordinamento penale, seguendo le sollecitazioni difensive.[7].

Questo assunto sul “tipo” di responsabilità determinava dirette conseguenze nei confronti dei principi costituzionali della personalità della responsabilità penale e della colpevolezza.

Con riferimento al primo, la Corte affermava che il “reato commesso dal soggetto inserito nella compagine dell’ente, in vista del perseguimento dell’interesse o del vantaggio di questo, è sicuramente qualificabile come "proprio" anche della persona giuridica, e ciò in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega il primo alla seconda”; in relazione al secondo principio, il Giudice riporta la scelta al legislatore che “orientato dalla consapevolezza delle connotazioni criminologiche degli illeciti ispirati da organizzazioni complesse, ha inteso imporre a tali organismi l’obbligo di adottare le cautele necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati, adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale. Tali accorgimenti vanno consacrati in un documento, un modello che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli. Non aver ottemperato a tale obbligo fonda il rimprovero, la colpa d’organizzazione”.

I punti essenziali della pronuncia ci consentono di proseguire nel ragionamento; un fil rouge che collega le peculiarità della responsabilità della persona giuridica e valorizza le potenzialità del modello teorico, quello del tertium genus, che non mette in pericolo le (né determina lesioni nelle) consolidate interpretazioni dei principi costituzionali, ma che, al contrario, offre spunti per una possibile applicazione evolutiva della corporate liability.

 

2.3. Finalità della persecuzione dell’ente tra prevenzione e punizione. La disciplina dell’esercizio dell’azione penale nel processo contro gli enti: un’opportunità o un rischio?

Le disposizioni generali sul procedimento nei confronti della persona giuridica sono contenute negli articoli 34 e 35 del Decreto; le due norme rivestono un ruolo fondamentale, visto che rendono applicabili, in quanto compatibili, le regole del codice di procedura penale al procedimento di accertamento della responsabilità, estendendo, altresì, all’ente le norme relative all’imputato.

Per comprendere l’ormai ventennale fenomeno della scarsa applicazione pratica del Decreto in ambito giudiziale è opportuno cominciare la riflessione dal momento genetico del procedimento penale: l’iscrizione della notizia di reato[8].

Una volta attivato l’iter giudiziario, si potrà verificarne la sua evoluzione fino ad esaminare an e quomodo delle determinazioni sull’esercizio dell’iniziativa sanzionatoria da parte della pubblica accusa: “I pubblici ministeri sono i guardiani dei cancellidella giustizia penale. Senza la loro iniziativa non può esservi un efficace intervento repressivo del giudice che è per sua natura un organo passivo[9]; è attribuito esclusivamente alla pubblica accusa il compito di sollecitare l’intervento repressivo statale; ma cosa succede quando questo compito non viene esercitato nei modi e nei tempi imposti dalla legge? Sono devastanti le conseguenze “che un uso indebito, improprio o partigiano, dell’iniziativa penale può avere sulla protezione dei diritti civili, sulla salvaguardia dello status sociale, economico, familiare e politico dei cittadini e sulla loro eguaglianza davanti alla legge penale[10].

L’avvio delle indagini preliminari è disciplinato dall’art. 55 del Decreto che pone a carico del pubblico ministero l’annotazione immediata della notizia dell’illecito amministrativo dipendente da reato nell’apposito registro previsto dall’art. 335 c.p.p. Trattasi di un “momento cruciale, che già consente di fotografare con un certo grado di precisione il ruolo dell’organo dell’accusa nella gestione di questo tipo di responsabilità”[11].

L’attività è speculare a quella prevista per la notizia di reato a carico della persona fisica, ma, mentre per questa ultima non si pongono dubbi in ordine alla sua obbligatorietà[12], per quanto riguarda la persona giuridica la situazione è più fluida. Non manca, infatti, chi sostiene la discrezionalità dell’annotazione[13].

Il primo argomento proposto dai fautori della tesi, in ordine cronologico rispetto alla genesi ed all’evoluzione del procedimento, riguarda la sussistenza degli elementi integranti la notitia criminis: trattandosi di una responsabilità amministrativa da reato, tra l’acquisizione della notizia del reato presupposto e l’annotazione dell’illecito 231 sarebbe necessario acquisire gli elementi minimi necessari per poter configurare la responsabilità della persona giuridica (che il reato presupposto sia stato commesso da un soggetto legato da un rapporto di immedesimazione organica con l’ente e che il reato non risulti commesso nell’interesse esclusivo dell’autore o di terzi).

Il secondo tema attiene alla disciplina del procedimento di archiviazione, che il legislatore ha mantenuto interno all’organo di accusa senza il coinvolgimento giurisdizionale; anche tale passaggio sarebbe espressione del medesimo profilo di discrezionalità che connota l’annotazione della notizia di reato.

La terza considerazione si lega al principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, vincolante per la responsabilità della persona fisica, non applicabile al tertium genus di responsabilità della persona giuridica.

A questa impostazione si contrappone quella della doverosità dell’annotazione.

Partendo dal principio di legalità, che impedisce il conferimento di deleghe in bianco, si perviene alla conclusione dell’impossibilità di riconoscere la discrezionalità al pubblico ministero nella scelta se instaurare o meno il procedimento a carico dellente. Solo attraverso l’obbligatorietà dell’annotazione si può rispettare, nella forma e nella sostanza, il principio di uguaglianza[14].

Il testo del Decreto si muove nella medesima direzione[15]: l’art. 55, comma 1, prevede che il pubblico ministero, all’acquisizione della notizia dell’illecito amministrativo commesso dall’ente, annota immediatamente nel registro delle notizie di reato di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale. È il tempo del verbo usato che evidenzia il carattere doveroso dell’attività: “annota” si legge “deve annotare”; non vi è spazio per margini di scelta.

Né, in senso contrario, si può enfatizzare il rapporto tra la notitia criminis relativa all’ente e quella nei confronti della persona fisica: è l’art. 8, comma 1, del Decreto che impone il principio dell’autonomia della responsabilità della persona giuridica giungendo fino al caso limite in cui l’autore del reato presupposto non sia stato identificato o non sia imputabile; “se è ammesso procedere nei confronti dellente anche quando non sia stato individuato lautore materiale del reato-presupposto, a fortiori è consentita lannotazione dellente senza liscrizione della persona fisica, sia essa apicale o persona sottoposta allaltrui direzione o vigilanza[16].

Ultime, dirimenti, considerazioni sono idonee a sciogliere i dubbi circa l’asserita, necessaria completezza della notizia dell’illecito per potere-dovere procedere alla relativa annotazione attraverso una previa verifica dell’interesse o del vantaggio dell’ente. Ciò deve seguire e non precedere l’iscrizione perché riguarda il merito della responsabilità che, qualora non venisse ritenuta, darebbe luogo all’archiviazione: “se lente è responsabile solo ove siano integrati certi elementi costitutivi e/o assenti determinati fatti impeditivi, ciò non significa che, alle medesime condizioni, possa dirsi il pubblico ministero legittimato a procedere allannotazione a registro. Anzi, è proprio vero il contrario, giacché, qualora siano necessarie più approfondite verifiche sulla sussistenza della responsabilità dellente, si impone lapertura del procedimento, salvo sempre il possibile epilogo dellarchiviazione per infondatezza della notizia[17].

Superato – non senza fatica – il dubbio sulla doverosità dell’annotazione della notizia dell’illecito amministrativo a carico dell’ente, il successivo passaggio è l’analisi dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale nei confronti dell’ente.

Ancora una volta, in assenza di espresse diverse prescrizioni normative, dovrebbe valere la previsione dell’art. 34 d.lgs. 231: le disposizioni del codice di procedura penale sono “applicabili in quanto compatibili”.

Per l’epilogo delle indagini preliminari, in realtà, si rilevano delle distonie rispetto al codice di rito; in particolare, con riferimento all’archiviazione per la quale si è previsto un procedimento semplificato senza controllo del giudice (privilegiando, in questo caso, la legge sulla depenalizzazione e riproponendo lo schema dell’archiviazione motivata ai sensi dell’art. 18, comma 2, L. 689/1981)[18].

La Relazione al Decreto spiega la scelta: “Si tratta, infatti, di un illecito amministrativo, per il quale non sussiste l’esigenza di controllare il corretto esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero. È sembrata, pertanto, del tutto estranea a questa materia la procedura di archiviazione codicistica. Le esigenze di verifica dell’operato del pubblico ministero in relazione alla contestazione di queste violazioni sono assicurate attraverso un meccanismo meno articolato, che prevede una comunicazione al procuratore generale, il quale può sostituirsi al pubblico ministero e contestare direttamente l’illecito amministrativo”.

Ancora una volta si fronteggiano i due opposti orientamenti; gli argomenti utilizzati in tema di discrezionalità/doverosità dell’annotazione dell’illecito amministrativo ritornano e si adattano a quello dell’esercizio dell’azione penale.

La discussione si sposta, però, su un tema più sostanziale: anche prescindendo dall’applicabilità del precetto costituzionale introdotto dall’art. 112, si deve valutare se sussistono dei margini di scelta in capo al pubblico ministero sul procedere o meno nei confronti dell’ente.

È opportuno ricordare che, probabilmente, questo principio rappresentò uno dei più forti segnali di rottura con il previgente regime fascista: da un pubblico ministero rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria, posto sotto la direzione del ministro di grazia e giustizia[19], si arrivò a un suo autonomo inquadramento nell’ambito del potere giudiziario, con le stesse garanzie riconosciute ai magistrati[20].

L’obbligatorietà e l’indipendenza sono definite come due facce della stessa medaglia, nessuna giustificabile senza l’altra: la prima consentirebbe di evitare ogni forma di controllo e responsabilità sulle decisioni prese dall’organo pubblico in quanto non verrebbero effettuate scelte: si agirebbe sempre; la seconda escluderebbe che pressioni e costrizioni possano mai interferire con tale obbligo[21].

A ben vedere, però, in Italia, da più di un secolo a questa parte, si è sempre parlato della concreta vigenza del principio dell’obbligatorio esercizio dell’azione penale ancorché inespresso[22]; a una approfondita analisi della norma costituzionale, se ne potrebbe rilevare l’assoluta superfluità: se la funzione assegnata al pubblico ministero è quella di esercitare l’azione penale, in un ordinamento regolato dal principio di legalità, questa situazione integra, al contempo, un preciso dovere. Laddove sussistano i requisiti previsti dalla legge – nella specie la presenza di una notitia criminis – l’organo pubblico non può non esercitare l’azione che mira alla punizione del reo[23].

Sul piano del diritto penale sostanziale l’art. 25 comma 2 della Carta costituzionale assegna al principio di legalità un ruolo cardinale nel nostro sistema repressivo; ebbene, il medesimo principio viene trasfuso in campo processuale con l’art. 112: qualora l’organo statale deputato al perseguimento dei reati possa scegliere se esercitare o meno l’azione penale pur in presenza dei presupposti di legge, disapplicherebbe la normativa penale sostanziale[24].

Nel riportare la questione nell’alveo della responsabilità degli enti[25], si deve rilevare come la risposta espressa al problema non la si possa rinvenire nel testo del Decreto: non c’è norma che disciplini eventuali margini di discrezionalità nell’apprezzamento del pubblico ministero.  Allo stesso tempo, proprio nel testo del Decreto c’è un elemento che consente di ritenere operante anche nel procedimento a carico delle persone giuridiche l’obbligo di agire previsto nel procedimento penale nei confronti della persona fisica: l’obbligo di motivazione del decreto di archiviazione del pubblico ministero ai sensi dell’art. 58.

Questa previsione costituisce un baluardo inconciliabile con la discrezionalità nell’accertamento dell’illecito; il pubblico ministero deve esplicitare le ragioni del proprio convincimento e queste saranno comunque oggetto di controllo, sia pure di natura gerarchica, per verificarne razionalità e legittimità. In tale direzione, è stato affermato che “l’assenza di un controllo giurisdizionale non può far dimenticare che le determinazioni del pubblico ministero sono comunque soggette a verifica, sia pure da parte del procuratore generale presso la corte di appello, per cui l’esistenza di un controllo che può esitare nella contestazione dell’illecito riflette anch’essa una situazione di doverosità dell’accertamento. Ma, soprattutto, è la lettura coordinata delle disposizioni dell’art. 58 (in tema di archiviazione) e dell’art. 59 (in tema di contestazione della violazione amministrativa) che dà conto dell’inesistenza di alcuna discrezionalità. I precetti delineati dalle due norme sono infatti formulati in senso radicalmente alternativo: o il pubblico ministero procede alla contestazione dell’illecito, oppure deve dare motivato conto della determinazione di archiviare. Egli non è perciò libero di soprassedere tout court all’accertamento dell’illecito dell’ente[26].

In sostanza, le questioni teoriche di cui si tratta possono essere superate riconducendo il principio di obbligatorietà dell’azione di accertamento della responsabilità dell’ente a livello di normazione primaria[27].

Escludere la previsione costituzionale dell’obbligatorietà non autorizza a ritenere operante l’opposto principio della discrezionalità.

A questo punto, nel rispetto del principio di legalità e coerentemente con la disciplina dell’accertamento della responsabilità della persona fisica e di quella giuridica, si può cercare di cogliere le opportunità offerte dal sistema.

La corporate liability ha un nesso indissolubile con lindividuo al momento della sua genesi: il reato è presupposto fattuale, prima ancora che giuridico, dell’illecito dell’ente.

L’iter procedimentale che conduce il pubblico ministero fino alla decisione sulla sussistenza dei presupposti per l’esercizio dell’azione penale è autonomo in ragione delle peculiarità che connotano l’esplicarsi dell’illecito, la sua fenomenologia e le modalità di accertamento. Le determinazioni dell’organo requirente, allora, possono essere molteplici e frutto di diverse valutazioni.

È in questa fase delle indagini preliminari, dunque, che si può inserire un quid novi che racchiuda e contemperi i due obiettivi del d.lgs. 231/2001: da un lato, sanzionare la società che per un difetto di organizzazione ha consentito la commissione di un illecito penale; dall’altro lato, prevenire la possibilità che la criticità si possa ripetere.

Nel testo del Decreto si rinvengono sentieri normativi lungo i quali si può intraprendere il percorso della “prevenzione”. L’art. 49 ne rappresenta l’esempio più rilevante: nel caso di applicazione delle misure cautelari, se ne può disporre le sospensione nel caso in cui l’ente chieda di realizzare gli adempimenti cui la legge condiziona l’esclusione di sanzioni interdittive a norma dell’articolo 17 (che, alla lettera b, prevede l’eliminazione delle carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi).

In una recente pronuncia la Suprema Corte contribuisce ad aprire lo spiraglio per una maggiore applicazione dell’istituto: “Si osserva che nella procedura di sospensione delle misure cautelari - funzionale a recuperare l’ente alla legalità attraverso la tardiva adozione di un modello organizzativo virtuoso, in grado di ridurre il rischio di commissione dei reati della stessa specie di quello per cui si procede - non è prevista la possibilità per il giudice di concedere una proroga del termine entro cui la società indagata deve porre in essere gli adempimenti di cui all’art. 17 d.lgs. 231/2001; questo non vuol dire che il giudice non possa concedere una proroga, ma solo che la mancata concessione di un ulteriore termine non può considerarsi una violazione di legge, così come sostenuto nel ricorso. In altre parole, la scelta di prorogare il termine iniziale rientra nella discrezionalità del giudice e può essere legata ad una valutazione fattuale sui tempi necessari alla società per realizzare ovvero per completare le condotte riparatorie, ma si tratta in ogni caso di una scelta insindacabile, anche perché non espressamente prevista, sebbene non possa ritenersi esclusa”.

Si tratta di una presa di posizione, seppure incidentale, che valorizza la possibilità di “recupero” dell’ente all’interno del procedimento penale; nell’auspicio di una maggiore flessibilità applicativa, “accogliendo il suggerimento che arriva dalla Cassazione per un’applicazione della norma che ne esalti la finalità, si potrebbe pensare di esportare lo schema suggerito dall’art. 49 anche nell’ambito del procedimento principale di merito[28].

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[1] Intervento del Procuratore generale Giovanni Salvi nell’Assemblea generale della Corte sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2020, Roma, 29 gennaio 2021, pag. 165, in https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Relazione_PG.pdf.

[2] Cfr. https://www.procura.milano.giustizia.it/bilancio-sociale.html.

[3] In particolare, nella presa di posizione dell’U.C.P.I., tra le cause determinanti la mancata applicazione della normativa sulla responsabilità degli enti viene indicata l’identità tra la funzione di accusa e quella di decisione nel procedimento penale all’ente, con un pubblico ministero che si sostituisce al giudice (e, talvolta, al legislatore) ed un giudice che si traveste da pubblico accusatore: “La causa dell’atteggiamento di “assistenza biunivoca” intercorrente tra magistrati dell’accusa e della decisione nell’ambito del procedimento penale a carico dell’ente è, ineluttabilmente, destinata a rintracciarsi «nella figura stessa di una magistratura “onnivora” che assimila giudici e pubblici ministeri. […] Che tiene innaturalmente unite, in una cultura ibrida e ancipite, l’arbitro e il giocatore». Ciò che difetta è, cioè, «una necessaria “inimicizia” intesa in senso politico, come condizione di un indispensabile conflitto, di un fisiologico antagonismo fra poteri, volta all’efficienza e all’equilibrio di ogni sistema ordinamentale e istituzionale democratico, complesso e aperto». Quella «“inimicizia” […] che fa sì che un potere controlli l’altro e che il titolare di un potere, non essendo mosso da alcun sentimento di “amicizia” ordinamentale nei confronti di un altro soggetto, possa sempre diffidarne, verificandone i metodi, falsificandone i risultati, non condividendone mai né gli scopi, né le passioni»”. V. d’Acquarone, R. Roscini-Vitali, La separazione delle carriere e la modulazione dell’obbligo di esercitare l’azione penale: il punto di vista dell’osservatorio D.Lgs. 231/2001, in https://dirittodidifesa.eu/la-separazione-delle-carriere-e-la-modulazione-dellobbligo-di-esercitare-lazione penale-il-punto-di-vista-dellosservatorio-d-lgs-231-2001/#_ftnref63.

[4] F. Ruggieri, Reati nell’attività imprenditoriale e logica negoziale. Procedimenti per reati d’impresa a carico di persone ed enti tra sinergie e conflitti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, pag. 927.

[5] V. Relazione ministeriale al d. lgs. 231/2001, pag. 1, reperibile su https://www.aodv231.it/include/download.php?id=1283

[6] Cass. pen., SS.UU., 18 settembre 2014, n. 38343 disponibile su https://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=11831:cassazione-penale-sez-unite-18-settembre-2014-n-38343-thyssenkrupp-le-condanne-inflitte-andranno-ridefinite-ma-non-aumentate&catid=17&Itemid=138.

[7] Cass. pen., SS.UU., cit. pag. 184, punto 62.

[8] Per un approfondimento sulla notizia di reato, i suoi requisiti e le problematiche sottese al regime della iscrizione cfr., in generale, G. Aricò, voce Notizia di reato, in Enc. dir., vol. XVIII, Giuffrè, 1978; L. Carli, La “notitia criminis” e la sua iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p., in Dir. pen. proc., 1995; A. Marandola, I registri del pubblico ministero tra notizia di reato ed effetti procedimentali, Cedam, 2002; Id., Il danno da iscrizione della notizia di reato, in Giur. it., 2016, pp. 724-725F. Cassibba, Perduranti equivoci su notizia di reato e pseudo-notizia, in Cass. pen., 2020, pp. 2799 ss.; G. Schena, La registrazione della notizia di reato alla luce della circolare Pignatone, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, pp. 791 ss.

[9] G. Di Federico, L’indipendenza del pubblico ministero e il principio democratico della responsabilità in Italia: l'analisi di un caso deviante in prospettiva comparata, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, pag. 230 ss.

[10] G. Di Federico, L’indipendenza del pubblico ministero cit., p. 230.

[11] R.A. Ruggiero, Scelte discrezionali del pubblico ministero e ruolo dei modelli organizzativi nell’azione contro gli enti, Giappichelli, 2018, p. 4.

[12] Sul problema della obbligatorietà dell’azione penale in relazione alle scelte contingenti del pubblico ministero collocate in via preliminare nel corso delle indagini e, ancora prima, nel momento della iscrizione della notizia di reato, cfr. F. Ruggieri, Azione penale, Enc. dir., Annali III, Giuffrè, 2010, pp. 129 ss.; N. Galantini, Il principio di obbligatorietà dell’azione penale tra interesse alla persecuzione penale e interesse all’efficienza giudiziaria, in Dir. pen. cont. web., 23 settembre 2019; O. Dominioni, Azione obbligatoria penale e efficienza giudiziaria, in Dir. pen. proc., 2020, pp. 869-878; C. Valentini. La completezza delle indagini, tra obbligo costituzionale e (costanti) elusioni della prassi, in Arch. pen., 2019, pp. 749-769.

[13] Per una esaustiva analisi delle posizioni della dottrina e delle motivazioni sottostanti, cfr. V. d’Acquarone, R. Roscini-Vitali, Responsabilità penale dell’ente: tra mito e realtà, https://www.filodiritto.com/responsabilita-penale-dellente-tra-mito-e-realta

[14] Sul punto cfr. G. Ruta, L’attività d’indagine e i criteri di accertamento della responsabilità dell’ente, in Rivista 231, fasc. 3, 2017, pag. 144: “il rispetto di un basilare principio di uguaglianza e di imparzialità dei pubblici poteri fa obbligo al Pubblico Ministero della annotazione dell’illecito amministrativo e delle conseguenti iniziative punitive... non potendosi rimettere ad una scelta discrezionale del Pubblico Ministero se assumere o meno le iniziative connesse ad un regime di responsabilità dagli effetti anche molto gravosi”.

[15] V. D’Acquarone e R. Roscini-Vitali, Esigenze e prospettive di modulazione dell’obbligatorietà dell’azione penale nel procedimento de societate, in Resp. amm. soc. enti, n. 4, 2018, pp. 115 ss.

[16] V. d’Acquarone, R. Roscini-Vitali, Responsabilità penale dell’ente: tra mito e realtà, cit. Sull’argomento, v., altresì, M. A. Bartolucci, L’art. 8 d. lgs. 231/2001 nel triangolo di Penrose. Tra minimizzazione del rischio-reato d’impresa e ‘nuove forme’ di colpevolezza, in Dir. pen. cont. web., 9 gennaio 2017. Interessante, perché nella sua posizione divergente si muove verso la visione della difesa dell’ente nel processo, la riflessione di M. Bellacosa, in Commento all’art. 8 d. lgs. 231/2001, in M. Levis - A. Perini (diretto da), Zanichelli, 2014, pp. 216 ss: può darsi luogo all’applicazione dell’art. 8 del d. lgs. 231/2001 solo in presenza di una imputazione soggettivamente alternativa di responsabilità in capo ad un soggetto incardinato nell’ente “perché, per postularsi la responsabilità dell’ente occorre: i) la realizzazione di un reato presupposto e la prova dello stesso rispetto a tutti gli elementi costitutivi (elemento oggettivo e colpevolezza); ii) l’identificazione della appartenenza dell’autore del reato alla categoria degli “apicali” (art. 6) o a quella dei soggetti “sottoposti ad altrui direzione o vigilanza” (art. 7). Senza la verifica sulla riferibilità del reato ad un soggetto appartenente quantomeno ad una delle predette categorie non potrebbe infatti […] darsi luogo al giudizio di responsabilità a carico dell’ente (come potrebbe infatti l’ente, in chiave difensiva, sostenere che vi sia stata una fraudolenta elusione del modello organizzativo, se neppure si sa chi ha commesso il fatto?). Da qui, dunque, la necessità di evitare interpretazioni estensive, che rischierebbero di svincolare la responsabilità dell’ente da quella dell’autore del reato presupposto”.  

[17] In questo senso cfr. L. Padula, L'annotazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato, in Resp. amm. soc. enti, n. 1, 2010, pag. 24.

[18] Si torna, invece, sulla strada del processo penale e del codice di rito nel caso in cui il pubblico ministero non debba procedere ad archiviazione: l'art. 59 del Decreto prevede che si formalizzi la contestazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato all'ente attraverso l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto che si addebita, con l'indicazione del reato dal quale l'illecito stesso dipende e delle fonti di prova a carico così definendo confini dell'accertamento del giudice.

[19] Così disponeva l’art. 77 dell’ordinamento giudiziario del 1923.

[20] L’art. 107 della Costituzione, al comma IV, dispone che “il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”.

[21] Di Federico, Il pubblico ministero: indipendenza, responsabilità, carriera separata, in Ind. pen., 1995, pag. 407.

[22] Tra i primi autorevoli autori ad affrontare il tema, De Marsico, Lezioni di diritto processuale penale, III edizione, Jovene, 1952, pag. 74. Per un esame “contemporaneo” del sempre attuale dilemma cfr. A. U. Palma, L’obbligo di esercizio dell’azione penale, carico giudiziario ed efficientamento di sistema: una prospettiva rispettosa del vincolo costituzionale, in Arch. pen., n. 1, 2021.

[23] G. Giostra, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e questioni interpretative, II edizione, Giappichelli, 1994, pag. 8, spiega il senso dell’art. 112 della Costituzione in questo modo: “[la norma] non dispone che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare sempre l’azione penale, bensì che il pubblico ministero ha sempre l’obbligo (e non la facoltà) di esercitare l’azione penale: sottinteso, quando ne ricorrono i presupposti”.

[24] C. Taormina, <<Vecchio e nuovo nella teoria dell’azione penale>> alle soglie del nuovo codice di procedura penale, Giust. pen., 1988, III, c. 147; F. Caprioli, L’archiviazione, Jovene, 1994, pag. 218.

[25] R. A. Ruggiero, Scelte discrezionali del pubblico ministero e ruolo dei modelli organizzativi nell’azione contro gli enti, cit., pag. 77, affronta il tema in maniera diretta: “A ben vedere, il punto controverso attiene proprio all’inquadramento dell’azione di responsabilità amministrativa da reato e alla possibilità di assimilarla all’azione penale. Bisogna, dunque, prima di tutto indagare se siamo di fronte ad un’azione penale...”.

[26] G. De Falco, L’annotazione della notizia dell’illecito amministrativo dell’ente: questioni teoriche e soluzioni pratiche, in Resp. amm. soc. enti, 2013, n. 4, pag. 102.

[27] Così P. Ielo, Le indagini preliminari nel procedimento di accertamento della responsabilità degli enti, in Resp. amm. soc. enti, 2012, 2, pag. 2: “Orbene, l'analisi della disciplina di diritto speciale che regola il procedimento di accertamento della responsabilità degli enti induce a ritenere che a livello di legge ordinaria è incardinato il principio di obbligatorietà della relativa azione obbligatoria ma non discende da costituzione”.

[28] Anche senza approfondire la tematica delle misure cautelari che coinvolge gli enti, R. A. Ruggiero, Scelte discrezionali del pubblico ministero e ruolo dei modelli organizzativi nell’azione contro gli enti, cit., pag. 170, analizza l’art. 49 come modello per una possibile riforma nell’ottica di recupero della legalità all’interno dell’ente.