Agenzia: esclusiva e indennità di fine rapporto

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La sentenza del Tribunale di Bologna in commento (n.1356 del 3 ottobre 2020, G.I. Dott. Marco Gattuso) affronta due temi interessanti in materia di agenzia:

 

(i) l’esclusiva a favore della preponente e il suo carattere di elemento naturale e non essenziale del contratto e

 

(ii) l’esistenza dei presupposti dell’indennità di fine rapporto eventualmente dovuta all’agente, previsti cumulativamente dall’articolo 1751 del Codice Civile e, in particolare, la prova della sussistenza del presupposto cumulativo per cui “il preponente riceva ancora sostanziali vantaggi derivanti dagli affari con detti clienti (n.d.r. clienti procurati oppure già esistenti e sviluppati dall’agente nel corso del rapporto)”.

La sentenza muove dalla domanda, svolta dall’agente, di accertamento dell’assenza di giusta causa nella risoluzione del contratto di agenzia comunicata dalla preponente e di condanna della medesima al pagamento delle indennità di mancato preavviso e di fine rapporto, oltre alle provvigioni maturate e non versate.

Nel caso di specie, la risoluzione era stata comunicata dalla preponente all’agente con diffida a cessare l’attività di promozione commerciale di prodotti in concorrenza con quelli della preponente entro un termine assegnato; l’agente – plurimandatario – eccepiva l’assenza, nel contratto, di esclusiva a favore della mandante.

Posto che l’esclusiva non è un elemento essenziale e inderogabile del rapporto di agenzia, ma, al contrario, un elemento naturale e derogabile dalle parti in forza di clausola contrattuale e, persino, mediante una tacita manifestazione di volontà “desumibile dal comportamento tenuto dalle stesse parti sia al momento della conclusione del contratto, sia durante la sua esecuzione” (Cfr. Cassazione civile, sentenza n.17063 del 9.10.2007), il Tribunale di Bologna rinveniva l’intenzione delle parti di derogare all’esclusiva (i) sia nel comune intento manifestato in sede di trattativa precontrattuale, (ii) sia nelle modifiche apportate al testo originario del contratto di agenzia (iii) che, infine, nella condotta tenuta da entrambe le parti nel corso del rapporto.

La clausola di esclusiva inizialmente prevista dal contratto di agenzia proposto dalla preponente all’agente era infatti stata sostituita, su richiesta dell’agente (come provato in corso di causa), da una clausola che concedeva invece espressamente all’agente plurimandatario la facoltà di agire in regime di concorrenza nel “tipo di attività commerciale, attività che veniva pertanto autorizzata in modo generico “nei suoi elementi caratteristici”, senza alcun specifico riferimento a determinati prodotti o a singoli clienti autorizzati rispetto ad altri da considerarsi invece esclusi.

Nel corso del procedimento emergeva, peraltro, che la preponente era sempre stata al corrente del fatto che l’agente, già prima della conclusione del contratto, promuoveva uno dei prodotti che nella lettera di diffida venivano contestati come in concorrenza con i propri e che, della promozione degli altri due prodotti contestati, la preponente era comunque venuta a conoscenza nel corso del rapporto e nulla aveva eccepito all’agente per diversi anni.

L’attività svolta dall’agente per la commercializzazione dei tre prodotti indicati dalla preponente nella lettera di diffida era peraltro pubblicizzata – durante la vigenza del rapporto di agenzia – in un sito internet frequentato dai professionisti del settore e, pertanto, ben nota e indiscutibilmente tollerata dalla preponente.

Anche alla luce del principio di buona fede, il Tribunale escludeva pertanto che, come asserito dalla difesa della preponente, la clausola contrattuale limitasse l’attività concorrente dell’agente ai soli specifici prodotti già commercializzati e non, come risultante dalla lettera della clausola contrattuale, al “tipo di attività” svolta: le parti avrebbero altrimenti dovuto limitare la deroga all’esclusiva con una specifica elencazione di prodotti e/o indicazione dei marchi e dei clienti ritenuti non lesivi dell’attività della preponente e ciò non era avvenuto. La deroga all’esclusiva era pertanto di portata generale.

Ritenuto, pertanto, che la preponente avesse risolto il contratto di agenzia in assenza di giusta causa, all’agente venivano riconosciute l’indennità di mancato preavviso e l’indennità di cessazione del rapporto.

Quanto a quest’ultima, richiesta dall’agente ai sensi dell’articolo 1751 del Codice Civile o, in via subordinata, dell’articolo 13 dell’AEC applicabile, la decisione del Tribunale adito si colloca nel solco della giurisprudenza dominante che – a seguito dell’interpretazione della Corte di Giustizia delle Comunità europee del 23 marzo 2006, nella causa C465/04 – ritiene si debba privilegiare e applicare (fra quella codicistica e quella pattizia) la normativa che, in concreto, alla luce del rapporto concluso, assicura all’agente il risultato migliore in termini di indennità di fine rapporto.

Di conseguenza, dovendo l’indennità prevista dall’AEC essere applicata solo quando, in concreto, non spetti all’agente l’indennità di legge in misura superiore, nel caso concreto si procedeva alla valutazione dell’esistenza del diritto all’indennità e alla sua quantificazione ai sensi della disciplina codicistica.  

L’articolo 1751 del Codice Civile prevede il diritto dell’agente all’indennità di cessazione al ricorrere di due presupposti, cumulativi fra loro, (i) che l’agente abbia procurato nuovi clienti alla preponente o sensibilmente sviluppato gli affari della preponente con i clienti esistenti nel territorio (requisito che, nel caso di specie, risultava documentalmente provato) e (ii) che la preponente continui, dopo la cessazione del rapporto, a ricevere sostanziali vantaggi dagli affari con tali clienti.

Quanto al secondo presupposto, solo nelle osservazioni del CTP della preponente alla relazione del CTU, il consulente della preponente allegava la mancanza dei vantaggi sostanziali, peraltro ammettendo che si trattasse di circostanza della quale solo la preponente poteva avere contezza e fornire la prova. Nulla era stato eccepito invece, sul punto, nella comparsa di costituzione e risposta della preponente, ad eccezione di contestazioni del tutto generiche.

Osserva il Tribunale che “quando un fatto sia relativo ad una sola parte, sia solo dalla stessa conosciuto in quanto attinente alla sua sfera personale (in questo caso in quanto relativo alle proprie attività commerciali, così come risultanti dalla propria contabilità) non può certo muoversi alla controparte il rimprovero di non averlo allegato in modo specifico e di non averlo provato. Tanto il generale onere di contestazione dei fatti allegati dalla controparte, ex art. 115, primo comma c.p.c., quanto l’onere di allegazione dei fatti entro i termini di cui all’articolo 183, sesto comma c.p.c., quanto il principio di vicinanza della prova, conducono a escludere che nel caso di specie la circostanza de qua potesse essere allegata per la prima volta soltanto in sede osservazioni alla relazione del c.t.u., vieppiù ove si tenga conto che nel caso di specie i fatti allegati e provati dalla parte attrice (sostanziale incremento degli affari) inducono senz’altro a una presunzione semplice di sussistenza anche del diverso fatto (permanenza di concreti vantaggi)”.

Il Giudice riteneva pertanto sussistente, per la mancata e specifica contestazione, anche il secondo requisito previsto dall’articolo 1751 del Codice Civile quale presupposto del diritto dell’agente all’indennità di cessazione del rapporto e, per l’effetto, condannava la preponente al pagamento a favore dell’agente, nella misura del 75% – ritenuta equa tenuto conto di tutti gli elementi emergenti dalla trattazione e, in particolare, dalla relazione del CTU – dell’importo massimo individuato dal terzo comma dalla disposizione codicistica (“L’importo dell’indennità non può superare una cifra equivalente ad un’indennità annua calcolata sulla media annua calcolata sulla base media annuale delle retribuzioni riscosse dall’agente negli ultimi cinque anni”).