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Verso una nuova concenzione del farmaco nel contesto delle gare pubbliche

Verso una nuova concenzione del farmaco nel contesto delle gare pubbliche
Verso una nuova concenzione del farmaco nel contesto delle gare pubbliche

“Il farmaco se studiato attraverso le varie fase della sua vita sociale viene denaturalizzato, viene cioè sottratto all’ordine delle cose percepite come naturali per entrare nel dominio delle transazioni sociali, in altri termini significa che ciò che avviene intorno al farmaco non viene dato per scontato. La produzione, la prescrizione, l’assunzione non possono essere visti come momenti avulsi dal contesto sociale. La stessa ricerca farmacologica non può essere ridotta ai suoi aspetti di investigazione per la produzione di nuovi principi attivi[1]”.

In un opuscolo redatto nel 2014 dall’Azienda Servizi Sanitari Triestina insieme alla Società Italiana di Scienze Farmaceutiche e ad altri enti del settore, si affermava: “il farmaco non è un bene di consumo, ma se usato correttamente e quando necessario può rappresentare una risorsa per la salute”. Si trattava di un opuscolo ben fatto perchè in esso venivano sintetizzate tutte le peculiarità del farmaco, dai requisiti di sicurezza, efficacia e qualità, alle criticità legate ad un uso non corretto, nonchè - soprattutto - il fatto che il farmaco è un bene di salute e non una merce qualsiasi.

La consapevolezza che la gestione del farmaco avesse bisogno di una specifica ed attenta regolamentazione risale ai primissimi anni ’90, quando la Direttiva 92/28/CEE regolamentò per la primissima volta la pubblicità dei medicinali per uso umano, sottraendo dalla pubblicità al pubblico tutti i medicinali soggetti a prescrizione medica.

La regolamentazione che si sviluppò successivamente non ha radicalmente modificato quei principi, poichè le novità introdotte dalla Direttiva 2001/83/CE (recepita col Decreto Legislativo n. 219/06, ossia il “Codice dei Medicinali”) muovevano da una progressiva accentuazione delle limitazioni operative alle attività di pomozione o pubblicità dei medicinali, sebbene - nel contempo - affrancavano il concetto di promozione/pubblicità del farmaco da una visione negativa verso una valorizzazione del ruolo dell’informazione medico scientifica.

Tuttavia, l’evolversi della scienza e la complessità crescente che ormai caratterizza le terapie farmacologiche soprattutto quelle di nuova concezione, già a partire dai primi anni successivi all’entrata in vigore del Codice dei Medicinali, hanno messo in evidenza diverse esigenze fenomenologiche, molte delle quali ancora oggi si discute approfonditamente. Tra queste la modifica alle norme in materia di farmacovigilanza, che hanno allargato notevolmente la tipologia di eventi che devono essere registrati in quanto connessi alla somministrazione del farmaco, lo sviluppo dei farmaci equivalenti (o generici), la fissazione di un prezzo di riferimento ai fini del rimborso da parte del Servizio Sanitario Nazionale, il fenomeno delle resistenze batteriche legate ad un uso non conforme dei farmaci antibiotici, una maggiore partecipazione del paziente alle scelte delle terapie farmacologiche, l’allargamento dei programmi di sperimentazione clinica, la regionalizzazione dell’assistenza sanitaria in Italia, la centralizzazione delle procedure di autorizzazione all’immissione in commercio a livello europeo, la compromissione - ai fini regolatori - dei diritti di proprietà industriale derivanti dal brevetto, fino all’avvento dei farmaci biologici ed all’attuale kermesse giurisprudenziale sulla loro sostituibilità coi rispettivi biosimilari.

Molti di questi fenomeni sono stati generati o sono stati caratterizzati, da una regolamentazione che ha inciso con netta prevalenza sugli aspetti economici, a corredo peraltro di una governance del sistema farmaceutico fortemente limitativa, in quanto basata sul principio del ribaltamento sulle imprese del farmaco dell’over speding della spesa farmaceutica, rispetto al budget stanziato dallo Stato col Fondo Sanitario Nazionale.

In altri termini, sebbene vi sia una forte consapevolezza del fatto che la gran parte dei provvedimenti normativi nel settore farmaceutico hanno avuto l’effetto di comprimere il settore, poiché hanno inciso in netta prevalenza sul prezzo del farmaco, non è ancora inziata a maturare una visione strategica di cosa sia il farmaco e di quali siano i benefici correlati al suo impiego.

In questo senso non meraviglia notare che anche l’Health Tecnology Assessment, di cui peraltro ciclicamente si discute, nella sua autorevole espressione a livello dell’Unione Europea (EUnetHTA), ha tra i suoi precipui obiettivi l’universalità dell’accesso ai farmaci, l’equità e la solidariertà, l’efficienza e la condivisione dei metodi di valutazione e la sostenibilità dei sistemi sanitari; tutti elementi che implicano precise valutazioni di natura economica e di risparmio, a cui non sembrano corrispondere altrettanto precise valutazioni di quali possano essere i benefici sull’assistenza sanitaria e la salute legati ad un trattamento farmaco-terapeutico.

La questione potrebbe essere molto semplice: non si tratta di stabilire quale sia la migliore cura farmacologica per una determinata patologia, bensì quale sia il più corretto uso del farmaco nel contesto della cura della persona.  Non è banale, ma un cambiamento di prospettiva, che parta dalla persona e poi arrivi a valutare il costo del farmaco, potrebbe far emergere aspetti mai prima considerati e comunque benefici per la collettività.

Una delle patologie più invalidanti e pericolose dal punto di vista socio-epidemiologico, che finalmente ha ricevuto una cura risolutiva, ossia l’Epatite C, non è solo una malattia ma è anche un condizione clinica della persona. Il paziente affetto da Epatite C è un paziente complesso, che spesso presenta anche altre affezioni concomitanti che aggravano la sua condizione di vita. È un paziente che arriva alla diagnosi con una componente emotiva tale che la gestione psicologica spesso diventa essenziale (per un migliore approfondimento si rimanda ai seguenti siti specifici di natura medico scientifica: www.epatitec.info; www.clicmedicina.it; www.epac.it). La cura della malattia, quindi lo schema terapeutico (peraltro nel caso specifico anche molto complesso), si inseriscono in un contesto di cura che non può dimenticarsi del paziente.

Analoghe considerazioni si possono fare per l’HIV o per le malattie oncologiche, neurologiche  e/o degenerative, che portano con sè delle complicazioni estese non legate in senso stretto alla patologia.

Il successo terapeutico, quindi, dipende dalla capacità del paziente, del medico curante e delle persone che si prendono cura della gestione del paziente (caregivers), di garantire la precisione, l’affidabilità e l’adesione al percorso terapeutico (compliance terapeutica). In buona sostanza è l’intero sistema della cura che deve poter funzionare nella sua interezza.

L’attenzione mediatica focalizzata esclusivamente sulla componente prezzo dei farmaci anti-epatite C, fino a farne oggetto di interpellanze parlamentari e di battaglie politiche tra Stato e Regioni, mette in evidenza quanto siamo lontani da una visione strategica del farmaco all’interno del percorso di cura del paziente.

I farmaci vengono acquistati dalle Regioni, ASL ed ospedali, come ogni altro bene o servizio, attraverso il sistema delle gare pubbliche e questo è conforme alla legge, in quanto permette alla stazione appaltante di acquistare il prodotto al prezzo migliore.

Il criterio da sempre utilizzato per le gare sui farmaci è quello del prezzo più basso e questo viene abbastanza naturale ed automatico in quanto il farmaco, come prodotto di consumo, è l’unico per il quale le valutazioni di efficacia, sicurezza e qualità sono insite nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio. Per questo, nella generalità dei casi, appare irrilevante una qualsiasi altra successiva valutazione ai fini del miglior acquisto del prodotto da parte della stazione appaltante.

Ciò ha portato anche ad una consolidata standardizzazione nei processi di acquisto dei farmaci che ha ottenuto, negli anni, anche la “solenne benedizione” dell’Autorità per la Concorrenza ed il Mercato che, nei vari provvedimenti che hanno interessato il settore, ha interpretato il mercato sulla base di un criterio, di natura nomenclatoria e non scientifico, denominato criterio anatomico terapeutico (ATC). L’adozione di tale metodo ha permesso all’AGCM di arrivare, come logica conseguenza, a risolvere i problemi correlati alla sostituibilità tra farmaco di riferimento e corrispondente farmaco equivalente, alla stregua di un concetto di “identità”, con ciò trascurando tutte le problematiche scientifiche, cliniche e regolatorie sottese alla “similarità” farmacologica. È, infatti, perlopiù ignoto a molti che il concetto di bioequivalenza, che è alla base della sostituibilità tra il farmaco di riferimento “A” e un suo farmaco equivalente “B”, è un concetto esclusivamente bilaterale e non estensibile ad altri farmaci equivalenti. Per cui non appare così scontato che la sostituzione, in corso di terapia, tra l’equivalente “B” e l’equivalente “C” sia così esente da conseguenze cliniche.

In questo contesto si è sviluppata con facilità una modalità di acquisto dei farmaci essenzilamente simile a quella utilizzata per l’acquisto di una qualsiasi commodity, attraverso l’implementazione di sistemi dinamici di acquisizione, tra cui quello sviluppato ad hoc da CONSIP, con un meticoloso lavoro di catalogazione e standardizzazione, nella prospettiva di unificare il sistema e di fornire un valido supporto alle singole stazioni appaltanti.

La standardizzazione è tendenzialmente un processo poco complesso e a bassa innovatività, ma nello stesso tempo laborioso. Esso comporta un notevole dispendio di risorse temporali ed economiche e serve ad ottimizzare un processo per lo più meccanico. Nel settore farmaceutico è qualcosa di pericoloso (forse nella medicina in generale) se non utilizzata con intelligenza e con un certo grado di flessibilità; ad esempio, l’acquisto di farmaci che necessitano di un dispositivo per la loro somministrazione, pur non essendo dei medical device, in quanto presentano caratteristiche tecniche non standardizzate, deve essere effettuato valutando anche parametri diversi dal prezzo.

In questo monòtono contesto macro-economico e giuridicamente cristalizzato, si inserirà il recepimento della Direttiva 2014/24/UE, che sembra dare un segnale di radicale cambiamento di prospettiva laddove afferma che “l’acquisto di prodotti, lavori e servizi innovativi svolge un ruolo fondamentale per migliorare l’efficienza e la qualità dei servizi pubblici e nello stesso tempo affrontare le principali sfide a valenza sociale”.

Ad una precisa eventuale domanda se questo cambiamento possa riguardare anche le procedure di acquisto dei farmaci, l’operatore istituzionale del settore risponderebbe che tale Direttiva è stata pensata per gli appalti di servizi e, che l’introduzione di un parametro di valutazione diverso dall’aspetto strettamente economico, basato ad esempio sulla qualità del prodotto, sarebbe peraltro foriero di contenzioso giudiziale.

Non sappiamo quanto questa risposta possa essere espressione di un atteggiamento eccessivamente prudente o quanto, invece, possa nascondere l’incapacità di creare delle relazioni innovative basate sul riconoscimento di un reciproco vantaggio pubblico-privato.

Il fatto che la citata Direttiva abbia introdotto quale criterio preferenziale per valutare le offerte un criterio basato non solo sul prezzo, ma che tenga conto anche della qualità, è ormai abbastanza noto per gli operatori del settore. Questo cambiamento pone di per sè delle sfide, in primo luogo induce a pensare la gara come una procedura “funzionalizzata” rispetto al bene che si desidera acquistare. Se, come spesso viene dichiarato da alcuni stakeholders istituzionali, il farmaco può rappresentare una soluzione terapeutica strategica nella gestione del paziente e della patologia, non si può rimanere osservatori inerti dinanzi al passaggio che questa Direttiva compirà nell’entrare nel nostro ordinamento giuridico. La “qualità” è qualcosa di misurabile e tangibile e su questo la Direttiva già si esprime con precise indicazioni; il valore aggiunto che la legislazione nazionale, anche di secondo livello, potrebbe dare, è rappresentato dal passaggio della gara pubblica da mero procedimento di “acquisto” a luogo di “incontro”, “valutazione” ed “acquisto” tra l’erogatore del servizio sanitario pubblico ed il privato.

In questo contesto potrebbero trovare spazio tutti quei servizi correlati al farmaco ed utili alla gestione del paziente e della patologia, che il Servizio Sanitario Nazionale non è in grado di fornire, per ragioni organizzative od economiche, che invece potrebbero essere erogati a basso costo o, addirittura con costi inclusi nella fornitura del farmaco, dalle imprese private.

Un sostanziale cambiamento di prospettiva comporta anche una diversa e più impegnativa attività delle stazioni appaltanti, che dovranno cominciare a “pensare” le gare mettendo in atto delle macro-fasi di processo, secondo un metodo analitico, motivato e trasparente, nell’ottica dell’interesse pubblico rappresentato dalla cura del paziente.

Solo in questa direzione potrà realizzarsi un processo di affrancazione dal concetto della standardizzazione, che invece, di per sè, non riecheggia la capacità di stimolare valutazioni diverse e non induce a migliorare, semmai comporta la necessità a conformarsi.

Così, per fare alcuni esempi, una stazione appaltante non sarà indotta a svolgere una istruttoria tecnica per capire se nel territorio geografico specifico vi siano delle resistenze batteriche che richiedano l’uso di uno specifico antibiotico anziché un di un altro, un ospedale non dovrà verificare se le sale operatorie sono sprovviste di sistemi di sicurezza che richiedono l’uso di gas anestetici in confezioni tali da non generare dispendio di sostanza, una Regione non sarà stimolata a capire se il paziente con quella patologia, e sottoposto a quella cura farmacologica, ha necessità anche di un supporto di fisioterapia e di counseling psicologico; ma la lista potrebbe essere molto lunga.

Siamo tuttavia ancora lontani da una visione di partnership: le terapie farmacologiche più avanzate per patologie ad alta complessità, richiedono una attenta valutazione del paziente ed un compliance terapeutica che spesso comporta l’espletamento di servizi accessori o aggiuntivi alla mera somministrazione di un farmaco.

Proviamo ad ampliare l’orizzonte delle nostre idee.

Il dott. Brad Stuart è attualmente Chief Medical Officer del Sutter Care at Home, il più grande home care e hospice provider del Northern California. Ormai è un personaggio di fama internazionale, ha fondato l’Advanced Illness Management un programma di assistenza integrata (ospedali, gruppi di medici, comunità di servizi al paziente) diretto a ridurre i costi per i pazienti e per i servizi sanitari nazionali nella gestione delle malattie croniche. Per quanto la sua attività sia concentrata sui pazienti anziani ed i malati terminali, in una intervista rilasciata al quotidiano Avvenire questa estate, in occasione del Meeting di Rimini, ha affermato: “gli ospedali hanno raggiunto costi di gestione insostenibili e hanno cercato cambiamenti strutturali per ridurre le spese ... è necessario costruire una squadra multidisciplinare per visitare regolarmente i pazienti più vulnerabili e coordinare i servizi relativi alla loro salute”, riducendo i ricoveri le spese mediche possono scendere anche del 30%. Il suo intervento si inseriva nel contesto di un dibattito sul “fine vita” ma i principi che ha affermato sono stati illuminanti, molto più di quanto lo fosse stato l’articolo 8 della Legge n. 405/01 che, nel dare la possibilità alla Regioni di attivare la dispensazione dei farmaci nel contesto del trattamento domiciliare, residenziale e semiresidenziale, ha scatenato una rincorsa al risparmio incentivando le Regioni ad adottare provvedimenti spesso di dubbia legittimità, oltre che a scatenare la diatriba politica e corporativa tra le farmacie territoriali ed il SSN per i farmaci a dispensazione in distribuzione diretta.

In sostanza occorrerebbe un forte cambiamento di strategia da parte del Pubblico erogatore dell’assistenza sanitaria, che parta dalla capacità di saper cogliere opportunità e sviluppare nuovi approcci e metodologie nella dinamica dell’acquisto di beni e servizi.

Un obiettivo arduo e senz’altro non facile da raggiungere, perchè al di la dei principi e dei criteri direttivi annuciati e scritti con molta enfasi anche nelle Direttive in questione, il testo normativo europeo e quindi le disposizioni in esso contenute (si tratta in realtà di tre Direttive) sono complesse e voluminose e, in alcuni tratti, non si nasconde il risultato di compromessi de iure condendo.

Ma chi ben comincia è già a metà dell’opera” e basterebbe anche solo  il cambiamento da una prospettiva tendenzialmente autoritativa di uno Stato acquirente ad una più moderna di uno Stato “contraente in partnership”, per realizzare quel principio per cui, se una stazione appaltante decide di procedere ad una gara d’acquisto è perchè non è in grado di realizzare quel servizio o di produrre quel bene di cui ha necessariamente bisogno nell’attuare le finalità pubbliche ad essa attribuite per legge.

In questo contesto, andando ancora oltre il primo obiettivo di una gara pubblica che concepisca il farmaco come una soluzione terapeutica ad un bisogno di cura, anziché come un bene di consumo, potrebbe cominciare a matutare anche la consapevolezza che chi ha sviluppato il farmaco conosce anche la patologia e spesso anche il paziente, pertanto potrebbe essere un soggetto privilegiato dal quale attingere quelle risorse e quei servizi, connessi al farmaco, che lo Stato non è in grado di erogare; il tutto nell’interesse del paziente.

Lo Stato, per esso le stazioni appaltanti, potrebbero quindi valutare tutti quesi servizi inerenti alla gestione della patologia che ruotano intorno al trattamento farmacologico, per fare alcuni esempi:

- Servizi di counseling e di supporto psicologico al paziente;

- Servizi di natura informatica per la gestione dei dati di outcome del trattamento terapeutico (spesso associati ai cd. Registri di Monitoraggio decisi ed implementati dall’Agenzia Italiana del Farmaco);

- Servizi di assistenza infermieristica e di supporto al paziente nella somministrazione del farmaco;

- Servizi fisioterapici a supporto della gestione della patologia;

- Servizi tecnici ed informatici diretti a garantire la compliance terapeutica;

- Servizi di call center o di prenotazione per visite di controllo o follow-up;

Certamente non è possibile generalizzare ed applicare un concetto di complessità ad un intero settore merceologico. Per questo vi sono alcuni farmaci che per loro natura possono ben essere acquistati attraverso un procedimento di valutazione dell’economicità del prezzo offerto in gara, poichè nella vastità delle cure farmacologiche vi sono molecole ormai sul mercato da anni che non possono offrire molto di più dei vantaggi che hanno già generato.

Ma vi sono farmaci e patologie che invece richiedono una vision più strategica in virtù della complessità in cui operano e si manifestano.

Forse vale la pena soffermarsi: l’idea del farmaco come commodity, ossia come bene di consumo, sembra essere prevalentemente legata ad una concezione del farmaco come prodotto che guarisce (es: un antibiotico debella l’infezione, un antinfiammatorio attenua e blocca l’infiammazione e così via). Tuttavia, la moderna medicina e la farmacologia ci insegnano che spesso i trattamenti farmacologici si inseriscono all’interno di percorsi di cura e non di guarigione. La qualità della vità, intesa anche come sopravvivenza, dei malati di patologie di cui ancora non si conosce la causa, l’eziologia e quindi anche i possibili meccanismi di guarigione, è notevolmente aumentata, ciò soprattutto grazie ai farmaci.

Ecco quindi che il farmaco non si presenta più solo come oggetto che guarisce o meglio, il cui consumo guarisce e pone fine al malanno, bensì come soluzione terapeutica in un contesto di cura, al cui centro vi è il paziente.

 

[1] Dal libro “Farmaci e società. Il paziente, il medico e la ricetta” di Sylvie Fainzang, ed. Franco Angeli

“Il farmaco se studiato attraverso le varie fase della sua vita sociale viene denaturalizzato, viene cioè sottratto all’ordine delle cose percepite come naturali per entrare nel dominio delle transazioni sociali, in altri termini significa che ciò che avviene intorno al farmaco non viene dato per scontato. La produzione, la prescrizione, l’assunzione non possono essere visti come momenti avulsi dal contesto sociale. La stessa ricerca farmacologica non può essere ridotta ai suoi aspetti di investigazione per la produzione di nuovi principi attivi[1]”.

In un opuscolo redatto nel 2014 dall’Azienda Servizi Sanitari Triestina insieme alla Società Italiana di Scienze Farmaceutiche e ad altri enti del settore, si affermava: “il farmaco non è un bene di consumo, ma se usato correttamente e quando necessario può rappresentare una risorsa per la salute”. Si trattava di un opuscolo ben fatto perchè in esso venivano sintetizzate tutte le peculiarità del farmaco, dai requisiti di sicurezza, efficacia e qualità, alle criticità legate ad un uso non corretto, nonchè - soprattutto - il fatto che il farmaco è un bene di salute e non una merce qualsiasi.

La consapevolezza che la gestione del farmaco avesse bisogno di una specifica ed attenta regolamentazione risale ai primissimi anni ’90, quando la Direttiva 92/28/CEE regolamentò per la primissima volta la pubblicità dei medicinali per uso umano, sottraendo dalla pubblicità al pubblico tutti i medicinali soggetti a prescrizione medica.

La regolamentazione che si sviluppò successivamente non ha radicalmente modificato quei principi, poichè le novità introdotte dalla Direttiva 2001/83/CE (recepita col Decreto Legislativo n. 219/06, ossia il “Codice dei Medicinali”) muovevano da una progressiva accentuazione delle limitazioni operative alle attività di pomozione o pubblicità dei medicinali, sebbene - nel contempo - affrancavano il concetto di promozione/pubblicità del farmaco da una visione negativa verso una valorizzazione del ruolo dell’informazione medico scientifica.

Tuttavia, l’evolversi della scienza e la complessità crescente che ormai caratterizza le terapie farmacologiche soprattutto quelle di nuova concezione, già a partire dai primi anni successivi all’entrata in vigore del Codice dei Medicinali, hanno messo in evidenza diverse esigenze fenomenologiche, molte delle quali ancora oggi si discute approfonditamente. Tra queste la modifica alle norme in materia di farmacovigilanza, che hanno allargato notevolmente la tipologia di eventi che devono essere registrati in quanto connessi alla somministrazione del farmaco, lo sviluppo dei farmaci equivalenti (o generici), la fissazione di un prezzo di riferimento ai fini del rimborso da parte del Servizio Sanitario Nazionale, il fenomeno delle resistenze batteriche legate ad un uso non conforme dei farmaci antibiotici, una maggiore partecipazione del paziente alle scelte delle terapie farmacologiche, l’allargamento dei programmi di sperimentazione clinica, la regionalizzazione dell’assistenza sanitaria in Italia, la centralizzazione delle procedure di autorizzazione all’immissione in commercio a livello europeo, la compromissione - ai fini regolatori - dei diritti di proprietà industriale derivanti dal brevetto, fino all’avvento dei farmaci biologici ed all’attuale kermesse giurisprudenziale sulla loro sostituibilità coi rispettivi biosimilari.

Molti di questi fenomeni sono stati generati o sono stati caratterizzati, da una regolamentazione che ha inciso con netta prevalenza sugli aspetti economici, a corredo peraltro di una governance del sistema farmaceutico fortemente limitativa, in quanto basata sul principio del ribaltamento sulle imprese del farmaco dell’over speding della spesa farmaceutica, rispetto al budget stanziato dallo Stato col Fondo Sanitario Nazionale.

In altri termini, sebbene vi sia una forte consapevolezza del fatto che la gran parte dei provvedimenti normativi nel settore farmaceutico hanno avuto l’effetto di comprimere il settore, poiché hanno inciso in netta prevalenza sul prezzo del farmaco, non è ancora inziata a maturare una visione strategica di cosa sia il farmaco e di quali siano i benefici correlati al suo impiego.

In questo senso non meraviglia notare che anche l’Health Tecnology Assessment, di cui peraltro ciclicamente si discute, nella sua autorevole espressione a livello dell’Unione Europea (EUnetHTA), ha tra i suoi precipui obiettivi l’universalità dell’accesso ai farmaci, l’equità e la solidariertà, l’efficienza e la condivisione dei metodi di valutazione e la sostenibilità dei sistemi sanitari; tutti elementi che implicano precise valutazioni di natura economica e di risparmio, a cui non sembrano corrispondere altrettanto precise valutazioni di quali possano essere i benefici sull’assistenza sanitaria e la salute legati ad un trattamento farmaco-terapeutico.

La questione potrebbe essere molto semplice: non si tratta di stabilire quale sia la migliore cura farmacologica per una determinata patologia, bensì quale sia il più corretto uso del farmaco nel contesto della cura della persona.  Non è banale, ma un cambiamento di prospettiva, che parta dalla persona e poi arrivi a valutare il costo del farmaco, potrebbe far emergere aspetti mai prima considerati e comunque benefici per la collettività.

Una delle patologie più invalidanti e pericolose dal punto di vista socio-epidemiologico, che finalmente ha ricevuto una cura risolutiva, ossia l’Epatite C, non è solo una malattia ma è anche un condizione clinica della persona. Il paziente affetto da Epatite C è un paziente complesso, che spesso presenta anche altre affezioni concomitanti che aggravano la sua condizione di vita. È un paziente che arriva alla diagnosi con una componente emotiva tale che la gestione psicologica spesso diventa essenziale (per un migliore approfondimento si rimanda ai seguenti siti specifici di natura medico scientifica: www.epatitec.info; www.clicmedicina.it; www.epac.it). La cura della malattia, quindi lo schema terapeutico (peraltro nel caso specifico anche molto complesso), si inseriscono in un contesto di cura che non può dimenticarsi del paziente.

Analoghe considerazioni si possono fare per l’HIV o per le malattie oncologiche, neurologiche  e/o degenerative, che portano con sè delle complicazioni estese non legate in senso stretto alla patologia.

Il successo terapeutico, quindi, dipende dalla capacità del paziente, del medico curante e delle persone che si prendono cura della gestione del paziente (caregivers), di garantire la precisione, l’affidabilità e l’adesione al percorso terapeutico (compliance terapeutica). In buona sostanza è l’intero sistema della cura che deve poter funzionare nella sua interezza.

L’attenzione mediatica focalizzata esclusivamente sulla componente prezzo dei farmaci anti-epatite C, fino a farne oggetto di interpellanze parlamentari e di battaglie politiche tra Stato e Regioni, mette in evidenza quanto siamo lontani da una visione strategica del farmaco all’interno del percorso di cura del paziente.

I farmaci vengono acquistati dalle Regioni, ASL ed ospedali, come ogni altro bene o servizio, attraverso il sistema delle gare pubbliche e questo è conforme alla legge, in quanto permette alla stazione appaltante di acquistare il prodotto al prezzo migliore.

Il criterio da sempre utilizzato per le gare sui farmaci è quello del prezzo più basso e questo viene abbastanza naturale ed automatico in quanto il farmaco, come prodotto di consumo, è l’unico per il quale le valutazioni di efficacia, sicurezza e qualità sono insite nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio. Per questo, nella generalità dei casi, appare irrilevante una qualsiasi altra successiva valutazione ai fini del miglior acquisto del prodotto da parte della stazione appaltante.

Ciò ha portato anche ad una consolidata standardizzazione nei processi di acquisto dei farmaci che ha ottenuto, negli anni, anche la “solenne benedizione” dell’Autorità per la Concorrenza ed il Mercato che, nei vari provvedimenti che hanno interessato il settore, ha interpretato il mercato sulla base di un criterio, di natura nomenclatoria e non scientifico, denominato criterio anatomico terapeutico (ATC). L’adozione di tale metodo ha permesso all’AGCM di arrivare, come logica conseguenza, a risolvere i problemi correlati alla sostituibilità tra farmaco di riferimento e corrispondente farmaco equivalente, alla stregua di un concetto di “identità”, con ciò trascurando tutte le problematiche scientifiche, cliniche e regolatorie sottese alla “similarità” farmacologica. È, infatti, perlopiù ignoto a molti che il concetto di bioequivalenza, che è alla base della sostituibilità tra il farmaco di riferimento “A” e un suo farmaco equivalente “B”, è un concetto esclusivamente bilaterale e non estensibile ad altri farmaci equivalenti. Per cui non appare così scontato che la sostituzione, in corso di terapia, tra l’equivalente “B” e l’equivalente “C” sia così esente da conseguenze cliniche.

In questo contesto si è sviluppata con facilità una modalità di acquisto dei farmaci essenzilamente simile a quella utilizzata per l’acquisto di una qualsiasi commodity, attraverso l’implementazione di sistemi dinamici di acquisizione, tra cui quello sviluppato ad hoc da CONSIP, con un meticoloso lavoro di catalogazione e standardizzazione, nella prospettiva di unificare il sistema e di fornire un valido supporto alle singole stazioni appaltanti.

La standardizzazione è tendenzialmente un processo poco complesso e a bassa innovatività, ma nello stesso tempo laborioso. Esso comporta un notevole dispendio di risorse temporali ed economiche e serve ad ottimizzare un processo per lo più meccanico. Nel settore farmaceutico è qualcosa di pericoloso (forse nella medicina in generale) se non utilizzata con intelligenza e con un certo grado di flessibilità; ad esempio, l’acquisto di farmaci che necessitano di un dispositivo per la loro somministrazione, pur non essendo dei medical device, in quanto presentano caratteristiche tecniche non standardizzate, deve essere effettuato valutando anche parametri diversi dal prezzo.

In questo monòtono contesto macro-economico e giuridicamente cristalizzato, si inserirà il recepimento della Direttiva 2014/24/UE, che sembra dare un segnale di radicale cambiamento di prospettiva laddove afferma che “l’acquisto di prodotti, lavori e servizi innovativi svolge un ruolo fondamentale per migliorare l’efficienza e la qualità dei servizi pubblici e nello stesso tempo affrontare le principali sfide a valenza sociale”.

Ad una precisa eventuale domanda se questo cambiamento possa riguardare anche le procedure di acquisto dei farmaci, l’operatore istituzionale del settore risponderebbe che tale Direttiva è stata pensata per gli appalti di servizi e, che l’introduzione di un parametro di valutazione diverso dall’aspetto strettamente economico, basato ad esempio sulla qualità del prodotto, sarebbe peraltro foriero di contenzioso giudiziale.

Non sappiamo quanto questa risposta possa essere espressione di un atteggiamento eccessivamente prudente o quanto, invece, possa nascondere l’incapacità di creare delle relazioni innovative basate sul riconoscimento di un reciproco vantaggio pubblico-privato.

Il fatto che la citata Direttiva abbia introdotto quale criterio preferenziale per valutare le offerte un criterio basato non solo sul prezzo, ma che tenga conto anche della qualità, è ormai abbastanza noto per gli operatori del settore. Questo cambiamento pone di per sè delle sfide, in primo luogo induce a pensare la gara come una procedura “funzionalizzata” rispetto al bene che si desidera acquistare. Se, come spesso viene dichiarato da alcuni stakeholders istituzionali, il farmaco può rappresentare una soluzione terapeutica strategica nella gestione del paziente e della patologia, non si può rimanere osservatori inerti dinanzi al passaggio che questa Direttiva compirà nell’entrare nel nostro ordinamento giuridico. La “qualità” è qualcosa di misurabile e tangibile e su questo la Direttiva già si esprime con precise indicazioni; il valore aggiunto che la legislazione nazionale, anche di secondo livello, potrebbe dare, è rappresentato dal passaggio della gara pubblica da mero procedimento di “acquisto” a luogo di “incontro”, “valutazione” ed “acquisto” tra l’erogatore del servizio sanitario pubblico ed il privato.

In questo contesto potrebbero trovare spazio tutti quei servizi correlati al farmaco ed utili alla gestione del paziente e della patologia, che il Servizio Sanitario Nazionale non è in grado di fornire, per ragioni organizzative od economiche, che invece potrebbero essere erogati a basso costo o, addirittura con costi inclusi nella fornitura del farmaco, dalle imprese private.

Un sostanziale cambiamento di prospettiva comporta anche una diversa e più impegnativa attività delle stazioni appaltanti, che dovranno cominciare a “pensare” le gare mettendo in atto delle macro-fasi di processo, secondo un metodo analitico, motivato e trasparente, nell’ottica dell’interesse pubblico rappresentato dalla cura del paziente.

Solo in questa direzione potrà realizzarsi un processo di affrancazione dal concetto della standardizzazione, che invece, di per sè, non riecheggia la capacità di stimolare valutazioni diverse e non induce a migliorare, semmai comporta la necessità a conformarsi.

Così, per fare alcuni esempi, una stazione appaltante non sarà indotta a svolgere una istruttoria tecnica per capire se nel territorio geografico specifico vi siano delle resistenze batteriche che richiedano l’uso di uno specifico antibiotico anziché un di un altro, un ospedale non dovrà verificare se le sale operatorie sono sprovviste di sistemi di sicurezza che richiedono l’uso di gas anestetici in confezioni tali da non generare dispendio di sostanza, una Regione non sarà stimolata a capire se il paziente con quella patologia, e sottoposto a quella cura farmacologica, ha necessità anche di un supporto di fisioterapia e di counseling psicologico; ma la lista potrebbe essere molto lunga.

Siamo tuttavia ancora lontani da una visione di partnership: le terapie farmacologiche più avanzate per patologie ad alta complessità, richiedono una attenta valutazione del paziente ed un compliance terapeutica che spesso comporta l’espletamento di servizi accessori o aggiuntivi alla mera somministrazione di un farmaco.

Proviamo ad ampliare l’orizzonte delle nostre idee.

Il dott. Brad Stuart è attualmente Chief Medical Officer del Sutter Care at Home, il più grande home care e hospice provider del Northern California. Ormai è un personaggio di fama internazionale, ha fondato l’Advanced Illness Management un programma di assistenza integrata (ospedali, gruppi di medici, comunità di servizi al paziente) diretto a ridurre i costi per i pazienti e per i servizi sanitari nazionali nella gestione delle malattie croniche. Per quanto la sua attività sia concentrata sui pazienti anziani ed i malati terminali, in una intervista rilasciata al quotidiano Avvenire questa estate, in occasione del Meeting di Rimini, ha affermato: “gli ospedali hanno raggiunto costi di gestione insostenibili e hanno cercato cambiamenti strutturali per ridurre le spese ... è necessario costruire una squadra multidisciplinare per visitare regolarmente i pazienti più vulnerabili e coordinare i servizi relativi alla loro salute”, riducendo i ricoveri le spese mediche possono scendere anche del 30%. Il suo intervento si inseriva nel contesto di un dibattito sul “fine vita” ma i principi che ha affermato sono stati illuminanti, molto più di quanto lo fosse stato l’articolo 8 della Legge n. 405/01 che, nel dare la possibilità alla Regioni di attivare la dispensazione dei farmaci nel contesto del trattamento domiciliare, residenziale e semiresidenziale, ha scatenato una rincorsa al risparmio incentivando le Regioni ad adottare provvedimenti spesso di dubbia legittimità, oltre che a scatenare la diatriba politica e corporativa tra le farmacie territoriali ed il SSN per i farmaci a dispensazione in distribuzione diretta.

In sostanza occorrerebbe un forte cambiamento di strategia da parte del Pubblico erogatore dell’assistenza sanitaria, che parta dalla capacità di saper cogliere opportunità e sviluppare nuovi approcci e metodologie nella dinamica dell’acquisto di beni e servizi.

Un obiettivo arduo e senz’altro non facile da raggiungere, perchè al di la dei principi e dei criteri direttivi annuciati e scritti con molta enfasi anche nelle Direttive in questione, il testo normativo europeo e quindi le disposizioni in esso contenute (si tratta in realtà di tre Direttive) sono complesse e voluminose e, in alcuni tratti, non si nasconde il risultato di compromessi de iure condendo.

Ma chi ben comincia è già a metà dell’opera” e basterebbe anche solo  il cambiamento da una prospettiva tendenzialmente autoritativa di uno Stato acquirente ad una più moderna di uno Stato “contraente in partnership”, per realizzare quel principio per cui, se una stazione appaltante decide di procedere ad una gara d’acquisto è perchè non è in grado di realizzare quel servizio o di produrre quel bene di cui ha necessariamente bisogno nell’attuare le finalità pubbliche ad essa attribuite per legge.

In questo contesto, andando ancora oltre il primo obiettivo di una gara pubblica che concepisca il farmaco come una soluzione terapeutica ad un bisogno di cura, anziché come un bene di consumo, potrebbe cominciare a matutare anche la consapevolezza che chi ha sviluppato il farmaco conosce anche la patologia e spesso anche il paziente, pertanto potrebbe essere un soggetto privilegiato dal quale attingere quelle risorse e quei servizi, connessi al farmaco, che lo Stato non è in grado di erogare; il tutto nell’interesse del paziente.

Lo Stato, per esso le stazioni appaltanti, potrebbero quindi valutare tutti quesi servizi inerenti alla gestione della patologia che ruotano intorno al trattamento farmacologico, per fare alcuni esempi:

- Servizi di counseling e di supporto psicologico al paziente;

- Servizi di natura informatica per la gestione dei dati di outcome del trattamento terapeutico (spesso associati ai cd. Registri di Monitoraggio decisi ed implementati dall’Agenzia Italiana del Farmaco);

- Servizi di assistenza infermieristica e di supporto al paziente nella somministrazione del farmaco;

- Servizi fisioterapici a supporto della gestione della patologia;

- Servizi tecnici ed informatici diretti a garantire la compliance terapeutica;

- Servizi di call center o di prenotazione per visite di controllo o follow-up;

Certamente non è possibile generalizzare ed applicare un concetto di complessità ad un intero settore merceologico. Per questo vi sono alcuni farmaci che per loro natura possono ben essere acquistati attraverso un procedimento di valutazione dell’economicità del prezzo offerto in gara, poichè nella vastità delle cure farmacologiche vi sono molecole ormai sul mercato da anni che non possono offrire molto di più dei vantaggi che hanno già generato.

Ma vi sono farmaci e patologie che invece richiedono una vision più strategica in virtù della complessità in cui operano e si manifestano.

Forse vale la pena soffermarsi: l’idea del farmaco come commodity, ossia come bene di consumo, sembra essere prevalentemente legata ad una concezione del farmaco come prodotto che guarisce (es: un antibiotico debella l’infezione, un antinfiammatorio attenua e blocca l’infiammazione e così via). Tuttavia, la moderna medicina e la farmacologia ci insegnano che spesso i trattamenti farmacologici si inseriscono all’interno di percorsi di cura e non di guarigione. La qualità della vità, intesa anche come sopravvivenza, dei malati di patologie di cui ancora non si conosce la causa, l’eziologia e quindi anche i possibili meccanismi di guarigione, è notevolmente aumentata, ciò soprattutto grazie ai farmaci.

Ecco quindi che il farmaco non si presenta più solo come oggetto che guarisce o meglio, il cui consumo guarisce e pone fine al malanno, bensì come soluzione terapeutica in un contesto di cura, al cui centro vi è il paziente.

 

[1] Dal libro “Farmaci e società. Il paziente, il medico e la ricetta” di Sylvie Fainzang, ed. Franco Angeli