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Troppo giusto quindi sbagliato

Come nasce un romanzo: la storia di questa storia

Genova, Acquario
Ph. Simona Balestra / Genova, Acquario

«Signor presidente, signori giudici, noi non siamo qui per negare che la mia cliente, Linda Giraudo, abbia ucciso suo marito Enzo Solimano. La signora Giraudo non lo ha mai negato. Siamo qui però per dimostrare che ha commesso quell’atto per legittima difesa. Per nessun altro motivo. Solo per legittima difesa. Dimostreremo, infatti, che la signora Giraudo era vittima da anni delle violenze di suo marito, violenze fisiche e psicologiche, che l’hanno costretta più volte a recarsi in ospedale per essere curata. Ascolteremo il medico del Pronto soccorso, dottor Fausto Pivetti, che l’ha assistita e a cui lei ha spiegato la ragione dei suoi lividi, e per questo chiediamo alla corte di ammettere come prova i referti delle lesioni. Ascolteremo la vicina di casa, la signora Olga Laurenti, che accompagnò Linda in ospedale una sera in cui lei era stata massacrata da suo marito, finendo per essere incapace di muoversi da sola. Ascolteremo il vicebrigadiere Luigi Bracco, uno dei carabinieri che ha ricevuto in caserma la signora Giraudo quando vi si era recata tre anni fa. E ascolteremo il dottor Colombo, psichiatra, che ci illustrerà il drammatico stato psicologico in cui versava la mia cliente al momento dei fatti. Dimostreremo che per anni la signora Giraudo ha sopportato l’ingiustificata ferocia di suo marito, come purtroppo accade fin troppo spesso, senza la capacità di ribellarsi. Dimostreremo che la signora Giraudo ha ucciso suo marito durante una furiosa aggressione che lui aveva iniziato contro di lei per un futile motivo, durante la quale l’aveva picchiata costringendola a fuggire da una stanza all’altra della casa per evitarlo. Vi mostreremo, signori giudici, le foto del loro appartamento messo a soqquadro dal signor Solimano durante questa aggressione e le foto dei lividi che aveva la mia cliente al momento dell’arresto. Infine dimostreremo come la signora Giraudo, trovatasi a un certo punto in cucina, per difendersi abbia preso il primo oggetto che ha trovato, un coltello, e l’abbia involontariamente conficcato nell’addome del marito mentre le si avvicinava per aggredirla di nuovo. La signora Giraudo ha ucciso sì suo marito, ma solo per legittima difesa. Se non l’avesse fatto, da quell’appartamento sarebbe uscito il suo cadavere. Grazie.» [1]

 

Con questa introduzione – o, più tecnicamente, con queste richieste di prova – l’avvocata Vittoria Ferri spiega alla Corte d’Assise di Torino in che modo intende provare che la sua cliente si è difesa dall’ennesima aggressione violenta di suo marito e che per questo non merita di essere condannata per omicidio. E il processo per omicidio nei confronti di Linda Giraudo è ciò che racconta il mio romanzo “Troppo giusto quindi sbagliato”.

Piero Calamandrei scrisse: “Il giorno che arriverà su questa Terra il marziano, mandato in fulminea esplorazione di un’ora a vedere come vanno le cose quaggiù, che cosa gli mostrerei per fargli comprendere il grado di civiltà raggiunto dal nostro pianeta? Non certamente un apparecchio di televisione, né una lambretta, né un aeroporto, né una bomba atomica; ma piuttosto lo inviterò ad assistere con me, in quell’ora, a un’udienza giudiziaria” [2]. Perché da come viene amministrata la giustizia, si può capire in effetti molto del Paese in cui essa vive. Nel bene e nel male.

Da alcuni anni studio e scrivo di violenza maschile contro le donne [3], e mi sono resa conto che esistono modi diversi e diversamente efficaci per spiegare le ragioni per cui si tratta di un problema che ci riguarda tutte e tutti, e che, soprattutto, si tratta di una grave patologia sociale – e non di pazzia individuale – che potrà trovare la sua soluzione non nelle leggi ma nella cultura, in una profonda rivoluzione culturale che sovrascriva tutto ciò con cui siamo cresciute e cresciuti, tutto ciò che fino ad oggi abbiamo dato per scontato sui ruoli di uomini e donne, su cosa significa essere donna nella nostra società. Ognuna utilizza le armi che ha a propria disposizione per combattere questa battaglia: la mia è la scrittura.

La letteratura ha il potere di raccontare e denunciare la realtà in modo spesso più forte rispetto alla scrittura saggistica o giornalistica, perché evoca scene e persone in cui ci possiamo identificare. Ed è per questa ragione che con il mio romanzo “Troppo giusto quindi sbagliato” ho voluto raccontare il rapporto tra violenza maschile e sistema giudiziario, tra violenza maschile e società: attraverso gli occhi delle due donne protagoniste chi legge può percepire e quindi – spero – riflettere sulle ambiguità sociali, e di conseguenza giudiziarie, con cui conviviamo.

Vittoria Ferri è nata con la toga sulle spalle. Figlia del noto avvocato torinese Ottavio Ferri, aveva il destino già scritto nel nome, eppure, dopo più di dieci anni di professione, ancora non si sente completamente a suo agio in questo ruolo. Linda Giraudo è la moglie di un ricco e rispettato imprenditore, che però a casa ha l’abitudine di picchiare e umiliare la compagna della sua vita. Due donne diverse, con due storie distanti, eppure vicine. Si erano conosciute all’università, ma poi Linda si era ritirata per sposarsi. Dopo quindici anni Vittoria riceve la telefonata di un poliziotto che le chiede di intervenire sulla scena di un crimine nel quale è coinvolta la sua vecchia amica: suo marito è morto, pugnalato in casa; Linda è accusata del suo omicidio, ma lei sostiene di aver agito solo per legittima difesa, per salvarsi dalla violenza di suo marito. Vittoria non esita a difenderla, ma affrontare un processo penale in cui la rispettabilità pubblica del defunto marito viene messa in discussione dai terribili racconti di violenze quotidiane subite dalla moglie significa affrontare una difficile guerra contro i pregiudizi più radicati della nostra società.

Perché la giustizia non sempre è davvero giusta.

I giudici – per fortuna – non sono la giustizia” scrivevano i magistrati Gian Carlo Caselli e Livio Pepino. “Sono più modestamente, un campione di società chiamato a rendere un servizio (e il campione riproduce ciò che nella società si agita: bravura e, a fianco, insufficienza e pavidità, equilibrio e arroganza e via seguitando)[4]. Ma soprattutto quel campione riproduce inevitabilmente gli stereotipi e i pregiudizi che pervadono la società, in particolare su temi complessi come la violenza di genere. Si commette un grave errore pensando che, in quanto persone di cultura ed esperienza, si è immuni dai pregiudizi, perché basta vivere nel mondo per assorbirli inconsapevolmente. Ed è molto più facile assorbirli che liberarsene, non basta una dose di vaccino. E neanche due. Per liberarsi dai millenari pregiudizi con cui siamo cresciute e cresciuti dandoli per scontati è necessaria una profonda presa di coscienza ed un lavoro quotidiano e costante molto faticoso, che solo poche persone sono disposte a compiere. Perché è più facile continuare a pensare che il vicino che ha ucciso sua moglie è pazzo o che la donna che denuncia una violenza è bugiarda; è più facile pensare che il problema sia sempre di qualcun altro, di pochi diversi da noi. Ma in realtà questo problema riguarda tutte e tutti, e finché non si accetterà tale verità non si potrà fare nessun passo verso la soluzione.

Ed è qui che la narrativa diventa un’arma con cui si può cercare di illuminare gli angoli più impolverati della nostra mente, quelli che abbiamo lasciato a sé stessi nella convinzione che non c’era bisogno di curarcene. La letteratura può avere un grande ruolo, può costituire un potente megafono che dia voce alle donne, alla loro storia e al loro futuro, alle loro speranze. Ma che dia voce anche agli uomini, a quegli uomini consapevoli che la libertà delle donne non toglie nulla alla loro libertà, ma che può consentire l’inizio di una nuova forma di convivenza civile, libera e dignitosa. Ed è da questa convinzione che nasce “Troppo giusto quindi sbagliato”: raccontare serve a spiegare.

E perché raccontare un processo? Le librerie sono piene di gialli, di investigazioni, di ricerche del colpevole perfetto e del delitto perfetto; perché raccontare un processo in cui viene dichiarato fin dall’inizio chi ha ucciso? Perché così, al posto di concentrarsi sulla ricerca di un colpevole, ci si dovrà concentrare su come quella colpevole viene giudicata: per quale colpa viene giudicata, con quali domande, con quali pregiudizi, fino a domandarsi se sia giusto giudicarla.

Siamo abituati al sensazionalismo della cronaca giornalistica, che continuamente insegue le notizie con un linguaggio semplice, diretto ed emotivo, proponendo l’apparenza come certezza e le ipotesi come prove. Fino a pochi anni fa le notizie duravano un giorno, oggi neanche più quel tempo di vita è concesso. I processi, invece, durano molto di più e spesso le sentenze arrivano quando l’opinione pubblica ha già archiviato quel fatto in base alle prime impressioni. Il bene più prezioso che oggi sembra mancare all’umanità è il tempo per riflettere. Così la società, satura di notizie ma priva di un’adeguata preparazione critica, si affida alla chiave di lettura più semplicistica e soprattutto più coerente con le proprie aspettative, soddisfacendo una fondamentale esigenza di rassicurazione e rifiutando la banalità del male con cui conviviamo. E così nell’aula mediatica, trasformatasi in foro alternativo, lui continua ad essere pazzo e lei continua ad essere bugiarda.

Perché, come ci ricorda la giudice Paola Di Nicola Travaglini, “il pregiudizio contro le donne ha la prerogativa di appartenere all’intera umanità, che si ritrova ogni giorno a condividere, al di là dei confini di spazio e tempo, un’identica impari struttura di relazione tra uomini e donne fondata su di esso[5].

Io ho voluto raccontare una storia verosimile, un processo verosimile (talmente verosimile che poi mi è capitato di assistere ad uno che sembrava ricalcare il mio romanzo) che fosse in grado di spiegare quanto sia difficile per una donna vittima di violenze rivolgersi alla giustizia, e, al contempo, quanto sia difficile per la giustizia accogliere e comprendere quella donna. Ho voluto raccontare una storia che fosse in grado di mettere in dubbio i nostri preconcetti di giusto e sbagliato, le nostre convinzioni su chi sia il cattivo da cui difenderci, sui diritti che diamo per scontati e che invece vanno continuamente protetti. Ho voluto creare un personaggio – l’avvocata Vittoria Ferri – attraverso cui dar voce alle mie riflessioni sul sistema giudiziario e sul contesto sociale: con Vittoria condivido i miei pensieri, ma nulla della sua vita corrisponde alla mia, a partire dal fatto che, seppur la mia prima laurea sia in giurisprudenza, non ho mai voluto intraprendere la strada dell’avvocatura. Mi diverto a praticare quella professione solo scrivendone. E mi è piaciuto talmente tanto creare il personaggio di Vittoria Ferri che ho deciso di trarne una serie, una versione femminile dell’avvocato Guerrieri di Gianrico Carofiglio; infatti proprio ora sto lavorando alla seconda puntata delle sue avventure.

È stata l’esperienza a convincermi che l’unico modo accettabile per parlare di giustizia è farlo in termini di ‘aspirazione’. Un’aspirazione nel cui nome, nel corso dei secoli, donne e uomini colpevoli di sognare un mondo migliore hanno conosciuto l’ostracismo, la repressione, la tortura, il martirio[6].

Ed è forse sognando ed augurando alle bambine un mondo migliore che ho scelto di scrivere, non solo perché quando scrivo sento che sto facendo ciò per cui sono nata – come diceva la poetessa statunitense Anne Sexton -, non solo perché per me ormai la scrittura è una malattia cronica ed incurabile, ma perché ho scelto la scrittura come arma per combattere, schierandomi dalla parte della libertà e di quell’aspirazione alla giustizia.

 

[1] M. Dell’Anno, Troppo giusto quindi sbagliato, Le Mezzelane, 2019, pp. 60-61

[2] P. Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, Ponte alle grazie, [1935] 1999, p. 90

[3] Sul tema: M. Dell’Anno, Se questo è amore. La violenza maschile contro le donne nel contesto di una relazione intima, LuoghInteriori, 2019; in pubblicazione Parole e pregiudizi. Il linguaggio dei giornali italiani nei casi di femminicidio, LuoghInteriori, 2021.

[4] G.C. Caselli, L. Pepino, A un cittadino che non crede nella giustizia, Laterza, 2005, p. 99

[5] P. Di Nicola, La mia parola contro la sua, HarperCollins, 2018, p. 8

[6] G. De Cataldo, In giustizia, Rizzoli, 2011, pp.7-8