x

x

Achille Funi: in mostra a Milano le opere di uno dei grandi maestri del ‘900

Achille Funi
Achille Funi

Achille Funi: in mostra a Milano le opere di uno dei grandi maestri del ‘900

Chissà per quanto tempo sarà ancora necessario occuparci del secolo passato, non foss’altro che per ricordare autori volutamente ignorati, sottovalutati o dimenticati. Autori caduti in prescrizione non per l’effetto sopravvenuto di nuovi gusti e tendenze ma per la deliberata volontà di cancellare, con la memoria, una misura di qualità, eliminare la possibilità di raffronto, rendere impossibile la costatazione della successiva caduta. L’arte italiana della prima metà del Novecento per i cinquant’anni successivi ha subito il diktat di un’ottusa censura irremovibile nell’assolvere e plaudire come nel decretare l’ostracismo. Non pochi artisti si sono visti imporre il “burka” del silenzio stampa per impedire che ci si accorgesse di loro, che potessero infastidire i nuovi arrivati anche solo con la loro innata dignità e consapevolezza- La critica, come sempre in questi casi, salvo rarissime, encomiabili quanto inascoltate eccezioni tace timorosa o si vende ai nuovi potenti: la politica e il business internazionale, due aspetti della moderna tirannia.  Dal lento faticoso disgelo cominciano ora a riaffiorare nomi e opere, programmi generosi sogni arditi che conobbero risultati lusinghieri dei quali, a differenza dell’Italia, l’Europa sembra aver preso atto. Torna a profilarsi il volto di un’epoca e degli autori che la segnarono in umiltà e serietà d’intenti, coltivati anche a prezzo di sacrifici.

Achille Funi, maternità
Achille Funi, maternità

A Milano, (Spazio Oberdan fino al 24 febbraio 2002, catalogo Mazzotta) il volto bonario di Achille Funi è tornato a guardarci dai suoi autoritratti e a farsi guardare nelle composizioni che seppero suscitare il mito e la storia, narrare la vita quotidiana nella sua realtà di speranze, fantasie, simboli.   Chi ha conosciuto di persona l’artista ferrarese prova un certo disagio dovendo conciliare il ricordo della sua mite, affabile figura con la forza superba, condotta fino a sfiorare l’enfasi, di certe realizzazioni. Un uomo tranquillo ma dal pensiero forte: “Vorrei essere un leone”, un leone non certo per incutere paura e men che mai per imporsi, ma perché fossero determinanti zampate le sue pennellate e potente l’intervento, l’evocazione e la vita da immettere nei dipinti. Alla sua nascita le Muse madrine avevano suggerito come nomi di battesimo quelli di Virgilio e Socrate, ma lui al momento opportuno vorrà aggiungere un Achille privilegiandolo; il senso della lotta nella quale coinvolgere la poesia e la saggezza ricevute. La mostra milanese, curata da Elena Pontiggia e Nicoletta Colombo, ha un taglio singolare e accattivante; una serie di assaggi scelti nei diversi momenti dell’opera di questo artista che volle cantare in solitudine i fatti, i sogni e le speranze degli uomini confondendo la realtà del momento ai fasti della storia e alla poesia del mito.                                                                                   

Il Futurismo, in Funi si rivela invece come un’effimera, fugace parentesi, un inciso estraneo che non apporta nuove esperienze o suggestioni, una breve sosta non prevista e non richiesta da questa natura d’artista che ama la quiete dell’immagine come nella vita. Per lui una realtà tangibile restano il mito e la storia, potenzialità costantemente presenti che basta saper riconoscere, sotto le mentite spoglie di tempi ingrati, per riportarli alla verità della loro natura. Richiamata dall’arte, la nuova epifania trasformerà il presente attraverso l’azione feconda del ricordo, delle testimonianze e della volontà. Il pittore ne è convinto e si adopera in tal senso. Se questi di Funi sono interpretabili come sogni, vanno però intesi nel senso del desiderio e della speranza più che di una fantasiosa attività onirica; i normali sentimenti sembrano banditi, si tratta di momenti particolari da tramandarsi e per i quali occorre essere predisposti, iniziati. Alle figure della quotidianità o del mito, non è richiesta una partecipata sofferenza ma la testimonianza del già avvenuto, l’attuazione del ricordo.    

Achille Funi
Achille Funi


In uno dei quadri più noti di questo versatile pittore, Publio Orazio pugnalerà la sorella, già predisposta al sacrificio sorretta da un’ancella, subito dopo che l’artista avrà fissato la scena sulla tela. Non si vuole l’azione, il dolore, il sangue, ma l’avvenimento e l’esempio riproposti in un’immobilità dominata dal fato, incombente tramite il simulacro profanato di una dea, la Venere di CireneLa sua idea di classicità, nella sua espressione più ampia, Achille Funi l’ha nel sangue; si perde a seguirla nei reperti antichi, nelle testimonianze della storia e nella forma delle statue; la mutua dalle pose e dai costumi senza accorgersi di averla già raggiunta in figure come quella de “La sorella Margherita con la brocca”, tanto per fare un esempio. Figura che è un’apparizione imperiosa e dallo sguardo ambiguo e stranito; coagulo di esperienze diverse culminanti in una metafisica ovvia che va ben oltre il, reale apparente.     Nel percorso senza brusche scosse (confortato sempre da un invidiabile mestiere), non mancano le tracce dei diversi modi espressivi e soluzioni tecniche adottate in altri autori del suo tempo. Da una “maniera” ricorrente del modellato delle vesti (che sembrano ottenute da un tornio sfuggito al proprio asse per comporre ghirigori contorti e innaturali accartocciamenti, si pensi al grembiule e alla manica del bambino nella “Maternità” del 1921) alla materia felpata adottata nei volti, nelle stoffe, negli oggetti e nelle atmosfere in dipinti quali “Nell’atelier” del 1930, una maniera comune a tanti suoi colleghi e costante in Felice Carena. Poi una pennellata sciolta finisce per imporsi, costringendo lo stesso pennello a ritrovare la forma profilando qua e là, con un segno scuro, il colore che sfugge volentieri al controllo nel ricordo dei grandi veneti filtrati attraverso l’impressionismo.       

I dieci autoritratti che introducono alla mostra rappresentano le credenziali, la carta d’identità dell’artista, rinnovata regolarmente, valida pressoché per l’intero corso del suo lavoro. Nella quiete del suo studio trova in sé stesso il primo e sempre disponibile modello, ripropone lineamenti noti appena corretti dal tempo e quindi un’aggiornata reinterpretazione, mentre nell’-a tu per tu- tra specchio e tela fluisce costante una confessione consapevole, scorre il filmato di una vita che va dall’uomo al pittore in una sfida, è il caso di dirlo, a viso aperto. L’intera serie di questi autoritratti potrebbero rappresentar dettagliatamente le età dell’uomo e le fasi di una professione, uno stile di vita e una coscienza d’artista.

Achille Funi
Achille Funi

Anche la stagione dell’affresco viene vissuta dal Nostro con immediata, prevedibile partecipazione. La proposta di Mario Sironi, negli anni Trenta, solleva un entusiasmo stupendamente contagioso, non pochi artisti si riconoscono in questa che è la tecnica più bella, più ascetica più antica. Per Funi vuol dire ritrovare la classicità anche nel modo di dipingere, dall’intonaco ai colori, dai tempi di attesa alle dimensioni. Sacro e profano riacquistano un senso attraverso la grande decorazione murale e lui potrà trovarsi a proprio agio in quella rinascita di Dio e degli dei, in quella stagione purtroppo effimera. Una stagione, appunto, un momento quando sarebbero stati necessari tempi lunghi, ininterrotti. Ritrovare Achille Funi in questa mostra allo Spazio Oberdan ha, oltretutto anche il sapore di un impegno. Quello di riprendere la lettura della storia dell’arte nel segno esclusivo della verità e della bellezza.   

   LIBERO- MI- 8 gennaio 2002