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Venture Capital: l’Italia ha bisogno di una cultura del rischio

Crespi d'Adda, Lombardia, settembre 2019
Ph. Fulvia Tilli / Crespi d'Adda, Lombardia, settembre 2019

Il Venture Capital, inteso come l’insieme degli investimenti per supportare lo sviluppo di attività innovative ad elevato potenziale di crescita, è da sempre originato da una spinta pubblica. Sono stati i governi nazionali degli Stati Uniti prima, Regno Unito, Israele e Francia poi, a dedicare ingenti fondi e politiche fiscali per far crescere questa tipologia di investimenti caratterizzati da un elevato rischio di fallimento.

Gli investitori, persone fisiche e fondi privati, sono tendenzialmente avversi al rischio e devono essere davvero allettati da rendimenti stratosferici per allocare una parte dei loro capitali nel mondo del venture capital. Tuttavia, la sola prospettiva di ritorno non sempre è sufficiente. Ormai è consolidato che serva l’intervento dei legislatori per smuovere questo settore.

La normativa italiana si è mossa in ritardo rispetto ad altri contesti.

La prima azione concreta può essere identificata con il decreto-legge 179/2012 (convertito in legge nel Dicembre 2012) con cui ci dotavamo di una normativa organica volta a favorire la costituzione e gli investimenti in startup, in particolare l’istituzione della sezione speciale delle startup innovative nel Registro delle Imprese. In questi anni poi ci sono state altre azioni positive, soprattutto a favore degli investitori che oggi possono beneficiare di una detrazione fiscale (deduzione per le persone giuridiche) pari al 30% del capitale investito.

Queste circostanze favorevoli hanno portato le poche decine di milioni investite nei primi anni a raggiungere gli oltre 500 milioni di euro investiti in startup nel 2018.

Da qui nasce una lecita osservazione: gli investitori sono più stimolati dall’opportunità di un potenziale elevato ritorno economico o dall’immediato beneficio fiscale? Cioè si investe perché davvero si crede nel team e nel progetto o perché si pagheranno meno imposte?

Quello che non dovrebbe nemmeno essere un dilemma per un business angel, molto spesso invece diventa una variabile nelle decisioni e talvolta anche una discriminante. Non intendo assolutamente dire che gli incentivi fiscali siano una politica errata, anzi, sono certamente da considerarsi come l’input per far confluire ingenti capitali in questo settore. Dico solo che il business angel degno di tale nome investe dove ha un rapporto di fiducia con il team, può apportare un contributo concreto al business e spera di veder moltiplicato il suo capitale con il significativo incremento di valore della propria partecipazione. La propensione al rischio è intrinseca nella sua natura.

I benefici fiscali sono utili ma non devono essere la discriminante per cui scegliere un investimento o un altro. In tal caso, è bene qualificarsi semplicemente come investitore finanziario.

Ci stiamo perdendo la cultura dell’imprenditorialità e della propensione al rischio. Facendo leva solo su aiuti o spinte esterne rischiamo di perderci l’imprenditorialità basata sull’audacia di intraprendere un’avventura aziendale fiduciosi delle proprie competenze e delle proprie capacità. Specularmente la propensione al rischio degli investitori deve essere guidata dall’istinto e dalla fiducia rivolta all’imprenditore, non solo da meri calcoli di vantaggi fiscali o di metriche prospettiche, soprattutto perché dato lo stadio di sviluppo di questa tipologia di società tali proiezioni risultano alquanto poco significative.

Le politiche nazionali si stanno muovendo a supporto di questo ma serve una forte inversione di mentalità da parte di attori chiave come:

1. imprenditori di successo con grandi storie (e disponibilità) alle spalle che si impegnino a supportare una nuova generazione di imprenditori affamati di gloria;

2. aziende di medie a grandi dimensioni che si affaccino su questo mondo per essere contaminate, allaccino relazioni con le startup e, perché no, acquisiscano le realtà più promettenti.

Esempi concreti di imprenditori di successo che hanno dato un grosso give back al settore sono ad esempio i fondatori di Dada, Alessandro Sordi, Paolo Barberis e Jacopo Marello, che dopo aver creato la società leader nei servizi di dominio e hosting a livello europeo e quotata in borsa nel 2000, hanno poi successivamente costituito uno dei principali acceleratori di startup in Italia ed Europa. Nana Bianca, acceleratore fiorentino, è appunto la creatura dei 3 founder di Dada, la quale raccoglie i frutti della loro esperienza ed i capitali generati, offrendo uno spazio dinamico per il supporto alla crescita delle società e degli innovatori in ambito digitale di domani.

Dall’altro lato ci sono anche aziende che hanno colto al volo questo trend dell’innovazione diffusa e hanno aperto le loro porte ad influenze esterne. Da semplici collaborazioni a vere e proprie integrazioni societarie nei propri complessi organizzativi.

Un esempio è dato da Var Groupazienda specializzata nei servizi per l’innovazione ICT delle imprese italiane, con 10.000 clienti e 1.600 collaboratori su tutto il territorio nazionale. Questa eccellenza italiana ha già incluso 5 startup all’interno del proprio gruppo dando loro supporto operativo e accesso alla vasta rete di clienti già presenti. Dall’altra parte Var Group mira ad accrescere il proprio know how in ambito digital transformation e big data ponendosi sul mercato come un operatore all’avanguardia, aggiornato sui trend recenti e in grado di offrire soluzioni omnicomprensive.

Il mondo del venture è la nuova fonte di creazione di imprenditori ed innovatori, non spegniamo l’appetito per la creatività e la creazione di nuove imprese di successo. Non ci dobbiamo però limitare ad accompagnare i nuovi visionari nei primi passi di vita, dobbiamo supportarli fino a che non saranno autonomi e capaci di creare un impatto economico per l’intero paese.

Se è vero che le prime fasi di vita sono le più difficili e richiedono una maggiore propensione al rischio degli investitori data l’incertezza sulla sopravvivenza dell’azienda, le successive non sono da meno. La frenetica necessità di nuovi capitali, la pressante competizione che tenta di tarpare le ali agli astri nascenti, richiedono sempre maggiori risorse per supportare business che mantengono un rischio intrinseco elevato legato alla novità della soluzione proposta.

Se sui primi passi adesso ci sono sempre più soggetti pronti ad affiancare i nuovi imprenditori, nel prosieguo della vita della startup gli interlocutori si fanno più radi, poiché i classici investitori in private equity non hanno il tatto e le conoscenze per valutare con idonei criteri queste realtà, i fondi di venture capital hanno disponibilità limitate per tenere il passo delle risorse consumate dalle startup partite a razzo orientate a conquistare lo spazio e le aziende non hanno ancora ben chiaro se considerarle come un rischio od un’opportunità, nel dubbio le acquistano precocemente o stanno ad attendere alla finestra finché il razzo non esaurisce il carburante e si schianta a terra.

Questo tema è confermato anche dai numeri.

Nel periodo 2014 / 2018 la dimensione dei round è progressivamente cresciuta in tutti i paesi europei tenendo il passo dell’evolversi dei relativi ecosistemi. Quelli che vengono definiti round “Series A”, ovvero investimenti in una fase di crescita della startup che già si è posta sul mercato e inizia a macinare delle metriche, sono passati dai €4.0/7.0m ai €7.0/15.0m, legati al maggior fabbisogno di risorse e soprattutto al maggior respiro che si vuol dare alle società in forte espansione e che non possono disperdere eccessive risorse in una continua ricerca di capitali.

Ebbene, in Italia il valore medio di tali round si assesta ancora nel range €1.5/4.0m con un’impercettibile crescita rispetto agli anni precedenti (fonte analisi DealRoom e Medium).

Il problema vero non è nella mancanza di capacità o di opportunità, purtroppo è spesso dovuto ad una carenza di fiducia nello spirito imprenditoriale e ad una affievolita cultura del rischio.

Basti pensare ad un dato sull’imprenditorialità che ritengo sconvolgente: il rapporto globale sull’imprenditorialità 2017/2018 realizzato dal consorzio GEM (Global Entrepreneurship Monitor) tramite interviste in 54 paesi mira a valutare l’Entrepreneurial Spirit Index (indice di spirito imprenditoriale), ovvero la propensione e l’opportunità di creare impresa nei vari paesi in base alla percezione dei propri abitanti.

In particolare, l’indagine è svolta tramite interviste a campione nei vari paesi ponendo poche semplici domande sulla consapevolezza del tessuto imprenditoriale del proprio paese e sulla percezione della concreta opportunità di poter creare e portare al successo un’iniziativa imprenditoriale. Bene, l’Italia in questa classifica si pone al 51° posto su 54. L’8ͣ più grande economia del mondo apparentemente non è un buon luogo per fare impresa.

Si classificano invece sul podio rispettivamente Arabia Saudita, Libano ed Indonesia. Quello che è strabiliante non è il ranking, ma il fatto che non basandosi su dati quantitativi ma solo sulla percezione dei cittadini dei diversi Paesi, l’indice evidenzia che siamo noi stessi a criticarci e a penalizzare l’immagine dell’intero assetto imprenditoriale del nostro paese.

Abbiamo i talenti per sviluppare una nuova generazione di grandi imprenditori innovatori e le risorse per farli affermare e diventare globali.

Prima di correre il rischio di essere travolti dagli altri contesti nazionali più attenti all’innovazione, dobbiamo riaccendere la fiamma della cultura dell’imprenditorialità e completare la filiera del supporto alle imprese in ogni fase del loro ciclo di vita.