x

x

Abuso di diritto e Imposta di Registro

Considerazioni alla luce della Sentenza della Corte Costituzionale n. 158 del 10.06.2020
il viaggio della vita
Ph. Luca Martini / il viaggio della vita

Indice:

1. Premessa

2. L’articolo 20 T.U.R. fino al 2017

3. L’articolo 20 T.U.R. dopo la riforma del 2018

4. La posizione della Corte Costituzionale

5. L’abuso di diritto o elusione fiscale nel T.U.R.

6. Conclusioni

 

1. Premessa

Come tutti sappiamo, l’imposta sulla registrazione degli atti è disciplinata dal Dpr n. 131/1986 (Testo Unico dell’Imposta di Registro – T.U.R.) e, tra i suoi scopi, ha quelli di fornire un’entrata fiscale e una remunerazione allo Stato per il servizio che offre ai privati.

Il pagamento dell’imposta di registro avviene a seguito della registrazione di un atto scritto, come può essere un contratto, una scrittura privata, la costituzione di un ente o di una società, una sentenza ecc., presso un registro pubblico tenuto dall’Agenzia delle Entrate.

L’obiettivo della registrazione è che la data dell’atto venga annotata ufficialmente ed il suo contenuto, essendo stato depositato, non possa più essere modificato. In altre parole, la registrazione dell’atto comporta e garantisce nel tempo l’immodificabilità del suo contenuto e della sua sottoscrizione.

Sia nel caso in cui sia obbligatoria per legge, o effettuata per libera scelta delle parti che sottoscrivono l’atto, la registrazione comporta il pagamento dell’imposta.

Come imposta indiretta, essa colpisce i trasferimenti di ricchezza, come ad esempio l’acquisto di una casa, ed è calcolata applicando un’aliquota fissa o percentuale agli importi indicati nell’atto stesso, secondo la Tariffa vigente allegata allo stesso DPR.

In tale contesto, pertanto, l’articolo 20 del D.P.R. 131/86 si pone probabilmente come l’articolo più importante dell’intero TUR, oltre la Tariffa, in quanto definisce il campo di applicabilità dell’imposta.

L’articolo riguarda, infatti, la qualificazione dell’atto e il conseguente suo assoggettamento all’imposta fissa piuttosto che a quella proporzionale; cosa questa, peraltro, non proprio semplice ed immediata considerato il notevole contenzioso che essa ha alimentato negli anni.

Ed infatti la querelle è antica, come affermato dalla Corte Costituzionale nella Sentenza n. 158/2020 più innanzi affrontata, poiché: «L’originaria disciplina (articolo 7 della legge 21 aprile 1862, n. 585, recante «Sulla tassa di Registro») disponeva, infatti, che «la tassa è applicata secondo la intrinseca natura degli atti e dei contratti, e non secondo la loro forma apparente» (poi trasfusa nell’articolo 8 del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3269, recante «Approvazione del testo di legge di registro»). Già questa formulazione aveva sollecitato, a partire dai primi decenni del Novecento, un vivacissimo dibattito tra chi sosteneva fermamente la necessità di una considerazione della sostanza economica sottostante all’attività giuridica espressa negli atti e chi invece la negava in radice, propendendo a favore di un criterio di tassazione fondato sugli effetti giuridici (seppur potenziali e oggettivizzati) degli schemi negoziali utilizzati.

Il legislatore sembrò, anni dopo, chiudere quel dibattito – che si era riflesso anche nella giurisprudenza – quando, con la riforma tributaria si inserì, con il decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 634 (Disciplina dell’imposta di registro), all’articolo 19 relativo all’«interpretazione degli atti», l’esplicito riferimento agli «effetti giuridici», espressione poi recepita dall’attuale testo unico all’articolo 20.».

Per considerare immediatamente la portata che può avere una differente interpretazione degli atti, e quindi dell’applicazione concreta dell’imposta di registro da parte dell’Agenzia delle Entrate, si può considerare il caso di una cessione di quote totalitaria di un’azienda in favore di un altro o altri soggetti persone fisiche o giuridiche.

È chiaro che, laddove si propenda per il solo dato cartolare della cessione di quote, queste dovrebbero essere assoggettate ad imposta fissa di poche centinaia di euro ciascuna, laddove invece si dovessero interpretare gli atti come una sostanziale cessione d’azienda, cioè di un trasferimento di ricchezza, questi dovrebbero essere assoggettati ad imposta proporzionale di registro del 3% sul valore dell'azienda, ad eccezione del valore degli eventuali immobili che saranno assoggettati alla tassazione secondo il valore venale in comune commercio.

Esistono tuttavia ragioni di ordine pratico che possono, invece, giustificare l’adozione di un atto di cessione di quote anziché uno di cessione d’azienda.

Cioè, non necessariamente un soggetto può decidere di effettuare una cessione di quote, anziché una cessione d’azienda, al solo fine di ottenere un risparmio d’imposta. Ed in effetti:

  1. la cessione d’azienda comporta il subentro dell’acquirente nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda e il terzo contraente può recedere dal contratto con l’acquirente entro tre mesi dalla notizia del trasferimento (con persistente responsabilità contrattuale del cedente);
  2. ancora, ai sensi dell’articolo 2559 Cod. Civ., nella cessione d’azienda le parti hanno la possibilità di pattuire, sia nell’an che nel quantum, in merito al trasferimento dei crediti aziendali dal cedente al cessionario. Tale possibilità è invece preclusa nella cessione delle quote dove i crediti societari producono effetti solo nella sfera giuridica dell’acquirente;
  3. In merito poi ai debiti societari, la cessione delle quote ha effetto liberatorio per il cedente e, anche senza il consenso dei creditori, la responsabilità di questi graverà sull’acquirente. Nella cessione d’azienda invece, ai sensi dell’articolo 2560 Cod. Civ. la liberazione del venditore può avvenire solo con il consenso espresso dei creditori.

Vi sono poi casi più complessi come vedremo, ad es. quello esaminato dalla Corte Costituzionale con la Sentenza 158 del 10/06/2020 nel quale è stata affrontata un’operazione riassumibile in tre fasi:

a) la costituzione di una nuova srl con socio unico (Alfa);

b) l'aumento del capitale liberato mediante conferimento di tre rami d'azienda, uno di titolarità del medesimo socio unico (Alfa), e due di titolarità di altre due società (Beta e Gamma);

c) la cessione delle quote di partecipazione alla società conferitaria assegnate ai soggetti conferenti Alfa, Beta e Gamma a favore di altra società, Delta.

Oppure quella, sempre affrontata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 39 del 09/02/2021 nella quale è stato considerato un caso «di conferimento di ramo di azienda e successiva cessione di partecipazioni totalitarie».

In queste circostanze, infatti, è indubitabile che, dal punto di vista del cessionario, il più complesso schema “cessione del 100% delle partecipazioni-incorporazione della società acquisita” realizza il medesimo risultato che si determinerebbe con la più semplice cessione “diretta” dei singoli beni (azienda, immobili o altro) che compongono il patrimonio della società cedente.

 

2. L’articolo 20 T.U.R. fino al 2017

Per comprendere l’evoluzione interpretativa che ha subito l’articolo 20 del T.U.R. possiamo fare dunque riferimento alla riforma tributaria del 1972 (D.P.R. 634/72) alla quale è seguito il D.P.R. 131/1986 il cui articolo 20 così disponeva: «l’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente».

Sulla scorta di una lettura meramente lessicale dello stesso articolo, l’Agenzia delle Entrate e la giurisprudenza di legittimità hanno sempre ritenuto che detto articolo imponesse «ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto, o il collegamento di più atti, in ragione della loro intrinseca portata, cioè in ragione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale» (Cass. n. 11666/2017).

L’articolo 20 avrebbe offerto, pertanto, secondo la Cassazione, un chiaro criterio secondo il quale «nell’imposizione del negozio, deve attribuirsi rilievo preminente alla sua causa reale ed all’effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguiti dai contraenti».

In altri termini, l’imposta di registro andrebbe configurata come «”imposta sul negozio” correlata alla causa concreta dell’operazione» in conformità con il principio costituzionale di capacità contributiva.

Si riteneva, infatti, che «l’interpretazione atomistica dell’operazione negoziale non era in grado di misurare il reale movimento di ricchezza, che si rivelava soltanto nella dimensione complessiva dell’affare» (Cass. n. 6758/2017).

In tal senso l’Agenzia delle Entrate era giunta ad affermare, in alcune risoluzioni, addirittura la prevalenza dell’articolo 20 T.U.R. rispetto all’articolo 10- bis dello Statuto dei Diritti del Contribuente (Abuso di Diritto), proprio richiamando l’orientamento della giurisprudenza di legittimità ed attribuendo rilievo, ai sensi del suddetto articolo 20, alla regolamentazione degli interessi effettivamente perseguiti dai contraenti, anche se mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali, avendo valore preminente l'unitarietà dell'operazione economica (ris. n. 98/E del 2017).

Cioè, ad esempio, di fronte ad una pluralità di cessioni di quote, il dato reale da prendere in considerazione era il presumibile trasferimento d’azienda da tassare in misura proporzionale sul valore complessivo piuttosto che in misura fissa per ogni singolo atto di cessione.

L’attività d’interpretazione, attuata in passato dall’Agenzia, aveva così individuato delle fattispecie tipicizzate da “accertare” quali, ad esempio:

– il conferimento di immobili (talvolta gravati da mutui ipotecari) o di aziende, seguito dalla cessione (non necessariamente totalitaria) delle partecipazioni (ex multis, Cass. n. 6758/2017);

– la cessione totalitaria delle partecipazioni sociali, ritenuta qualificabile, e dunque tassabile, come cessione di azienda attesa «l’identità della funzione economica dei due contratti, consistente nel trasferimento del potere di godimento e di disposizione dell’azienda» (Cass. n. 8542/2016);

– la cd. cessione spezzatino, ossia la qualificazione come cessione di azienda di una pluralità di atti di cessione al medesimo acquirente, di beni, attività e passività aziendali, singolarmente considerati, che «se funzionalmente e cronologicamente collegati possono esser idonei a realizzare “oggettivamente” gli effetti della vendita» dell’azienda (ex multis, Cass. n. 8793/2017).

 

3. L’articolo 20 T.U.R. dopo la riforma del 2018

Con la legge 27 dicembre 2017, n. 205 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018), articolo 1, comma 87, lettera a), il legislatore ha apportato sostanziali modifiche all’articolo 20 D.P.R. 131/86 che assumeva, conseguentemente, questa nuova formulazione, integrata e meglio specificata rispetto a quella precedente:

«L'imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell'atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall'atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi (v. dopo articolo 53 bis T.U.R. modificato, n.d.r.). ».

Già nella relazione illustrativa alla legge era evidenziata la finalità dell’intervento normativo, ossia «stabilire che detta disposizione deve essere applicata per individuare la tassazione da riservare al singolo atto presentato per la registrazione, prescindendo da elementi interpretativi esterni all'atto stesso (ad esempio, i comportamenti assunti dalle parti), nonché dalle disposizioni contenute in altri negozi giuridici "collegati" con quello da registrare».

Non rilevano, inoltre, sempre secondo la relazione, per la corretta tassazione dell’atto, «gli interessi oggettivamente e concretamente perseguiti dalle parti nei casi in cui gli stessi potranno condurre ad una assimilazione di fattispecie contrattuali giuridicamente distinte (non potrà, ad esempio, essere assimilata ad una cessione di azienda la cessione totalitaria di quote)».

Come si vede, questa nuova formulazione, negava in maniera esplicita ciò che in precedenza era sempre stato sostenuto dagli Uffici dell’Erario con il conforto giurisprudenziale della Cassazione.

Tuttavia, la relazione tecnica al disegno di legge si esprimeva genericamente in termini di “norma chiarificatrice”, ma il servizio del bilancio del Senato, nella nota di lettura n. 195 del disegno di legge ”Bilancio di previsione dello Stato per l'anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020”, pur rilevando che la precisazione normativa era finalizzata ad assicurare la certezza del diritto, potendo svolgere anche per il futuro una funzione deflattiva del contenzioso con l’Amministrazione Finanziaria, osservava come la stessa non sembrava avere natura di norma di interpretazione autentica in senso tecnico, con la conseguenza che «gli effetti della stessa dovrebbero valere per il futuro e non retroagirebbero quindi con riguardo alle fattispecie in essere ed ai contenziosi non ancora definiti».

In pratica, venivano fatti salvi gli accertamenti emessi dall’Agenzia delle Entrate secondo i precedenti criteri interpretativi e non quelli ancora da emettere in riferimento agli anni non ancora prescritti.

Come si diceva, però, tale legge di bilancio è intervenuta anche sul testo dell’articolo 53- bis del D.P.R. n. 131 del 1986, relativo alle attribuzioni e poteri degli Uffici, premettendo all’attuale formulazione l’inciso «fermo restando quanto previsto dall’articolo 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212» sull’abuso del diritto; cioè si introduceva sostanzialmente l’applicabilità della disciplina dell’articolo 10- bis non solo alle imposte dirette ma anche all’imposta di registro.

Di fatto, quindi, il nuovo T.U.R., se da un lato inibiva gli Uffici dell’Erario dal procedere, in maniera che potremmo definire indiscriminata, all’emissione di atti di accertamento su criteri meramente interpretativi, dall’altra, però, consentiva loro di utilizzare la “leva” del divieto di abuso del diritto ossia della presunta elusione fiscale.

Difatti, sempre nella relazione illustrativa al disegno di legge di bilancio 2018 si legge che «è evidente che ove si configuri un vantaggio fiscale che non può essere rilevato mediante l’attività interpretativa di cui all’articolo 20 del T.U.R., tale vantaggio potrà essere valutato sulla base della sussistenza dei presupposti costitutivi dell’abuso del diritto di cui all’articolo 10- bis della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto dei diritti del contribuente).

In tale sede andrà quindi valutata, anche in materia di imposta di registro, la complessiva operazione realizzata dal contribuente, considerando, dunque, anche gli elementi estranei al singolo atto prodotto per la registrazione, quali i fatti, gli atti e i contratti ad esso collegati.

Con le modalità previste dall’articolo 10- bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, potrà essere, quindi, ad esempio, contestato l’abusivo ricorso ad una pluralità di contratti di trasferimento di singoli asset al fine di realizzare una cessione d’azienda».

Tuttavia, tale possibilità di utilizzare l’articolo 10-bis della legge 212/2000 sul divieto di abuso del diritto incontrava non pochi limiti poiché, come meglio si vedrà in seguito, affinché un’operazione possa essere considerata abusiva, l’Amministrazione Finanziaria dovrà identificare e provare il congiunto verificarsi di tre presupposti costitutivi:

1)         la realizzazione di un vantaggio fiscale “indebito”, costituito da benefici anche non immediati, realizzati cioè in maniera formalmente conforme alle disposizioni fiscali ma oggettivamente in contrasto con la ratio di queste norme o con i principi dell'ordinamento tributario;

2)         l'assenza di “sostanza economica” dell'operazione o delle operazioni poste in essere consistenti in “fatti, atti e contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali”;

3)         l'essenzialità del conseguimento di un “vantaggio fiscale”.

L'assenza di uno dei tre presupposti costitutivi dell'abuso determina un giudizio di assenza di abusività.

Laddove invece le operazioni presentino i tre elementi indicati, ai sensi del comma 3 dell’articolo 10-bis, la ricorrenza di valide ragioni extra fiscali non marginali a giustificazione dell’operazione ne esclude l’abusività (così, ex multis, ris. n. 97/E del 2017).

Comunque, nonostante questo evidente cambio di rotta del legislatore, l’Agenzia delle Entrate, sempre confortata dalla Cassazione, ha continuato ad eseguire gli accertamenti, secondo la precedente interpretazione dell’articolo 20 in quanto la nuova formulazione, al di là dell’intento chiarificatore, non sembrava potersi applicare ad annualità precedenti al 2018 e, dunque, all’epoca ancora accertabili.

In pratica, quest’ultima interpretazione non pareva avesse efficacia retroattiva e, pertanto, potevano essere accertati, con i vecchi criteri, gli atti e i contratti registrati negli anni fino a tutto il 2017.

Successivamente il legislatore, al fine di dirimere definitivamente le diverse interpretazioni, anche interne alla stessa giurisprudenza di merito e di legittimità, è intervenuto nuovamente sull’argomento con l’articolo 1, comma 1084, della legge 30 dicembre 2018, n. 145 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2019 e bilancio pluriennale per il triennio 2019-2021), in forza del quale il citato articolo 1, comma 87, lettera a), della legge n. 205 del 2017 «costituisce interpretazione autentica» del censurato articolo 20 del D.P.R. n. 131 del 1986.

In tal modo, il legislatore, ha attribuito efficacia retroattiva alla norma inibendo gli “accertamenti” secondo criteri interpretativi.

Ciò nonostante, la Corte di Cassazione, al fine di salvaguardare la sua consolidata posizione, nell'ordinanza del 23 settembre 2019 n.23549, ha rimesso alla Corte Costituzionale, la questione di legittimità dell'articolo 20 del D.P.R. n.131/86 con riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, argomentandone la contrarietà con il principio di prevalenza della sostanza economica sulla forma giuridica; principio ritenuto "imprescindibile e storicamente radicato".

Come abbiamo detto il presupposto era la “riqualificazione giuridica”, effettuata dall'Agenzia delle Entrate ai sensi del cit. articolo 20, in termini di cessione d'azienda di un'operazione articolata in tre passaggi:

a) la costituzione di una nuova srl con socio unico (Alfa);

b) l'aumento del capitale liberato mediante conferimento di tre rami d'azienda, uno di titolarità del medesimo socio unico (Alfa), e due di titolarità di altre due società (Beta e Gamma);

c) la cessione delle quote di partecipazione alla società conferitaria assegnate ai soggetti conferenti Alfa, Beta e Gamma a favore di altra società, Delta, che così diveniva unica proprietaria.

La Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, con la propria Sentenza n. 142/43/2013 del 19 novembre 2013, avverso la quale era stato proposto ricorso alla Suprema Corte in riferimento alla fattispecie descritta, aveva a sua volta rilevato la legittimità della riqualificazione operata dall'Agenzia, in quanto l'operazione, pur articolata in diversi segmenti ritenuti collegati, doveva ritenersi sostanzialmente unitaria e con oggetto la cessione dei rami aziendali a favore di Delta in veste di cessionaria finale delle quote.

Sostanzialmente, gli argomenti che la Suprema Corte ha indicato a sostegno dell'ordinanza di rimessione sono:

- con riferimento all'articolo 53 Cost. - il sospetto che la previsione normativa di che trattasi, escludendo, l'ammissibilità di una riqualificazione giuridica della fattispecie sottoposta a registrazione fondata su di un eventuale collegamento negoziale, poteva sottrarre alla imposizione una tipica manifestazione di capacità contributiva;

- con riferimento all'articolo 3 Cost., e sempre nella prospettiva del rimettente, il dubbio era che la previsione stessa pareva idonea a realizzare una situazione di disuguaglianza, laddove - non potendo fare ricorso ad una interpretazione che renda plausibile una valorizzazione unitaria di occorrenze negoziali distinte a fini impositivi ma teleologicamente collegate - si rischiava di applicare differenziati trattamenti fiscali a seconda che il medesimo scopo pratico fosse realizzato attraverso una sola fattispecie negoziale piuttosto, appunto, che con più atti collegati.

 

4. La posizione della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale, con le Sentenze n. 158/2020 del 10/06/2020 e n. 39/2021 del 09/02/2021, ha quindi sostenuto l’infondatezza della questione costituzionale poiché «la disciplina censurata non si pone in contrasto né con il principio di capacità contributiva, né con quelli di ragionevolezza ed eguaglianza tributaria, con conseguente non fondatezza delle sollevate questioni».

Secondo la Consulta, infatti: «5.1.3.– Tale interpretazione evolutiva, cui la giurisprudenza della Corte di cassazione è pervenuta circa la rilevanza della causa concreta del negozio ai fini della tassazione di registro, tuttavia, non equivale a priori a un’interpretazione costituzionalmente necessitata, come invece ritiene il rimettente».

«5.2.– Nella specie, ad avviso di questa Corte, proprio muovendo dall’interpretazione del giudice a quo circa il significato da attribuire agli interventi legislativi del 2017 e del 2018, che hanno condotto all’attuale formulazione della norma censurata, è possibile ritenere compatibili con la Costituzione anche nozioni diverse, rispetto a quelle utilizzate dal rimettente, di «atto presentato alla registrazione» e di «effetti giuridici», in relazione alle quali considerare la capacità contributiva (articolo 53 Cost.), tenendo conto dell’individuazione delle voci in tariffa distintamente stabilite dal testo unico dell’imposta di registro».

«Va però preliminarmente ribadito che il senso fatto palese dal significato proprio delle parole della disposizione denunciata (secondo la loro connessione), i correlativi lavori preparatori (in particolare la relazione illustrativa all’articolo 1, comma 87, della legge n. 205 del 2017) e tutti i comuni criteri ermeneutici (in particolare, quello sistematico) convergono univocamente (nomofilachia n.d.r.) nel far ritenere che, nell’interpretare l’atto presentato a registrazione, si debba prescindere dagli elementi «extratestuali e dagli atti ad esso collegati», salvo quanto disposto dagli articoli successivi del medesimo D.P.R. n. 131 del 1986».

Peraltro, la Corte Costituzionale evidenzia come, stesso all’interno della Cassazione vi sia già stato un caso, sebbene isolato, nel quale è stato affermato che la riqualificazione «non può travalicare lo schema negoziale tipico nel quale l’atto risulta inquadrabile, pena l’artificiosa costruzione di una fattispecie imponibile diversa da quella voluta e comportante differenti effetti giuridici» (Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 27 gennaio 2017, n. 2054, successivamente richiamata dalla Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 15 gennaio 2019, n. 722, quest’ultima a sua volta ripresa dalla Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 10 marzo 2020, n. 6790, dove peraltro riaffiora la natura antielusiva dell’articolo 20).

«Anche in conseguenza di tale contrasto (la citata sentenza della Corte di Cassazione n. 2054 del 2017 è menzionata nella relazione illustrativa all’articolo 1, comma 87, della legge n. 205 del 2017), il legislatore tributario è intervenuto sull’articolo 20 stabilendo espressamente – in sostanziale adesione alla giurisprudenza minoritaria della Corte di cassazione – che, nell’interpretare l’atto presentato a registrazione, ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro, si debba prescindere dagli elementi «extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi»

«5.2.3.– Pertanto, il legislatore, con la denunciata norma ha inteso, attraverso un esercizio non manifestamente arbitrario della propria discrezionalità, riaffermare la natura di “imposta d’atto” dell’imposta di registro, precisando l’oggetto dell’imposizione in coerenza con la struttura di un prelievo sugli effetti giuridici dell’atto presentato per la registrazione, senza che assumano rilievo gli elementi extratestuali e gli atti collegati privi di qualsiasi nesso testuale con l’atto medesimo, salvo le ipotesi espressamente regolate dal testo unico».

Inoltre, continua la Corte Costituzionale, che, «in proposito, va sottolineato come detta sottrazione potrebbe rilevare sotto il profilo dell’abuso del diritto. Tuttavia lo stesso rimettente esclude decisamente (indicando a sostegno «l’indirizzo più recente» della giurisprudenza di legittimità) che l’articolo 20 del d.P.R. n. 131 del 1986 abbia una specifica funzione antielusiva e nel percorso motivazionale dell’ordinanza di rimessione non si sofferma sull’esistenza e applicabilità in concreto delle singole discipline antiabuso anteriori all’introduzione nell’ordinamento – sopravvenuta rispetto alla fattispecie oggetto del giudizio a quo – della esplicita clausola generale di cui all’articolo 10-bis della legge n. 212 del 2000 (espressamente richiamato per il sistema dell’imposta di registro dall’attuale formulazione dell’articolo 53-bis del d.P.R. n. 131 del 1986)».

 

5. L’abuso di diritto o elusione fiscale nel T.U.R.

In definitiva, dunque, anche secondo la Corte Costituzionale, l’Agenzia delle Entrate conserva la possibilità di interpretare un atto complesso, sottoposto a registrazione, non più secondo l’articolo 20 del T.U.R quanto, piuttosto, considerato il rinvio dell’articolo 53 bis T.U.R., attraverso l’articolo 10-bis della L. 212/2000 concernente il divieto di abuso del diritto.

Per comprendere, però, fino a che punto l’Agenzia delle Entrate può concretamente fare ricorso a questo articolo di legge bisogna fare riferimento alle stringenti disposizioni dello stesso che, di fatto, ne limitano notevolmente la portata.

Difatti:

«1. Configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti»

«2. Ai fini del comma 1 si considerano: a) operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. »… mentre sono «b) vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario»

«3. Non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni extrafiscali, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell'impresa ovvero dell'attività professionale del contribuente».

«4. Resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale».

«5. Il contribuente può proporre interpello ai sensi dell'articolo 11, comma 1, lettera c), per conoscere se le operazioni costituiscano fattispecie di abuso del diritto».

«6. … l'abuso del diritto è accertato con apposito atto, preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni, in cui sono indicati i motivi per i quali si ritiene configurabile un abuso del diritto».

«7. La richiesta di chiarimenti è notificata dall'Amministrazione Finanziaria ai sensi dell'articolo 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni (“notifica rafforzata” - n.d.r.), entro il termine di decadenza previsto per la notificazione dell'atto impositivo. …».

«8. … l'atto impositivo è specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva, alle norme o ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente…».

«9. L'amministrazione finanziaria ha l'onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva …  Il contribuente ha l'onere di dimostrare l'esistenza delle ragioni extrafiscali …».

«12. In sede di accertamento l'abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie».

«13. Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. …».

Riepilogando, quindi:

- l'atto impositivo deve essere specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva, alle norme o principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati e ai chiarimenti forniti dal contribuente;

- nel procedimento di accertamento dell'abuso del diritto l'onere della prova della condotta abusiva graverà sull'amministrazione finanziaria, mentre il contribuente sarà tenuto a dimostrare la sussistenza delle valide ragioni extrafiscali che stanno alla base delle operazioni effettuate;

- l'abuso del diritto non potrà essere rilevato d'ufficio da parte del giudice tributario. In caso di ricorso contro l'atto impositivo, i tributi o i maggiori tributi accertati in applicazione della disciplina dell'abuso del diritto, unitamente ai relativi interessi, potranno essere iscritti a ruolo solo dopo la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale;

- l'accertamento per abuso del diritto potrà scattare solo se l’Ufficio non potrà invocare, ai fini dell'accertamento, la violazione di specifiche norme tributarie;

- l'abuso del diritto non sarà penalmente punibile.

 

6. Conclusioni

Dopo le alterne vicende che hanno investito, per quasi un secolo, la sua interpretazione, sembrerebbe che oggi, l’articolo 20 del T.U.R., abbia trovato la necessaria chiarezza e che questa contribuirà ad eliminare l’enorme contenzioso fino ad oggi accumulatosi sull’argomento.

Tuttavia, l’Erario potrà continuare ad “interpretare” ed “accertare” gli atti soggetti a registrazione solo a condizione di riuscire a dimostrare che essi sono stati posti in essere al solo fine di realizzare quei processi, che potremmo definire di “ingegneria fiscale”, finalizzati all’elusione dei tributi; cioè dovrà provare che le operazioni poste in essere dai privati o dalle aziende, ancorché rispettose delle norme tributarie, siano idonee a determinare benefici o vantaggi fiscali indebiti, benché non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell'ordinamento tributario.

Ma per poterlo fare dovrà utilizzare la non facile leva dell’articolo 10-bis della L. 212/2000 che pone una serie di notevoli limitazioni, di forma e di sostanza, poste dal legislatore proprio al fine di contrastare l’uso eccessivo degli avvisi di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate.